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mercoledì 21 ottobre 2015

«SYRIANA», di Pier Francesco Zarcone

L'intervento russo in Siria ha scombinato e di molto l'assetto della scacchiera del Vicino e Medio Oriente, e le conseguenze militari e politiche già si vedono. Sul piano militare si assiste ad azioni di bombardamento ben più massicce di quelle finora effettuate dalla scombiccherata "coalizione" messa su da Obama; nella guerra delle opposte propagande si registrano informazioni russe che danno nel mirino tutto il fronte della ribellione, Isis inclusa, mentre gli Stati Uniti accusano la Russia di colpire soprattutto (se non esclusivamente) i cosiddetti ribelli "moderati", cioè la fazione finora sponsorizzata e rifornita da Washington e la cui "moderazione" è solo asserita dal governo statunitense. Probabilmente anche in tale polemica la verità sta nel mezzo, e d'altro canto è ovvio che l'aviazione russa colpisca pure l'Esercito Libero Siriano, altrimenti quale intervento in favore di Assad sarebbe mai? Intanto va preso atto del deciso incremento dell'azione terrestre sviluppata dall'Esercito Arabo Siriano del governo di Damasco col sostegno aereo russo - ne riparleremo in seguito. Comunque non pare che in Iraq l'aviazione occidentale sostenga allo stesso modo l'esercito di Baghdad. Ma poiché la situazione bellica si va evolvendo, se ne devono solo attendere gli sviluppi.

CONSEGUENZE POLITICHE E OBIETTIVI DIVERGENTI DELLE PARTI IN CAUSA

Si tratta di conseguenze multiple. In primo luogo si deve evidenziare l'oggettivo rafforzamento (anche militare) dell'asse sciita nella regione (Iran, Siria di Damasco, Iraq di Baghdad, Hezbollāh libanese, Houthi yemeniti), in parallelo con l'altrettanto palese fallimento della politica di Obama. In relazione a essa la recente dichiarazione del presidente della Repubblica Ceca, Miloš Zeman, sulla mancanza di vere alternative ad Assad è frutto di semplice buon senso, in quanto l'Isis - che sarebbe l'unica alternativa reale - non può essere considerato tale. Interessante notare che in relazione a questo problema le posizioni cominciano a non essere più rigide come ieri: è del 20 ottobre la notizia che addirittura l'Arabia Saudita potrebbe "tollerare" la permanenza di Assad in una fase di transizione, almeno secondo quanto ha detto il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubayr, all'emittente satellitare Al Arabiya.
In merito all'attuale asse Mosca-Teheran, va rimarcato un particolare non molto conosciuto: il piano d'azione russo in Siria è stato elaborato da un generale iraniano (Qassem Soleimani, comandante della forza d'élite Quds, addestrata a operare fuori dall'Iran e direttamente sottoposta ad Ali Khamenei), e Putin l'ha accettato dopo una riunione a Mosca nello scorso luglio.
Il cosiddetto Esercito Libero Siriano è sempre stato la classica "bufala" di cui anche il governo statunitense alla fine si è ufficialmente reso conto, quand'anche tardivamente. È probabile che l'intervento di M.K. Bhadrakumar sull'Indian Punchline del 10 ottobre 2015 sia venato da eccessivo ottimismo; egli sosteneva infatti che gli Stati Uniti addirittura si starebbero ritirando dalla guerra civile in Siria, eliminando reclutamento e addestramento dei gruppi ribelli finora sostenuti per concentrarsi nella lotta all'Isis. Vero