«Ma non posso chiudere l'argomento come se il giudizio in merito dipendesse unicamente dal rispetto di precedenti impegni o da fattori economici. Una politica che riducesse la Germania in servitù per una generazione, o che degradasse milioni di esseri umani, o che privasse di gioia un intero popolo, sarebbe da rifuggire e con paura: da rifuggire anche se fosse attuabile, anche se ci facesse più ricchi, anche se non preparasse il crollo di tutta la civiltà europea».
[John Maynard Keynes, «Le riparazioni di guerra e la capacità di pagamento della Germania» (1919), in Esortazioni e profezie, Garzanti, Milano 1975, p. 22.]
1. Per la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi. Da una parte alcuni dei governi e delle istituzioni più potenti del mondo, che da anni scaricano i costi della crisi capitalistica interamente sui lavoratori e sui comuni cittadini; dall'altro lato del tavolo, il governo di un paese devastato dall'austerità e in depressione si è fatto portavoce della necessità di provvedere urgentemente alla gravissima condizione in cui versano i lavoratori e i comuni cittadini greci. Non c'è alcun dubbio che in questa contrattazione si siano confrontate e scontrate la democrazia e la postdemocrazia, gli interessi immediati del popolo greco e gli interessi immediati del capitale europeo. Per la sua logica e per ciò che potrebbe implicare per gli orientamenti della politica economica e sociale del continente, il programma di Syriza è suonato alle orecchie delle caste politiche della postdemocrazia europea come un delitto di lesa maestà. Inoltre, la visione implicita nella proposta di Syriza è quella di un'Europa autenticamente federale; la troika, invece, intende l'unione monetaria alla stregua di un accordo di cambi fissi, con ciò minando la coesione europea.
Vista l'importanza della posta in gioco, è comprensibile che, al termine di questo primo giro negoziale, si sia scatenata una discussione internazionale intorno al tema: nella contrattazione con la troika Syriza ha vinto o perso? Capitolazione o buon compromesso? Tanto rumore per nulla o avvio di un difficile percorso di rinnovamento della politica europea?
Si considerino i commenti sulla lettera del ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, all'Eurogruppo, accettata da quest'ultimo. Ebbene, il manifesto titola la scheda su questa lettera «Tutti i "pilastri di Salonicco" sono nel documento europeo», e nel testo si legge: «hanno riportato tutte quante le promesse elettorali contenute nel Programma di Salonicco». Il Sole 24 Ore titola l'articolo sulla stessa lettera «Per Syriza brusco risveglio dal sogno» e, con tono tronfio, svolge un confronto impietoso tra le misure annunciate nel Programma di Salonicco e la lettera di Varoufakis, in cui il primo è completamente demolito. Anche fuori d'Italia le posizioni seguono questo schema: a sinistra, per lo più, una valutazione molto positiva, ottimistica, spesso apologetica della condotta del governo Tsipras; al centro e a destra, invece, la demolizione del sogno, l'apologia della dura verità: pagare il debito, sempre e comunque. Anche se un lavoratore su quattro è disoccupato, anche se quasi tre quarti è senza lavoro da oltre un anno (il 17% da più di quattro anni), anche se un giovane su due non ha speranza di trovar lavoro, anche se la povertà dilaga. Anche se si sa che quel debito non potrà mai essere pagato. Ciò che conta, in quest'ottica, è la catena che vincola al palo: il servizio del debito e le sedicenti riforme strutturali a cui è vincolata l'erogazione dei fondi.
A mio parere, Syriza ha fatto bene, per motivi sia tattici che ideali, a non far campagna per l'uscita dall'euro. Il governo Tsipras si è battuto duramente, avendo alle spalle un paese prostrato da anni di depressione e uno Stato ampiamente corrotto e senza risorse: date le circostanze e lo stato della lotta di classe in Grecia e nel resto d'Europa, ha fatto e ottenuto quel che un governo onesto, costituitosi attraverso regolari elezioni, poteva fare e ottenere per via diplomatica. Si può tentare di misurare il risultato delle trattative dicendo che, se l'avanzo primario del bilancio pubblico greco potrà essere pari all'1,5% del Pil invece che al 4,5%, allora il governo Tsipras è riuscito a risparmiare ai greci due terzi di austerità addizionale. Sotto il ricatto di alcune delle istituzioni e dei governi più potenti del pianeta è un risultato che merita rispetto. Al contrario dei precedenti governi greci e di altri governi nazionali, il governo Tsipras ha dimostrato di non essere il caporale della troika e di cercare di conquistarsi i margini di manovra più ampi possibili. Se si confronta questo con i «risultati» della lunga politica di collaborazione della sinistra post-Pci (Rc, Pdci) con l'equivalente italiano del Pasok, sembra di essere su un altro mondo. Fantasticando, ma sulla base dell'esperienza storica, al posto di Tsipras e Varoufakis gli italiani non avrebbero retto un'ora, altro che un mese!
Detto questo, che un buon terzo del gruppo parlamentare e il 41% dei membri del Comitato centrale di Syriza abbiano votato contro la ratifica dell'accordo con la troika è cosa che deve far pensare. È invece vergognoso, nel merito e nella sostanza, che queste critiche vengano sminuite e liquidate come «ideologiche», come se queste/i compagne/i non abbiano contribuito allo sviluppo e al successo elettorale del partito che viene esaltato come il nuovo faro della sinistra europea. La sinistra italiana ha una speciale abilità nell'autoingannarsi, nel generare illusioni, nello smentire con i fatti le dichiarazioni verbali: una delle ragioni per cui è riuscita a perdere due terzi dei suoi voti. L'atteggiamento acritico e fideistico nei confronti di Tsipras induce a pensare che quel che si vuol mantenere inossidabile sia un simbolo da giocare nelle elezioni nel proprio paese, per motivi che nulla hanno a che vedere con la solidarietà internazionale.
Considerando la precedente valutazione dell'accordo si intende che, per chi scrive, non ha senso sostenere che Tsipras e Varoufakis abbiano tradito il mandato degli elettori; inoltre, il punto non è neanche che, come scrive Stathis Kouvélakis, è «vero, [Tsipras] non aveva "il mandato di uscire dall'euro", ma non aveva di certo il mandato di abbandonare la sostanza del suo programma pur di rimanere nell'euro!». Sul principio Kouvélakis ha ragione, ma il fatto è che Tsipras sta cercando di realizzare quel che può del programma entro i rapporti di forza esistenti nel confronto tra governi. Quel che occorre chiedersi è, allora: come si possono trasformare questi rapporti di forza?
Il dramma, a mio parere, coinvolge Syriza nella sua interezza, in tutte le sue tendenze, e nasce a monte della stessa trattativa. Esso consiste nel fatto che il sasso nella fionda del Davide ellenico è fatto solo di voti: di un capitale politico e morale, che ha un suo peso ma è del tutto insufficiente ad abbattere il Golia postdemocratico. Per definizione, e lo si è visto bene in questi anni, nei meschini commenti della stampa e perfino in alcune battute durante i negoziati, questo Golia - o questo Minotauro, per dirla alla Varoufakis - non si preoccupa più di tanto della volontà popolare. Almeno fino a quando si tratta di voti. Quel che manca al governo Tsipras è la pietra dura e pesante della mobilitazione popolare, non quella delle manifestazioni di tripudio e neanche del sostegno risultante dai sondaggi d'opinione (effimeri), ma la mobilitazione capillare, tale da incidere direttamente sui rapporti di potere tra le classi sociali. È in questo senso che tutta Syriza è ora intrappolata: in guerra, ma senza le armi necessarie. Per cui, Kouvélakis ha ragione e torto: certo, non si deve rimanere nell'area dell'euro ad ogni costo, ma per quella che è la situazione greca uscirne ora, senza armi che consentano di ridurre i gravi danni che ne conseguirebbero, è follia. Ripeto: il problema è a monte, è quello dei rapporti tra le classi in Grecia, dello scarto tra un successo elettorale e lo stato della lotta di classe e popolare contro l'austerità.
Si dice che con questo accordo il governo Tsipras abbia guadagnato tempo e che «questo è quello che conta, adesso» (Gabriele Pastrello nel Manifesto del primo marzo), o anche che abbia guadagnato spazio, oltre al tempo (Balibar e Mezzadra). Sì, ma tempo per far cosa? Cosa si pensa possa cambiare, sul piano istituzionale e dei rapporti tra i governi, tra febbraio e aprile o giugno? Che Mario Draghi, la signora Merkel, Hollande o Renzi siano convertiti da un'illuminazione divina? Che per qualche miracolo il mercato del capitale apra le braccia alla Grecia? Che a dicembre Podemos vinca le elezioni, quando potrebbe già essere troppo tardi per la Grecia? Che il muro contro cui sbatte Syriza non esista anche per Podemos, ammesso che vinca le elezioni? Che in altri paesi europei, come nelle elezioni britanniche di maggio, non possano emergere con forza partiti antieuropeisti di destra, per cui greci, spagnoli e italiani non sono che fannulloni?
Non ci si può affidare passivamente al tempo, contando sulla ragionevolezza e civiltà delle proposte o su contraddizioni in seno al fronte avverso o su possibili, ma non certi, eventi favorevoli futuri: nelle vicende politiche esistono punti di non-ritorno che, una volta oltrepassati, conducono alla sconfitta nonostante un precedente successo parziale (a volte, proprio a causa delle illusioni da questo suscitate).
Ritengo che Syriza e il governo Tsipras si trovino ora in una situazione simile a quella della coalizione di Weimar, liberale e socialdemocratica, negli anni Venti del secolo scorso: seguire la politica dell'adempimento nel tentativo di dimostrare alle potenze vincitrici che è impossibile pagare le riparazioni di guerra e cercando di ottenere condizioni migliori. Alla fine, i debiti impagabili non saranno pagati. Ma a quale prezzo politico? Keynes aveva visto giustamente già nel 1919.
I voti e la simpatia espressa nei sondaggi non bastano affatto per cambiare la Grecia, figurarsi l'Europa, se non si inizia a rovesciare i rapporti di forza nella società. Se questo è vero, la lezione è che perfino vincere le elezioni può rivelarsi una trappola: ci si trova a dover combattere senza disporre delle «armi proprie» politiche. E si sa quale sia la fine dei profeti disarmati.
2. Il ragionamento che conduce alla tesi prima esposta può partire dalla domanda: cosa hanno ottenuto i Greci nei negoziati appena conclusi? Non si tratta di fare un confronto punto per punto tra il Programma di Salonicco e la lettera d'intenti del governo greco: è ovvio che non poteva che darsi una mediazione. La questione è invece: in che direzione muove questa mediazione? Quali vincoli impone e quali possibilità apre? Che significato ha ai fini di un rovesciamento della politica economica e sociale in Grecia? Senza dimenticare che il test greco ha un valore continentale.
Un risultato è che il governo Tsipras è sopravvissuto al negoziato, non come mero esecutore ma come autentica parte negoziale, attiva nel definire l'agenda delle misure di politica economica e sociale. Si sono manifestate incrinature nel fronte della troika, perfino tra ministri della Germania, molto relative, ma reali: la linea di chiusura totale non è passata. Concretamente, questo si è espresso nel compromesso per cui l'obiettivo dell'avanzo primario del bilancio pubblico (cioè esclusi i pagamenti per gli interessi) per il 2015 terrà conto delle circostanze: esso deve però ancora essere specificato. L'accordo permette allo Stato greco di non fare bancarotta, di procedere con i pagamenti di stipendi e pensioni e con altre misure relative al programma umanitario. Si può concordare con Paul Krugman che per i greci questo sia il frutto migliore della trattativa1.
Una caratteristica della lettera di Varoufakis all'Eurogruppo è che mancano le cifre e - è stato immediatamente notato dalla troika - si formulano impegni generali ma non politiche chiare per la loro applicazione. Sicché, ad esempio, nella parte finale della lettera sono elencati la maggior parte dei problemi che rientrano nell'emergenza umanitaria per gli assolutamente poveri del Programma di Salonicco: alimentazione, casa, servizi sanitari, fornitura di elettricità - address needs arising from recent rise in absolute poverty (inadequate access to nourishment, shelter, health services and basic energy provision) by means of highly targeted non-pecuniary measures - ma senza cifre che ne definiscano le dimensioni quantitative (individui e famiglie interessati) e finanziarie (diversamente dal Programma). Si propone anche di valutare la possibilità di estendere a livello nazionale uno schema pilota di reddito minimo garantito: ma facendo in modo che queste misure non abbiano ricadute fiscali negative. Il governo si propone anche di garantire l'accesso universale ai servizi sanitari (control health expenditure and improve the provision and quality of medical services, while granting universal access); di sostenere le famiglie più vulnerabili, che non sono in grado di pagare i loro debiti; di decriminalizzare i debitori insolventi per piccole cifre e a basso reddito; di evitare la confisca della casa di residenza alle famiglie al di sotto di una certa (non specificata) soglia di reddito (secondo linee stabilite in collaborazione con le direzioni delle banche e le institutions).
La parte più ampia del documento è dedicata a misure di razionalizzazione e modernizzazione della pubblica amministrazione, finalizzate a ridurre le spese e aumentare le entrate; a stabilizzare il sistema bancario; a rivedere le norme sulla bancarotta. Senza addentrarsi nei dettagli: la revisione dell'Iva dovrebbe darsi senza danno per la giustizia sociale; la lotta contro l'evasione, la frode fiscale e il contrabbando occupano un posto di rilievo, con la revisione della normativa; è interessante che ci si proponga di rivedere l'applicazione delle norme sui prezzi di trasferimento delle imprese (di quelle grandi e transnazionali, in pratica), attraverso le quali si può evadere la tassazione. Si tratta di misure già presenti nel Programma di Salonicco o con esso coerenti.