è che la strategia mirante al cambio di regime in Siria Obama l'ha ereditata dalla precedente amministrazione repubblicana. Tuttavia egli ha continuato a portarla avanti indipendentemente dai suoi crescenti esiti disastrosi. L'ultimo tentativo è consistito nell'addestramento speciale di 5.400 combattenti (che sarebbero dovuti arrivare a 15.000 nel 2018): fatto sta che alla fine dello scorso luglio un gruppo di questi combattenti - ancora fresco dell'addestramento yankee - attaccato dai qaidisti di al-Nusra ha reputato cosa migliore abbandonare loro il proprio armamento senza troppo resistere. In realtà Casa Bianca e Pentagono hanno annunciato un mero cambio di programma, che probabilmente si risolverà in un'altra bolla di sapone: cioè a dire, si abbandona il progetto di creare una forza armata siriana presuntamente in grado di fare fronte all'Isis, e si annuncia un "riorientamento" progettuale col fine - secondo quanto comunicato dal Pentagono - di addestrare e armare un «ristretto gruppo di leaders che possano progredire nel territorio controllato dall'Isis», e le cui attività sarebbero continuamente monitorate dagli Stati Uniti, per evitare che il loro armamento finisca di nuovo in mani jihadiste. Chi vivrà vedrà. Intanto - come notava di recente su Le Monde Gaïdz Minassian - si assiste (com'era prevedibile) all'ennesimo fallimento degli organismi internazionali, con ben 4 dei 5 membri del Consiglio di Sicurezza impegnati a bombardare in Siria, e con la Cina che potrebbe decidersi a un intervento militare (ovviamente non al fianco degli Usa). Ma se il fallimento della strategia statunitense risulta totale, non per questo l'obiettivo del cambio di regime a Damasco verrà abbandonato tanto facilmente; come pure i piani di destabilizzazione del Vicino e Medio Oriente, per quanto resti evidente (al momento) la mancanza di effettivi sodali che non siano i radicali islamisti.
In Siria l'interesse geostrategico della Russia è chiaro: in linea generale non ha nessuna intenzione di assistere passivamente al realizzarsi dei ben noti progetti statunitensi di destabilizzazione del Vicino e Medio Oriente e di ridisegno della mappa regionale; e quindi, nello specifico, non vuole (né può) assistere all'avvento di un governo amico di Washington a Damasco. Il rafforzamento della tradizionale alleanza strategica con la Siria ha comunque fatto sì che la Russia disponga oggi di una base aerea sulla costa di Latakia (a sud della sua base navale di Tartus), dove ha finora stanziato 34 aerei (12 Su-25, 12 Su-24M2, 4 Su-30SM e 6 Su-34) e da cui può monitorare i voli statunitensi dalla base aerea turca di Incirlik. Va altresì considerato un ulteriore e importante profilo: evitare che la Siria diventi territorio di passaggio di una pipeline che porti sulla costa mediterranea il gas naturale del Qatar, nuocendo in tal modo agli interessi economici della Gazprom. E a ben vedere - sebbene ciò non sia ancora chiaro all'opinione pubblica internazionale (di corta memoria circa il cinismo ipocrita della politica estera statunitense) - l'ostilità di Washington verso l'attuale governo di Damasco non è dovuta né a Bashar al-Assad né al suo regime, giacché il vero nocciolo della questione si chiama "gas" anche per gli Stati Uniti, che infatti sono favorevoli (è ovvio) al progetto del Qatar.

IL GAS E LA RUSSIA

Ci si deve rifare alla svolta in politica energetica decisa da Putin a metà degli anni '90, istruito anche dai non positivi precedenti dell'Unione Sovietica, rovinata da una corsa agli armamenti non supportata finanziariamente da consistenti introiti derivanti dallo sfruttamento delle risorse energetiche. Da qui la decisione di Putin di svilupparne adeguatamente produzione, trasporto e commercializzazione, tenendo presente che l'attuale assetto della distribuzione internazionale del petrolio ha una concorrenzialità in cui la Russia difficilmente potrebbe inserirsi. E le maggiori concentrazioni di gas naturale si trovano in Russia, Turkmenistan, Azerbaigian, Iran, Georgia, Qatar, Egitto, Libano e infine Siria.
Trattandosi, oggi come oggi, di un'importantissima fonte energetica alternativa al petrolio e più "pulita", il controllo delle aree sede dei giacimenti è e sarà sempre di più causa di conflitti. Da qui la battaglia per i gasdotti (Nabucco, North Stream e South Stream) e la maggiore importanza strategica assunta da Libano e Siria. Non si dimentichi poi che a luglio del 2011 l'Iran aveva concluso gli accordi inerenti al trasporto del suo gas attraverso l'Iraq e la Siria, con la conseguenza che la Siria sarebbe diventata punto di collegamento con le riserve energetiche del Libano. E non casualmente lo scoppio della "guerra civile" siriana è stato per l'Occidente un "utile" ostacolo ai disegni dell'Iran; ma in realtà si è rivelato ostacolo anche per i progetti di distribuzione energetica del Qatar: infatti era prevista (o meglio, sperata) una breve durata del conflitto siriano, che invece dura già da quattro anni in quanto l'esercito regolare non si è squagliato come neve al sole, a differenza di quanto accaduto in Iraq. Senza entrare nella travagliata storia degli attuali progetti energetici, diciamo solo che il controllo della Siria - in quanto zona che ne contiene una grande quantità - è quindi essenziale per tutte le parti in causa nella tragedia siriana. Nel più ampio quadro del Vicino e Medio Oriente la competizione energetica richiede alla Russia un accresciuto ruolo. L'alleanza in corso tra Mosca e Teheran coinvolge due realtà che controllano il 45% dei giacimenti di gas naturale nel mondo, e le conseguenze si faranno sentire innanzitutto in Azerbaigian (un po' lontano dalla Siria, è vero, ma pur sempre paese musulmano a maggioranza sciita), che ha già firmato un contratto plurimiliardario di cinque anni con la Gazprom, e il cui avvicinamento a Mosca è dato anche dai cattivi rapporti con l'Armenia a causa del Nagorno Karabakh: lo dimostra il fatto che recentemente in Azerbaigian sono mutate in peggio le relazioni con le Ong legate agli Stati Uniti e all'Ue. Per restare più o meno nell'area, il ministro georgiano dell'Energia, Kakha Kaladze, ha dichiarato alla stampa la preferenza per il gas russo e l'interesse dalla Georgia a rifornirsi in futuro anche dall'Iran. Potrebbe essere il segnale di un mutamento (non certo gradito a Washington) delle relazioni tra Georgia e Russia. C'è da dire che tra gli economicamente danneggiati dall'intervento russo c'è pure la Turchia, speranzosa nel progetto del gasdotto del Qatar per portare gas in Europa attraverso la Siria e la Turchia medesima. Ciò vuol dire, per quest'ultima, o continuare a servirsi dei rifornimenti russi, o importarli da altro fornitore ma a maggior costo. D'altronde, i pessimi rapporti della Turchia con Cipro, Israele ed Egitto fanno sì che Ankara non possa collaborare con alcuno per lo sfruttamento del gas nel Mediterraneo orientale.
Infine un'annotazione: tra gli elementi della propaganda interna russa non opera solo l'iniezione di orgoglio per la ripresa del ruolo e della potenza moscovita in ambito internazionale: nella situazione odierna di quel paese c'è anche la ripresa del tradizionale fattore presovietico della difesa dei Cristiani (specie gli Ortodossi) nel Levante (e nei Balcani), tant'è che non casualmente il Patriarca di Mosca ha definito «guerra santa» l'intervento militare in Siria.