Malgrado la genericità, i punti precedenti possono essere segnati all'attivo del governo Tsipras. E non è poco. È l'effetto della controforza che il governo Tsipras è riuscito ad opporre alla pressione della troika per continuare l'austerità. Il governo ha ottenuto di ridurre la pressione dell'austerità, invece di aggravarla.
Il Master Financial Assistance Facility Agreement (Mfafa), cioè il Memorandum siglato dal precedente governo, non è eliminato ma rimane in vigore fino a giugno 2015. Secondo James Galbraith c'è differenza tecnica tra l'estensione delle erogazioni previste dal Mfafa e gli impegni relativi: questi ultimi possono essere rivisti.
Esempi di quel che si deve mettere, invece, sul passivo: per la politica del lavoro ci si pone l'obiettivo di sviluppare gli schemi di lavoro temporaneo per i disoccupati, ma in accordo con i partner e quando lo «spazio fiscale» lo permetterà. Si prevede anche di «achieve EU best practice across the range of labor market legislation through a process of consultation with the social partners»: ma le best practices sono quelle della flessibilità e della precarietà. Sulla contrattazione collettiva ci si propone un «nuovo approccio intelligente» che bilanci flessibilità ed equità; in questo rientra l'ambizione di aumentare il salario minimo, ma in modo da salvaguardare la competitività e le prospettive dell'occupazione, il tutto in consultazione con i partner internazionali. Tra questi figura la International Labour Organization, ma non ci si può certo illudere che essa abbia il potere di compensare l'immensa pressione dei partner internazionali in tema di diritti del lavoro.
Nel pubblico impiego s'intende «decomprimere» la distribuzione degli stipendi, ma senza accrescerne la massa.
Un comma del documento prevede che si lavori verso una nuova cultura di adempimento fiscale, specialmente da parte dei più ricchi: qualcuno ventila che possa riferirsi a una tassa sul patrimonio. Tuttavia, la formula è estremamente generica ed è altamente improbabile che le institutions permettano serie misure redistributive (work toward creating a new culture of tax compliance to ensure that all sections of society, and especially the well-off, contribute fairly to the financing of public policies. In this context, establish with the assistance of European and international partners, a wealth database that assists the tax authorities in gauging the veracity of previous income tax returns).
La genericità e le ambiguità della lettera di Varoufakis si possono interpretare come un modo per tentare di garantirsi una certa libertà d'applicazione, sicuramente in senso favorevole ai cittadini greci più poveri. Tuttavia, la Grecia dovrà sottostare all'esame delle institutions, cioè della troika, «sulla base degli accordi vigenti, facendo l'uso migliore della flessibilità esistente, che sarà presa in considerazione congiuntamente [which will be considered jointly] dalle autorità greche e dalle istituzioni» (dall'accordo preliminare del 20 febbraio). Le institutions non sono sciocche né disattente e hanno la ferma volontà e il potere di ricatto di chiarire e correggere, a loro modo, le ambiguità. Perfino gli 1,8 miliardi di euro di profitti conseguiti dalla Bce sui titoli di stato greci non saranno resi utilizzabili se la Grecia non avrà superato l'esame delle occhiute institutions.
Il nocciolo della questione è che, al di là delle indispensabili misure d'emergenza umanitarie, non si comprende come possa essere finanziata una politica di rilancio economico e di riassorbimento della disoccupazione. Non si comprende assolutamente come possano essere creati i 300 mila posti di lavoro promessi, né è prevista la riassunzione dei pubblici dipendenti licenziati.
La logica europeista del Programma di Salonicco, il New Deal europeo di investimenti pubblici finanziati dalla Banca europea per gli investimenti, è stata liquidata insieme alla cancellazione di parte del debito pubblico e alla moratoria del pagamento del debito. È venuta meno la «clausola di crescita» che legava il rimborso del debito alla crescita economica.
Considerando i bassi tassi d'interesse e la lunghezza media delle scadenze dei prestiti, il servizio del debito può essere il problema minore, purché il prodotto interno cresca: intanto però pesa, benché meno di quanto avrebbe voluto la troika (e anche questo: se tutto va per il meglio). A metà 2014 il Pil reale greco era di un quarto inferiore a quello del 2008, nel 2010-13 il reddito medio è caduto del 30%, l'investimento è del 35% al di sotto del picco del 2007; dal 2009 la crescita delle esportazioni si deve in gran parte alla raffinazione del petrolio e al prezzo dello stesso (attualmente in calo e, si prevede, ancora per tutto il 2015). Il turismo è la fonte più dinamica di entrate, ma è del tutto insufficiente2. Se è atto di ferocia assurda pretendere che un paese con un tasso di disoccupazione al 26% (per i giovani al 50%) consegua un avanzo primario del 4,5%, quando tutte le altre componenti della domanda stagnano intorno allo zero un bilancio in attivo va comunque in senso contrario alla crescita dell'occupazione. Può l'attivo essere determinato solo dalla tassazione del capitale e delle rendite, dalla lotta all'evasione fiscale e alla corruzione? Se ne può dubitare, stante la prevedibile inerzia e i sabotaggi della burocrazia, né si può prevedere che il recupero dell'evasione fiscale e il contrasto della corruzione portino entrate consistenti in tempi brevi.
Al contrario: per rilanciare l'attività economica, ridurre la disoccupazione, accrescere le entrate dello Stato e così, a un certo momento, servire il debito, il bilancio dovrebbe essere in deficit. Il sollievo è quindi molto relativo.
Infine, una perla: il prestito «ponte» (questa dizione sarebbe un successo di Tsipras?) si estende fino a giugno, ma a luglio e ad agosto scadono pagamenti sul debito per 5,1 e 3,7 miliardi di euro, di cui 6,7 dovuti alla Bce. Verso l'estate si ripresenterà la situazione dell'inizio dell'anno: un modo per tenere il governo Tsipras al guinzaglio corto.
3. Come termine di paragone per comprendere quel che sarebbe necessario fare per iniziare a compiere seri progressi nella crisi sociale ed economica in Grecia, invito a considerare due documenti del Levy Economics Institute, uno dei più importanti centri di ricerca economica eterodossa. L'istituto dedica da tempo grande attenzione alla Grecia e ha prodotto uno studio - per il sindacato greco - per la creazione diretta di posti di lavoro nel settore pubblico3; i documenti sono compatibili con la «modesta proposta» formulata dal ministro Varoufakis insieme a Stuart Holland e James K. Galbraith nel 20134.
Nella Strategic Analysis di dicembre 20145 sono presentati i risultati di una simulazione su quattro scenari. Il primo si basa sulle tendenze date; gli altri tre invece ipotizzano:
- un New Deal finanziato con trasferimenti quadrimestrali da parte dell'Unione europea, ciascuno per l'importo di 1.650 miliardi di euro a partire dal 2015 e per tre anni, per un totale di 19,8 miliardi di euro. I fondi sarebbero destinati all'aumento della spesa pubblica, con l'obiettivo di incentivare l'investimento, oppure a un programma di creazione diretta di posti di lavoro;
- in alternativa: il congelamento del debito pubblico e la sospensione del pagamento degli interessi fino al ritorno del Pil reale al livello del 2010; il risparmio così ottenuto sarebbe da destinarsi alla creazione diretta di posti di lavoro. Per lo studio di Rania Antonopoulos et al., a seconda dell'ampiezza del programma e del salario per occupato, sarebbe possibile dare direttamente lavoro nel settore pubblico a una quota oscillante tra il 22% e il 64% dei disoccupati (anno di riferimento il 2012) e creare indirettamente, a causa dell'effetto del moltiplicatore, tra i 62.268 e i 219.421 posti di lavoro nel settore privato. Il programma avrebbe un costo compreso tra l'1,5% e il 5,4% del Pil, ma un costo netto, a causa delle maggiori entrate fiscali tra lo 0,6% e il 2,2% del Pil (il costo maggiore risulterebbe in 550 mila posti di lavoro aggiuntivi). La moratoria sul pagamento degli interessi per un anno permetterebbe di creare 440.000 posti di lavoro per tre anni, al salario minimo di 586 euro6;
- la combinazione del New Deal con la precedente moratoria del pagamento degli interessi.
I risultati della simulazione sono riportati nella tabella; l'opzione più efficace ai fini della crescita economica e della riduzione della disoccupazione è la terza. È da notare che la politica espansiva riduce il rapporto tra debito e Pil.
Tuttavia, quel che mi ha veramente colpito è che, pur nell'ipotesi migliore (combinazione del New Deal finanziato dalla Ue e moratoria del servizio del debito), come si vede nel grafico sottostante il tasso di disoccupazione rimarrebbe su un livello significativamente inferiore all'attuale ma, comunque, socialmente inaccettabile: nel 2016 si aggirerebbe intorno al 19-20%, con quel che ciò implica su povertà e livelli di vita. Per Antonopoulos et al. «mettere semplicemente fine all'austerità non è neanche lontanamente sufficiente. Perfino se l'economia greca miracolosamente risalisse ai tassi di crescita precedenti la crisi, occorrerebbe quasi una decade e mezza per ritornare ai livelli di occupazione precedenti la crisi» (corsivo mio).
Le simulazioni sono soltanto esercizi mentali, ma quelle del Levy Institute sono certamente più attendibili delle proiezioni delle istituzioni economiche internazionali, delle quali si potrebbe compilare un'antologia molto divertente, se non legittimassero misure di politica economica tragiche. Il valore di queste simulazioni è di fornire un'approssimazione di quel che sarebbe necessario fare per iniziare a risalire la china e quanto essa possa essere ripida e dura, anche nel caso di misure realmente in contrasto con la linea neoliberista.
Il capitalismo greco ha un deciso carattere cosmopolitico, non solo per la diaspora di vecchia data, ma perché i moderni settori del turismo e dei trasporti hanno, insieme, un rilievo pari a circa un quarto del prodotto interno e dell'occupazione (concentrata nel turismo): si noti che si tratta di settori estero-centrati, che in gran parte non dipendono dalla domanda interna (pur influendo su di essa) e che, oltre al peso assoluto, da metà anni Novanta del secolo scorso sono le voci più dinamiche della bilancia dei pagamenti (discorso analogo si può fare per la raffinazione e l'esportazione del petrolio, altra voce molto dinamica). Grande è anche l'importanza delle piccole imprese, della piccola proprietà e del piccolo commercio, delle professioni: di attività economiche a bassa produttività e di categorie sociali per le quali l'evasione fiscale è notevole. L'importanza di queste categorie è probabilmente la ragione della buona tenuta elettorale di Nea Dimokratia. Specialmente in Grecia, la nozione di borghesia nazionale è del tutto obsoleta e di sicuro, qualora questa esistesse, non avrebbe rappresentanza sulla scena politica: crollato il Pasok, il coacervo delle clientele non può che far capo a ND, che nello stesso tempo è il partito del Memorandum.
E quindi: è «ideologico» pensare che almeno parte degli apparati e del personale dello Stato (capitalistico) greco opporrà resistenza se s'intende veramente far compartecipe dei costi della crisi la borghesia greca? Niente di drammatico, è sufficiente l'inerzia burocratica.
Al di là della conta meccanica e puntuale di quel che del Programma è o non è presente nell'accordo - in particolare di quanto era stato definito «non negoziabile» e da attuare «indipendentemente dal risultato della negoziazione» -, è difficile comprendere come, nel futuro prossimo, durante una depressione e sotto il ricatto della troika, sia possibile cambiare il modello di sviluppo, riconquistare l'occupazione, ricostruire uno Stato sociale moderno. Si intrecciano la crisi del debito sovrano e le specificità del capitalismo greco, le cui debolezze erano state temporaneamente coperte (e aggravate) nei primi anni dell'euro7.
Syriza al governo è costretta a subire vincoli forti, destreggiandosi come può, forse riuscendo ad alleviare in parte le sofferenze di un popolo. Tuttavia, né la vittoria elettorale né la diplomazia possono allentare i vincoli al punto da sciogliere l'aggrovigliarsi, in sinergia, di problemi congiunturali e strutturali. In definitiva si tratta di un nodo di problemi che rimandano alla conformazione del capitalismo e del potere della classe dominante in Grecia. Occorre entrare nella prospettiva di attaccare questo potere di classe, dall'alto e ancor più dal basso.
4. La ragione della dura opposizione alla proposta del governo Tsipras da parte dei governi e delle istituzioni europee - in prima fila il governo della Germania - non è affatto strettamente economica. Spiego perché.
In seguito ai programmi concordati con la troika, che hanno salvato le banche private francesi (le più esposte) e tedesche - di gran lunga inferiore era l'esposizione delle banche degli altri paesi - nello stesso tempo in cui uccidevano l'economia della Grecia, i debiti di quest'ultima sono oramai quasi esclusivamente ufficiali, cioè con gli Stati, la Bce, il Fmi: perfino il rischio è ora molto più condiviso o «mutualizzato» che nel 2010 (il 45% del debito, 141,8 miliardi di euro, è con l'European Financial Stability Facility). Da ciò due ulteriori considerazioni.
La prima è che, come un debito denominato in valuta nazionale non è un debito con l'estero, così anche il debito greco denominato in euro non è, dal punto di vista economico, un debito con l'estero: non richiede acquisizione di valuta estera mediante esportazioni. Da questo punto di vista la Grecia non è nella stessa posizione del Messico, della Polonia o dell'Argentina (e di tanti altri paesi) durante la crisi del debito internazionale: non deve procurarsi dollari o marchi. Per questo stesso motivo, i saldi tra le banche centrali nazionali che costituiscono l'eurosistema sono centralizzati nel sistema Target2 della Bce. L'unico motivo perché si possa considerare il debito pubblico denominato in euro dello Stato greco come debito estero è che l'area dell'euro non dispone di un bilancio comune degno di questo nome e che la Bce discrimina tra i titoli di Stato dei diversi paesi.