PROSPETTIVE POTENZIALI PER LA RUSSIA

È troppo presto per ritenere globalmente finita l'egemonia unipolare degli Stati Uniti nell'area, ma ci sono i segnali idonei a far pensare che la presenza russa si rafforzerà progressivamente. Non si tratta solo del rafforzamento della base navale di Tartus, dell'aumento delle basi aeree in Siria o dell'ampliamento in atto delle strutture di alcuni aeroporti. In primo luogo non ci si dovrà stupire se anche l'Iraq finirà con l'appoggiarsi alla Russia militarmente e politicamente, grazie anche agli errori compiuti da Usa e Ue, in virtù dei quali Mosca può apparire come portatrice di un piano più credibile nella lotta contro il jihadismo. D'altro canto, è già stato concluso lo scorso 27 settembre un accordo di cooperazione su intelligence e sicurezza tra Russia, Iraq, Siria e Iran. In definitiva la Russia ha dimostrato determinazione e rapidità di intervento non comparabili con l'azione degli Stati Uniti. Basti pensare che ad agosto, appena concluso l'accordo militare russo-siriano, il comando russo ha inviato vari consiglieri a Tartus e fornito immagini satellitari sulle posizioni dei jihadisti, permettendo all'aviazione siriana di individuare i loro convogli e movimenti per i conseguenti attacchi aerei, senza necessità di usare i droni. Inoltre, l'esibizione di potenza data dal bombardamento missilistico effettuato da navi dal mar Caspio non può che assicurare gli alleati e i simpatizzanti locali della Russia sulla serietà di tale partner. Come pure la disinvoltura con cui Mosca ha saputo aggirare i divieti di sorvolo dei paesi dipendenti dagli Stati Uniti.
Ma non finisce qui. L'intesa con l'Iran - indubbiamente più solida a seguito dell'intervento in Siria - in tempi non lunghi potrebbe portare all'ingresso a pieno titolo di questo paese (essendo favorevole la Cina) nell'Organizzazione di Cooperazione di Shanghai, organismo in cui Teheran è presente finora solo come osservatore. Inoltre il governo di Baghdad - di fronte all'ambigua ed esitante politica di Washington - sta sempre più pencolando verso Mosca, e incombe un grosso punto interrogativo circa le possibili future e disinvolte giravolte di quel fondamentale elemento arabo che è l'Egitto, peraltro alle prese con il nemico jihadista "in casa propria". Al riguardo vanno registrati taluni avvenimenti illuminanti sulle attività russe e sui "giri di valzer" egiziani. Ai primi di marzo il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu e quello egiziano Sedki Sobhi hanno firmato un memorandum d'intesa per la cooperazione militare fra i loro due paesi; accordo che contempla l'invito di delegazioni militari egiziane alle manovre militari in Russia come osservatori e l'effettuazione di manovre navali nel Mediterraneo orientale entro la fine del 2015 per determinare la possibilità di reazioni rapide antiterrorismo. Inoltre è in vigore un contratto fra Russia ed Egitto per la fornitura di armamenti valorizzati in 3 miliardi e mezzo di dollari e comprensivi di sistemi missilistici avanzati per la difesa aerea, elicotteri d'attacco, jet MiG-29 migliorati e sistemi anticarro di ultima generazione. Sembra che verranno fornite anche artiglieria, armi leggere e di supporto. Infine Putin e al-Sisi di recente hanno firmato anche un accordo per la costruzione di centrali nucleari in Egitto da parte della Russia.
Può sembrare paradossale e illogico per vari motivi, fatto sta che ora Putin punta ad agganciare anche l'Arabia Saudita mediante rapporti commerciali e militari, e in quest'ottica la vendita di Mosca a Riyad di 900 vetture da combattimento Bmp-3 non è solo una maniera per iniettare 10 miliardi di dollari nell'economia russa. In definitiva, se Putin riuscirà a non impantanarsi in un secondo Afghanistan e a condurre adeguatamente l'intervento in favore del governo di Damasco, è prevedibile che Mosca disporrà di varie carte da giocare nella regione.

PROSPETTIVE OCCIDENTALI ERRONEE

Non si può negare che finora la propaganda e l'azione dei governi occidentali siano rimaste pervicacemente legate a una visione del conflitto siriano non più corrispondente alla realtà delle cose. Vale a dire, si è mantenuta - in buona o mala fede - la tesi della guerra civile di una parte del popolo siriano contro il regime baathista di Damasco, e non si è mai preso atto delle dinamiche riscontrabili nella società siriana in questi quattro anni di guerra. Con l'"Esercito Libero Siriano" che non va oltre l'essere fenomeno marginale, e con l'estrema preponderanza assunta dai jihadisti stranieri nella lotta contro Assad, non deve stupire il ricompattamento sociale avvenuto in Siria attorno ad Assad, visto come l'unica difesa locale contro la barbarie della violenza islamista.
I media occidentali non prendono in considerazione tale aspetto, e preferiscono sottolineare che Assad controlla solo il 20% circa del territorio siriano, presentando ciò come sintomo della sua prossima e inevitabile caduta. "Logicamente" non si dice - e non è detto che il loro pubblico lo sappia - che le zone perdute da Damasco sono in genere desertiche e il territorio abitabile è assai ridotto rispetto all'insieme. Assad, dal canto suo, ha preferito difendere le zone più popolate, quand'anche ciò abbia implicato al momento la perdita del controllo di giacimenti di gas e di petrolio. Sostiene Damasco che se il 20% della popolazione è stato costretto dalla guerra a rifugiarsi all'estero, ben il 75% si trova nella zona controllata dall'Esercito Arabo Siriano, mentre nei territori in mano ai jihadisti vivrebbe solo il 5% circa dei cittadini siriani.
Un altro errore di prospettiva consiste nell'utilizzare ancora la lente deformante della "Primavera araba", mito abbacinante (e ormai abbastanza sorpassato) in buona parte creato dagli stessi media occidentali. Oggi in Siria esiste solo (o in gran parte) una guerra contro i jihadisti e il loro barbaro e sanguinario progetto di società.