Ma questa è, seconda considerazione, una decisione politica, perché una Banca centrale potrebbe, volendo, finanziare comunque uno Stato membro secondo le sue necessità. Il condizionale qui significa che economicamente l'operazione avrebbe senso, ma che ad essa si oppone la ferrea volontà di persistere in un determinato orientamento politico. L'unità fiscale nell'area dell'euro si fa, infatti, in una forma perversa: senza bilancio comune ma con regole che obbligano gli Stati (quelli deboli, di fatto) a una linea di contenimento della spesa entro limiti rigidi, cioè a senso unico, con l'austerità. In assenza di un meccanismo compensativo, il sistema è tale da funzionare in modo pro-ciclico, come si è visto prima e durante la Grande recessione (dopo la fase acuta), e da riprodurre la gerarchia di potere fra gli Stati, come si è visto chiaramente anche nelle prime settimane del 2015.
Il programma di governo di Syriza ha avuto il merito di porre sul tappeto il problema e, implicitamente, il superamento di questa situazione assurda in direzione di un autentico federalismo. Che questo possa darsi in un'Europa capitalistica è altro discorso.
Vedo la questione come strettamente connessa alla natura postdemocratica dei governi nazionali e, a maggior ragione, delle istituzioni europee. Un aspetto costitutivo della postdemocrazia è la sostanziale convergenza programmatica tra i partiti politici, di cui è parte integrante la rinuncia, da parte di quei partiti che nacquero come «partiti operai», della Seconda e anche della Terza internazionale (come il Pci), a rappresentare nelle istituzioni le esigenze minime delle classi dominate (cui si aggiunge la cooptazione nel gioco politico, anche attraverso il finanziamento pubblico e il carrierismo politico, dei partiti nati come «alternativi»).
Ne consegue l'integrale statizzazione dei partiti (che si manifesta nel finanziamento di quote superiori all'80-90% dei loro bilanci) e la gestione del capitalismo per ciò che è nel momento dato, cioè la sostituzione dell'amministrazione dell'esistente alla politica in senso proprio, che pure implica un certo livello di trasformazione del dato e di mediazione, sia pur del tutto squilibrata, tra interessi sociali diversi8. Ebbene, il «peccato» di Syriza è stato quello di sfidare il muro compatto della postdemocrazia europea, facendosi portavoce degli interessi immediati dei comuni cittadini greci. Dall'altra parte, la necessità politica richiede di dimostrare che non esiste alternativa alla prassi cosiddetta neoliberista e all'amministrazione del capitalismo così com'è nel momento storico, che non esiste spazio neanche per una soluzione moderatamente riformista. Si deve ribadire che l'Unione europea deve essere postdemocratica e non altrimenti: che si tengano pure le elezioni e si facciano promesse ma, quando si arriva ai fatti, ci si deve adeguare. Solo gli spergiuri e le mediocrità sono bene accetti.
Un esempio è stata la linea dei governi di Spagna, Portogallo e Irlanda durante i negoziati: non potevano permettere che i greci dimostrassero che con i creditori si può avere una postura combattiva, che si può contrattare sul serio, sia pur da una posizione debole, e ottenere qualcosa. Non potevano permettersi di essere palesemente svergognati, ancor più di quanto già non siano, anche a costo di sacrificare l'interesse dei loro cittadini.
Conclusione: in termini di rilancio della domanda aggregata e di riduzione della disoccupazione, la crisi economica non può avere soluzione entro i confini del capitalismo greco (sorvolando sui suoi problemi strutturali, ulteriormente aggravatisi); tuttavia, alla possibile soluzione politica della crisi economica si oppone la postdemocrazia, espressione del capitalismo continentale, sia delle istituzioni europee che delle caste politiche nazionali. Siamo di fronte ad una contraddizione specifica di questa fase della storia del capitalismo in Europa, a causa del profondo intreccio d'integrazione politica e interdipendenza economica. Tanto più grave è lo sviluppo ineguale delle dinamiche della lotta sociale nel continente; e tanto più urgente è mettere a fuoco il problema e agire di conseguenza. E, ancora una volta, pensare che lo sbocco dei movimenti d'opinione e delle lotte sociali sia il successo elettorale è parte del problema, non della soluzione.
5. Ovviamente, l'esito del negoziato fornisce argomenti per gridare al tradimento a quanti hanno da sempre dato un giudizio duramente negativo su Syriza e/o propugnano l'uscita dall'area dell'euro, magari affermando che l'unica soluzione possibile dalla crisi sia la rivoluzione.
Per il Kke (Partito comunista greco), che ha già organizzato una manifestazione contro l'accordo, «la presunta trattativa "orgogliosa" è stata una truffa pubblicitaria» e «non deve esserci alcun appoggio o tolleranza per il governo che continua sulla stessa strada degli impegni verso l'Unione europea e il profitto dei monopoli»9. Il Kke ha una sua frazione sindacale nella confederazione unica dei lavoratori del settore privato, il Pame: nel 2013, su 45 posti della direzione ne contava 10, a fronte dei 5 di Syriza e i 19 del Pasok. Personalmente non sono al corrente di cambiamenti, ma questi numeri possono dare un'idea del diverso peso nell'apparato sindacale, cosa che potrebbe avere un certo rilievo qualora si verificassero tensioni tra il governo e i lavoratori. Secondo il Pame, Syriza sarebbe favorevole all'Europa dei monopoli, «l'arma di riserva di sinistra del capitalismo», e «intende consolidare l'intero arsenale antisindacale già messo a punto per neutralizzare, in una fase di recupero economico, qualsiasi rivendicazione militante dei lavoratori»10. Alla linea di Syriza il Kke oppone «la socializzazione dei monopoli, il disimpegno dalla Ue e dalla Nato, con la barra del potere nelle mani del popolo, al fine di spianare la strada alla sola realistica e opportuna prospettiva, alla vera liberazione dell'uomo, che è la costruzione di una nuova società socialista»11.
La retorica pseudorivoluzionaria del Kke, un partito che ha gravi responsabilità per il sostegno o l'opposizione «leale» dato al Pasok negli anni in cui questo costruiva la sua fitta rete clientelare nello Stato, ripropone l'antica e catastrofica linea staliniana che, a cavallo degli anni Trenta del secolo scorso, qualificava la socialdemocrazia come «socialfascista», considerandola come il nemico di classe principale, più che il fascismo stesso. Il risultato (certo anche per responsabilità dei dirigenti della socialdemocrazia) fu la divisione dei lavoratori e il successo militare e politico del nazismo. Quello del Kke è un caso di settarismo opportunistico, ma la stessa considerazione può farsi per gruppi in buona fede e tutt'altro che stalinoidi.
Queste ed altre critiche «da sinistra» fanno la scoperta dell'acqua calda: e cioè, che quello di Syriza non è un «programma rivoluzionario», non si propone l'espropriazione degli espropriatori, il socialismo. Infatti, la forza della proposta di Syriza alla troika era la sua moderazione: sulla carta era fattibile, non avrebbe comportato neanche cambiamenti dei trattati e del quadro legale fondamentale dell'Unione europea e dell'area dell'euro. Nel suo insieme era un programma minimo, di taglio socialdemocratico. L'ha scritto anche Paul Krugman, certamente non un radicale né in politica né nell'accademia degli economisti, commentando l'insensatezza del programma della troika, che ha fatto precipitare la Grecia in un incubo sociale: «Invece, il problema dei piani di Syriza è che forse non sono abbastanza radicali. La cancellazione parziale del debito e l'allentamento dell'austerità ridurrebbero la sofferenza economica, ma si può dubitare che siano sufficienti a produrre una forte ripresa»12.
Tuttavia, queste critiche «da sinistra» non colgono la questione centrale. È una linea speculare a quella dei paladini a oltranza di Tsipras, gli stessi che, in Italia, hanno fatto parte del governo Prodi e che ora ritengono che questo negoziato sia «un primo passo per mettere fine all'austerità». Punti di vista opposti, entrambi sbagliati.
Al contrario di quanto molti commentatori prevedevano o speravano, la Grande recessione non ha portato al tracollo del neoliberismo o a un'ondata di mobilitazione e conflittualità in grado di modificare i rapporti di forza tra le classi. Il dato generale conferma l'esperienza storica: non esiste nesso meccanico tra crisi economica e radicalizzazione politica. Specialmente durante una grave crisi economica, non solo cade il potere contrattuale dei lavoratori, ma questi sono divisi dalla realtà o dalla minaccia del licenziamento e costretti, in assenza di alternative, a far sacrifici per mantenere in vita il capitale da cui dipendono. Da molto tempo i sindacati maggiori hanno accettato che il lavoro sia una variabile dipendente dal capitale.
L'impressione di chi scrive (impressione, perché dal 1999 in Grecia non sono più pubblicati dati ufficiali sugli scioperi) è che, nonostante la terribile pressione a cui sono stati e sono tuttora sottoposti, i lavoratori greci siano riusciti a mantenere un livello di conflittualità e di coesione sociale relativamente elevato, sia pur solo difensivo. Tuttavia, se gli scioperi hanno espresso con forza la rabbia popolare, non hanno inciso significativamente sull'applicazione delle misure governative. In Grecia non esiste una situazione che possa dirsi prerivoluzionaria.
A questo proposito si deve fare anche una riflessione sulla portata reale del successo elettorale di Syriza. Subito dopo le elezioni scrissi che, data l'ampiezza dell'astensionismo, in Grecia (come altrove) non ci si può limitare ad assumere le percentuali ottenute dai partiti sui soli voti validi13. Occorre ricalcolare la percentuale sull'insieme dell'elettorato: e in questo modo quel che risulta è che Syriza non ha il consenso del 36%, ma del 22% degli elettori. È vero che il risultato è comunque ottimo e che il consenso registrato nelle elezioni può variare rapidamente; tuttavia, il dato elettorale reale segnala i limiti del sostegno alla linea di Syriza e, indirettamente, della disponibilità alla mobilitazione sociale. Ritengo che, dopo i festeggiamenti, questo è un dato di cui Tsipras non può non aver tenuto conto e, quindi, può essere entrato nell'atteggiamento del governo durante i negoziati. Non si va allo scontro frontale quando quasi l'80% degli elettori non ti ha votato e comunque, a grande maggioranza, non è favorevole a uscire dall'eurozona.
In questo quadro le pretese di socializzare l'economia e di uscire subito e comunque dall'area dell'euro, dalla Ue e dalla Nato rimangono mera propaganda, ininfluente sui rapporti di classe. La loro unica funzione è marcare una nicchia elettorale e opporre un rifiuto settario alla collaborazione sia istituzionale, sia pure critica ed esterna, che fuori delle istituzioni. Questa è una responsabilità gravissima, causa di divisione tra i lavoratori e d'indebolimento del fronte politico contro la troika.
Inoltre, il termine «tradimento» è categoria moralistica, che può essere frutto più della disillusione rispetto alle aspettative che della comprensione del problema a monte di una determinata opzione politica. È un giudizio che tende alla personalizzazione, invece che a definire i limiti e le contraddizioni di un indirizzo politico. È proprio questo il punto cruciale: non il tradimento delle persone, ma il valore di una linea politica e ciò a cui essa porta, anche quando perseguita con determinazione e al meglio delle capacità. In una situazione come quella greca del 2015, chi pensava veramente di andare al governo per via elettorale e di agire in modo responsabile davanti ai lavoratori non poteva che andare alla trattativa con la troika. Fino a toccare con mano, per così dire, la durezza del potere.
6. Il successo elettorale di Syriza fa piazza pulita dell'idea che da sinistra sia corretto porre al centro della battaglia politica l'uscita dall'area dell'euro. Questo si addice a un movimento nazionalista di collaborazione tra le classi, non alla mobilitazione dei lavoratori come classe. A questo proposito occorre fare una distinzione tra l'agitazione politica in un movimento di massa nel presente e la tattica di un governo che sia espressione della lotta di classe. Quel che importa ai lavoratori (e a pensionati, malati, studenti ecc.), nella lotta extraparlamentare o attraverso il governo, sono obiettivi che diano soddisfazione alle loro esigenze sociali, non la denominazione della moneta.
Il livello politico superiore è quello in cui le lotte su obiettivi specifici convergono nella parola d'ordine centrale dell'abbattimento del governo; e su un livello ancora superiore, i movimenti in lotta esprimono propri organi di potere alternativo: comitati di fabbrica, di quartiere o quel che sia. A grandissime linee, per l'esperienza storica è questa la dinamica di un processo di ampia mobilitazione sociale e di radicalizzazione politica. Solo giunti al governo ha senso tradurre gli obiettivi della lotta in misure di politica economica e sociale, e porsi la questione se e a quali condizioni rimanere all'interno di un'area monetaria.
Sostenere l'uscita dall'eurozona significa invece porre il carro davanti ai buoi. In via del tutto ipotetica, come esercizio mentale, qualora in un paese dell'area dell'euro si determini una situazione di conflittualità sociale tale da conquistare il governo, si possono verificare tre situazioni: 1) lo Stato in questione è già fuori dall'eurosistema, come effetto della crisi finanziaria conseguente dalla crisi politica e sociale; 2) lo Stato in questione è espulso dall'area dell'euro in conseguenza della caduta del governo capitalistico; 3) nel momento del cambio di governo lo Stato è ancora parte dell'area dell'euro: eventualità che per chi scrive è quella meno probabile, ma non impossibile, ed è certo quella preferibile.
Nei casi 1) e 2) la domanda se rimanere o meno nell'eurozona ha già avuto risposta. Nel terzo caso si può immaginare che il nuovo governo lanci una grande campagna rivolta ai lavoratori e ai cittadini dell'area dell'euro, centrata non sulla frantumazione dell'Europa ma sulla costruzione di un'autentica federazione socialista continentale, di cui non può non essere parte integrante l'unità monetaria, insieme a un adeguato bilancio comunitario. Campagna propagandistica, ma che potrebbe interagire con le lotte reali. Farebbe parte di tale campagna anche l'iniziativa propriamente diplomatica rivolta agli altri governi europei: non certo per convertirli al socialismo, ma come proposta d'inversione della politica economica e sociale in senso più favorevole ai lavoratori. Starebbe agli eurocrati e alla casta politica rigettare tali proposte, rimarcando la differenza di classe e favorendo la campagna di propaganda e agitazione. Sarebbe responsabilità degli eurocrati e della casta politica europea espellere uno Stato membro dall'eurosistema e dall'Unione europea.