E LA FRANCIA?

La Francia risulta appiattita sulle posizioni statunitensi e, in assenza di uno scatto di autonomia operativa (di cui peraltro non si vede segnale alcuno), perderà comunque quand'anche Washington alla fin fine riuscisse a spuntarla. Ovviamente il governo francese, nel suo deciso schierarsi sul versante più bellicoso del fronte anti-Assad, ha pensato di trarne costrutto magari muovendo da una sopravvalutazione delle proprie possibilità. Tra gli gli osservatori circola la tesi secondo cui - nell'attuale fase di maggiore concentrazione dell'apparato militare statunitense verso l'Estremo Oriente a scapito del Golfo Persico - la Francia ambirebbe a prendere lì il posto degli Usa, ricavandone lucro dalle locali monarchie reazionarie. E le malelingue collegano queste ambizioni al finanziamento dato dal Qatar (attraverso la Exxon-Mobil dei Rockefeller) alla campagna elettorale di Hollande. Naturalmente anche Parigi è interessata al business del gas siriano, intanto congelato dalla guerra e di cui comunque resta ignota quanta parte lascerebbero gli Usa agli affaristi di Parigi. Al momento la Francia deve contentarsi di ricavi dalla vendita di armamenti nel Levante, ma non senza qualche difficoltà. L'ordinativo miliardario dell'Arabia Saudita per armi da destinare alle Forze armate libanesi ha suscitato l'opposizione di Israele, per cui la Francia attualmente si è dovuta contentare di vendere solo veicoli e pistole per 700 milioni di dollari. Pure la vendita al Qatar di 24 aerei - per 6,3 miliardi di euro - ha avuto risvolti non del tutto positivi, giacché il governo qatariota ha preteso l'abbandono da parte di Air France di alcune redditizie linee a favore della Qatar Airways. Ma tutto sommato questi sono dettagli.
Di maggiore importanza restano altri aspetti strategici. Non si può affatto escludere che l'improvvida iniziativa francese in Libia abbia fatto parte dei fattori presi in considerazione dalla Russia per intervenire in Siria a difesa dei propri interessi e dell'alleato Assad, prima che i franco-anglo-statunitensi realizzassero un'altra delle loro devastanti iniziative. Si può anche aggiungere che l'abbandono della politica di De Gaulle nel Levante non solo è rimasta priva di vantaggi immediati e prospettici, ma altresì la scelta anti-Assad non è stata propizia per l'interesse di Parigi a un'efficace lotta contro il terrorismo islamista in casa propria, essendo venuto meno il prezioso apporto delle informazioni dell'intelligence antiterrorista siriana. Quella francese è quindi un'ambizione di grandeur non supportata né dai mezzi né, tantomeno, da una politica realista, produttiva e "di lungo corso".

INTANTO CONTINUA LA GUERRA IN SIRIA

In questi quattro anni di guerra l'Esercito Arabo Siriano si è dovuto confrontare con una vera e propria invasione di orde islamiste (in buona parte stranieri) fanatizzate dalla rete di moschee wahhabite costituite un po' dovunque dall'Arabia Saudita e finanziate da essa e dalle monarchie del Golfo Persico. Inoltre sono stati facilitati in ogni modo dalla Turchia di Erdoğan. I jihadisti all'inizio attaccarono le città senza consistente presenza di truppe e lontane dai maggiori concentramenti delle Forze armate (Hama, notorio centro di islamismo radicale; Homs e Aleppo). L'intento consisteva nel far allontanare le truppe di Damasco dai punti nevralgici dello Stato, per poi penetrarvi con maggiore facilità una volta attirate le forze siriane nei settori attaccati. Gli sforzi militari del governo di Damasco si sono concentrati immediatamente nel mantenimento del controllo della capitale e della costa mediterranea, peraltro quella maggiormente abitata. Da qui l'impressione di una reazione lenta, difficoltosa e animata da un'asserita (dai media occidentali) exit strategy. Cioè a dire, più volte è stato affermato che, trovandosi sulla zona costiera la base navale russa di Tartus e Latakia, roccaforte degli sciiti Alawuiti (a cui appartengono Assad e buona parte della dirigenza siriana), Assad stesse pensando - alle brutte - a una ritirata da quelle parti per salvare quanto ancora ci fosse di salvabile. Escludere totalmente l'esistenza di una tale exit strategy potrebbe essere azzardato, ma forse essa va limitata all'ultima e peggiore delle ipotesi sul piano militare. In realtà, a giocare essenzialmente in favore della scelta strategica di Damasco possono esserci state esigenze militari e - diciamo così - diplomatiche. In relazione a queste ultime è evidente che a Damasco è stato chiaro da subito che le possibilità di resistere alla potente aggressione eterodiretta consisteva nel mantenere aperti canali (anche fisici, cioè territoriali) con Russia, Iran e Hezbollāh libanese, gli unici da cui ci si poteva attendere aiuti materiali e appoggio internazionale.
Innegabilmente la primissima fase della guerra è stata terribile per l'Esercito Arabo Siriano, che non riusciva a reggere alla frammentazione dei fronti di combattimento determinata dall'aggressore jihadista. Un "conforto" era venuto solo dal referendum costituzionale tenutosi nel febbraio 2012 e dalle elezioni politiche nella primavera dello stesso anno: eventi la cui partecipazione popolare ha dimostrato (solo a chi volesse vederlo, però) che nella maggior parte i cittadini siriani (a prescindere dalle sfumature psicologiche e ideologiche) non erano dalla parte né dei ribelli assertivamente "moderati", né dei jihadisti. Naturalmente le schede elettorali non hanno peso militare: Assad scampò per un pelo a un attentato jihadista nel cuore di Damasco a luglio del 2012, e la pressione islamista sembrava essere sul punto di travolgere anche la capitale. Questo non accadde e ci fu un riflusso degli attaccanti, di modo che oggi, nel retroterra damasceno (il cosiddetto Rif Dimashq), la presenza jihadista si riduce a fastidiose sacche di nemici. Molto utile per la resistenza governativa è stata, nel gennaio del 2013, la costituzione dei Comitati Popolari di Difesa (o Milizia Ndf), variamente composti (volontari più o meno giovani, miliziani di gruppi già esistenti, veterani, soldati rimasti tagliati fuori dalle unità di origine e disertori "pentiti"). Questa sorta di fanteria leggera - ma armata anche con artiglieria di piccolo e medio calibro, mortai e mitragliatrici - ha svolto egregiamente il compito di presidio delle zone liberate dalla presenza jihadista e dei ribelli "moderati", di pattugliamento contro i tentativi di reinfiltrazione, di sostegno all'azione dell'Esercito regolare e di compimento di azioni autonome su scala ridotta. Importante il fatto che questi miliziani operino per lo più nei territori di origine, da loro ben conosciuti - insieme a quanti vi abitano. Il supporto fornito da personale militare iraniano ha accresciuto l'efficacia della Milizia Ndf. Dopo il 2013 alle Forze armate e alla Milizia Ndf si sono aggiunti battaglioni del partito Baath, formazioni palestinesi filosiriane, miliziani cristiani assiri e sciiti, formazioni di Hezbollāh.
Ripartiva l'offensiva terrestre siriana verso i centri perduti (Homs, Hama, Aleppo; e anche Idlib, seppure collegata al resto del paese da uno stretto corridoio), ma a primavera di quest'anno scattava una nuova offensiva jihadista, mentre le Forze armate siriane si concentravano (in cooperazione con Hezbollāh) sulla "ripulitura" del confine libanese, con la conseguenza che tra aprile e giugno gli islamisti riprendevano Idlib e Jisr al-Shughur, ma non riuscivano a conquistare i centri sciiti di Fuaa e Kafraya. Ora, sotto l'ombrello dell'aviazione russa, è ripresa su vasta scala l'offensiva siriana. Dal 30 settembre le forze di Bashar al-Assad hanno lanciato offensive terrestri per riconquistare la provincia di Idlib e ora attaccano su un fronte di 16 km, muovendo da sud verso Aleppo; sono caduti anche centri a nord di questa città. Prossimi obiettivi sono quindi i quartieri in mano all'Isis. Intanto, come supporto, sono arrivati in Siria più di 2.000 militari iraniani: riprendere il totale controllo di Aleppo è importantissimo anche per arrivare a tagliare ai jihadisti la via dei rifornimenti che arrivano loro dalla Turchia.
Staremo a vedere.

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