Porre al centro la sostanza della politica economica e sociale è anche il modo per uscire dall'isolamento nazionale e rivolgersi ai lavoratori e ai comuni cittadini dell'intera Unione europea: in altri termini è la condizione minima per una critica internazionalistica dell'Europa capitalistica e postdemocratica. È un approccio opposto a quello nazionalista dei partiti di matrice stalinista, come il Pc francese o il Kke greco, o socialdemocratica, come il Labour Party o il Pasok dei primi anni.
Quella precedente è evidentemente una prospettiva strategica che, in questo momento, ha solo un significato propagandistico. Ritengo però possa aiutare a capire la trappola in cui si è cacciata Syriza e potrebbe, forse, servire a costruire una via per uscirne. Questo spetta ai greci; chi vive fuori della Grecia non può che continuare a battersi al suo meglio contro il nemico interno, così facendo dando anche una mano ai greci. L'avvertimento che viene dalle «istituzioni», ovvero dalla troika, è però chiarissimo: nessuno si faccia illusioni sul fatto che vincere le elezioni basti.
7. L'accordo «registra i rapporti di forza», ha scritto in un suo post Paolo Ferrero: e ovviamente non poteva che essere così, non è il caso di contare sul buon cuore degli usurai. È invece molto problematico affermare che «la vittoria di Syriza ha già cominciato a modificarli [i rapporti di forza] positivamente». Qui il segretario di Rc mostra la mentalità da ex ministro del governo Prodi e l'inguaribile tara politica da cui sono afflitti i partiti post-Pci. Si tratta dell'idea per cui il successo elettorale, come al solito condito da un richiamo «movimentistico», sia sufficiente ad «aprire uno spazio per una trattativa vera in cui l'uscita dalle politiche neoliberiste non sia solo uno slogan». Presumo che con ciò intenda che la pressione dei movimenti debba esprimersi in altrettanti avanzamenti elettorali nel resto d'Europa. Insomma, la via elettoral-movimentista alla fuoriuscita dal neoliberismo.
Tutti i problemi del capitalismo europeo rimangono in piedi e ben vivi: al momento non si vede come possa rimettersi in movimento, in tempi brevi, il meccanismo che ha presieduto all'espansione dell'economia mondiale da trentacinque anni a questa parte: espansione del credito-bolla speculativa-crescita della domanda interna statunitense-esportazioni dal resto del mondo. La Grecia può essere obbligata a un «appropriato avanzo primario» del bilancio pubblico, ma la stabilità dell'euro non è garantita.
A metà del 2009 trattai con una certa larghezza dei potenti ostacoli che oggi si oppongono a un nuovo New Deal14. Le tesi sono state confermate - senza alcuna mia soddisfazione, perché non credo nel «tanto peggio, tanto meglio» (non più che nell'italica litania del meno peggio). Tra gli ostacoli, paradossalmente al primo posto, il fatto che i rapporti tra Stato ed economia, nonostante tanto liberismo, non sono più quelli degli anni Venti del secolo scorso, come è stato ampiamente dimostrato proprio dalle misure interventiste adottate da governi e banche centrali, con tempi, modi e dimensioni certo diversi negli Stati Uniti, in Europa o in Giappone, durante la fase più acuta della Grande recessione. L'interventismo statale ha impedito che la Grande recessione diventasse una nuova depressione, ma ha anche posto le basi per rinnovare, in particolare in Europa, l'attacco ai lavoratori e ai comuni cittadini.
Si pensa veramente che con un paio (?) di successi elettorali della sinistra si possano modificare i rapporti di forza tra le classi e il funzionamento del capitalismo, così come si sono materialmente definiti da almeno trent'anni? Ma che fine ha fatto il realismo?
Altro ostacolo decisivo ad un nuovo New Deal è il compimento della parabola di degenerazione delle grandi organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, un fattore determinante della postdemocrazia insieme all'assenza, non diciamo di una minaccia all'ordine costituito in qualcuno dei paesi capitalistici avanzati, ma di lotte veramente incisive su scala nazionale. Si pensi all'eventualità che un paese europeo (poniamo: la Grecia) si trovi sull'orlo di una rivoluzione sociale, come durante la «rivoluzione dei garofani» in Portogallo nel 1974-75 (in particolare, dopo la sconfitta del tentativo golpista dell'11 marzo 1975). In tal caso, con ogni probabilità i debiti sarebbero presto ridotti e i fondi della Commissione e dei governi europei accorrerebbero per stabilizzare l'economia e fermare la crisi politica.
In questo primo round tra il governo Tsipras e la troika si è presentata la possibilità teorica di iniziare a concepire un New Deal europeo, a partire dalla soluzione dell'impagabile debito greco, ma essa è sfumata. È sfumata anche perché da decenni la casta politica europea non si trova di fronte una seria minaccia, neanche in Grecia.
Il problema di Syriza e del governo Tsipras non risiede nel non aver proposto ai greci l'uscita dall'eurozona e dall'Unione europea. Esso è a monte della mal fondata discussione euro sì/euro no: è quello, di vecchia data, del rapporto fra trasformazione sociale e istituzioni del potere. Nell'Europa contemporanea questa vecchia questione è ulteriormente complicata, da un lato dall'involuzione postdemocratica dei regimi politici nazionali, dall'altra dall'unificazione monetaria e dal disegno istituzionale dell'Unione europea, che della postdemocrazia è risultato, massima espressione, forza propulsiva. Si tratta di una situazione inedita, che raddoppia i problemi posti dalla vittoria elettorale: non si tratta solo di fare i conti con l'apparato nazionale dello Stato capitalistico, ma con un livello superiore che comprende il primo in un sistema sovranazionale o inter-statale.
È con questo che si spiega il rilievo a sinistra delle posizioni antieuropeistiche e il giudizio dato dalla sinistra di Syriza alla linea del governo Tsipras: esse discendono dalla consapevolezza o dalla constatazione dei limiti d'azione sul piano istituzionale del confronto con i governi e le istituzioni europee. Ma il nazionalismo monetario non è una soluzione economicamente, politicamente e idealmente valida - per chi scrive, argomenti in ordine crescente d'importanza; né, si è detto, il punto cruciale è il «tradimento» del Programma di Salonicco. Chiunque avesse contrattato con la troika in queste condizioni, nazionali e internazionali, avrebbe ottenuto gli stessi risultati.
Poteva il governo Tsipras giocare la carta del Grexit, nel tentativo di estorcere un risultato più favorevole? L'argomento può essere rovesciato. I governi europei, la Bce e il Fmi dispongono di un'arma di ricatto, per così dire, definitiva: lasciare la Grecia a se stessa, determinarne l'insolvenza, costringere così il governo Tsipras a gestire la situazione peggiore possibile, destabilizzandolo oppure spingendolo a convocare nuove elezioni, che potrebbero dare una maggioranza diversa. D'altra parte questa è pure un'arma estremamente rischiosa, che potrebbe ritorcersi contro coloro che la scagliano. È vero che la Grecia, considerata isolatamente, potrebbe anche essere «liquidata» senza danno per le banche private degli altri paesi. Tuttavia, il precipitare della crisi greca in direzione incontrollabile - o l'uscita dall'area dell'euro - potrebbe far precipitare una crisi di fiducia nella gestione del cosiddetto debito sovrano della Spagna e dell'Italia, col pericolo di una crisi complessiva dell'eurosistema. Nonostante i messaggi tranquillizzanti, nessuno può essere veramente certo che il tracollo della Grecia non inneschi un effetto domino dai risultati imprevedibili.
Si può fare un'analogia tra i rapporti tra il governo Tsipras e l'oligarchia europea e quelli tra le potenze nucleari, sia pure di forza ineguale: fino a che punto può spingersi una «risposta flessibile», graduata, senza finire con l'innescare un'escalation catastrofica? La brinkmanship, o politica del rischio calcolato, può rivelarsi incalcolabile. Se è così, allora, malgrado la postura minacciosa si deve tornare al tavolo delle trattative. Ha ragione Varoufakis a sostenere che nei negoziati con la troika non si tratta di applicare la teoria dei giochi. Per come stanno le cose, il Grexit sarebbe una mano giocata sulla pelle dei lavoratori greci e qualcosa che può ritorcersi immediatamente e in modo micidiale contro lo stesso governo; di sicuro durante la trattativa di febbraio il governo non era attrezzato né tecnicamente né politicamente per gestire l'uscita dall'euro.
8. Con Syriza e il governo Tsipras siamo di fronte a un riformismo onesto, non corrotto, che si prende sul serio: un'eccezione, nel panorama europeo. È un riformismo consapevole dei vincoli, dati i rapporti di forza tra le classi e tra l'economia greca e i creditori, a cui è sottoposta l'opzione della riforma: ma appare determinato a conseguire il miglior risultato possibile. Si tratta di un atteggiamento molto diverso da quello che abbiamo visto nei partiti di sinistra «radicale» e dei Verdi europei da diversi decenni a questa parte, fiancheggiatori del social-liberismo, su scala nazionale e/o locale, ben disposti a sacrificare lo scontro di merito per l'integrazione nel sistema politico.
Nello stesso tempo siamo di fronte a dei paradossi: il primo è che perfino un modesto programma di sicurezza sociale e di riforma, a quanto pare, non può essere attuato se non entrando in rotta di collisione con il potere di classe capitalistico, sia europeo che nazionale.
Il secondo paradosso è che nella contrattazione con la troika il governo Tsipras sarebbe molto più forte se potesse far valere la mobilitazione spontanea e offensiva dei lavoratori e dei comuni cittadini greci; ma se questi ultimi pretendessero, com'è giusto, la realizzazione integrale e rapida (i tempi!) del Programma di Salonicco, allora Syriza dovrebbe rivedere la propria strategia, rischiando altrimenti di trovarsi invischiata in una terribile e fatale contraddizione politica. La breccia che è stata aperta, per parafrasare «L'Altra Europa con Tsipras», è veramente piccola. Ritengo sia questo il significato profondo delle critiche mosse a Tsipras dall'interno di Syriza: cantar vittoria e sperare fiduciosi che continuare sulla stessa linea porti alla caduta del muro del neoliberismo è fuorviante; per abbattere il muro della postdemocrazia europea occorre ben altro che un successo elettorale, la diplomazia e manifestazioni simboliche di solidarietà.
Spetta ai compagni greci trovare il modo per colmare lo scarto tra la responsabilità di governo e i rapporti di forza tra le classi. La sorte di Syriza e del governo Tsipras sono legati al modo in cui agiranno nei confronti delle tensioni nella società greca.
1 «What Greece Won», nytimes.com, 27 febbraio 2015.
2 Si veda: Dimitri Papadimitriou - Michalis Nikiforos - Gennaro Zezza, «Is Greece Heading for a Recovery?» Strategic Analysis, Levy Economics Institute of Bard College, New York, dicembre 2014.
3 Rania Antonopoulos - Dimitri Papadimitriou - Taun Toay, Direct Job Creation for Turbulent Times in Greece, Research Project Report, prepared for the Observatory of Economic and Social Developments, Labour Institute, Greek General Confederation of Labour, INE/GSEE, New York, novembre 2011.
4 Yanis Varoufakis - Stuart Holland - James K. Galbraith, «A Modest Proposal for Resolving the Eurozone Crisis – Version 4.0», yanisvaroufakis.eu, luglio 2013.
5 Dimitri Papadimitriou - Michalis Nikiforos - Gennaro Zezza, «Is Greece Heading for a Recovery?», cit.
6 Rania Antonopoulos - Sofia Adam - Kijong Kim - Thomas Masterson - Dimitri Papadimitriou, «After Austerity: Measuring the Impact of a Job Guarantee Policy for Greece», Public Policy Brief, n. 138, Levy Economics Institute of Bard College, New York 2014.
7 In volume si vedano: The Greek Crisis and European Modernity, a cura di Anna Triandafyllidou, Ruby Gropas, Hara Kouki, Palgrave Macmillan, London 2013, in particolare gli interventi di Loukas Tsoukalis, Yanis Varoufakis («We Are All Greeks Now! The Crisis in Greece in its European and Global Context»), George Katrougalos; con un taglio diverso, teoricamente discutibile ma comunque interessante, sia nella critica del mainstream che per il rilievo dato ai problemi strutturali, Greek Capitalism in Crisis - Marxist Analyses, a cura di Stavros Mavroudeas, Routledge, London 2014.
8 Per un discorso complessivo sulla postdemocrazia, rimando al mio Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari editore, Bolsena 2012, e a «Formazione e crisi del regime postdemocratico in Grecia», in utopiarossa.blogspot.it, 11 agosto 2012.
Si veda anche: Perry Anderson, The New Old World, Verso, London 2009.
9 «Nessuna tolleranza per il nuovo accordo tra il governo greco e l'Unione europea circa l'estensione del Memorandum» (comunicato dell'Ufficio politico del Cc del Kke), in ilpartitocomunista.it, 24 febbraio 2015.
10 «Le rivendicazioni immediate della classe operaia in Grecia. Un documento del Pame», in Contropiano.org, 12 febbraio 2015.
11 «Non può esserci una linea politica a favore del popolo con i capitalisti al potere», in inter.kke.gr, s.d.
12 «Ending Greece's Nightmare», nytimes.com, 26 gennaio 2015.
13 «Syriza, un successo elettorale», in utopiarossa.blogspot.it, 27 gennaio 2015.
14 «Una pia illusione: la crisi economica come catarsi politica», giugno 2009, ora in Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, cit.
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