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giovedì 19 febbraio 2015

SOLLEVARE LO SGUARDO, OLTRE, di Gualtiero Via

Una premessa
Il tentativo di "importare" l'esperienza Tsipras in Italia a quasi un anno di distanza può dirsi più o meno fallito. Ora, a chi si sta impegnando con serietà con «L'Altra Europa» questo sembrerà probabilmente un giudizio ingeneroso, ma io credo che un progetto nuovo vada valutato in base alle necessità. Chi vuole si potrà accontentare, ma non è molto serio. Le necessità sono molto, molto al di là dei limiti che stanno relegando il progetto italiano «L'Altra Europa» a una funzione pressoché irrilevante.
Ci vogliono sicuramente più ambizione, più competenza, più radicalità, più attitudine all'azione e alla comunicazione efficaci. Se non fossero bastate le riserve con cui le due forze partitiche organizzate (Sel e Rifondazione) vi presero parte, l'incertezza e debolezza intrinseca della leadership hanno fatto il resto.
È anche dalla presa d'atto dei gravi limiti del progetto «L'Altra Europa» (progetto nel quale mi ero impegnato al suo sorgere, come sanno alcuni dei destinatari di queste riflessioni) che ho deciso di proporre i punti di riflessione che seguono.
È più importante guardare alla situazione generale - italiana e internazionale. L'economia, le tensioni internazionali (citiamo terrorismo "islamista" e Ucraina, ma la lista è lunga - come tacere per esempio la Nigeria e la Palestina?) e l'immigrazione si confermano come i terreni più delicati - in merito ai quali si addensano i pericoli più gravi. Non da soli, anche qui: il versante delle cosiddette riforme (dalla legge elettorale a quelle sul lavoro) non è meno importante.

Sparigliare
L'idea è che si debba e possa elaborare una posizione capace di spostare e cambiare i termini del confronto politico così come sta avvenendo in Italia.
Senza addentrarsi in analisi che potrebbero farsi troppo minute o sofisticate, credo sia corretto identificare un problema molto specifico di comunicazione, che insieme ad alcuni altri "meccanismi" (li chiamerò così) contribuisce a negare all'Italia un confronto politico pubblico sensato, in cui proposte concrete e comprensibili siano fatte emergere e sulle quali il pubblico possa confrontarsi e prendere parte.
Il problema di comunicazione (semplifico molto) è che tutti gli attori, a prescindere dal colore ideologico-politico esibito, sono vittime del modello aggressivo e tautologico per cui l'apparire e il dichiarare costituiscono l'essenza e lo scopo della comunicazione (ne sono vittime o credono di saperlo e poterlo usare pro domo loro). C'è chi pratica questo mostrando soprattutto un volto pragmatico e fattivo, chi un volto aggressivo e "di pancia", ma sono differenze che non arrivano alla sostanza e ai contenuti nudi e crudi - se non a livello sloganistico e mai precisato. Una deriva del genere non sarebbe possibile senza un sistema dei media del tutto complice, e questo è un fatto (mi limito a ricordarlo, potrà essere approfondito in altro momento).
I "meccanismi" che fanno sistema con questo tipo di comunicazione sono vari. Uno deriva dalla sempre più forte omologazione verso il basso della classe politica. I difetti peggiori della cosiddetta prima Repubblica non sono affatto scomparsi (su tutti la corruttibilità), ma si legano a un livello medio di ignoranza (ignoranza generale e dilettantismo specifico) che solo qualche decennio fa sarebbe stato difficilmente immaginabile. È ben visibile, sotto la superficie di dialettiche che possono essere anche molto aggressive, un sostanziale "cane non mangia cane" (che non è affatto nuovo in assoluto, si pensi a ciò che i radicali chiamavano consociativismo negli anni Settanta) che coinvolge quasi tutti - i grillini sono in questo senso un'eccezione, probabilmente, anche se condannati a un'inefficacia e a un isolamento da cui è difficile immaginare che sapranno uscire.
Quella che dovrebbe e potrebbe essere la carta da giocare da parte di attori di sinistra, saper rivolgersi al paese reale, alle persone, ai milioni e milioni colpiti duramente dalla crisi, è invece il terreno della più evidente sconfessione. Le residue aree di riconosciuto consenso alla sinistra non si riscontrano fra i settori più colpiti dalla crisi, o più a rischio di pagarne a breve e in futuro i costi maggiori. Per età (alta) e per stratificazione sociale (pensionati, pubblico impiego), ciò che resta come tradizionale bacino elettorale non spostatosi a destra costituisce una parte ben poco dinamica della società (con questo non si vogliono - spero sia chiaro - fare classifiche fra settori sociali di serie A e di serie B, voglio solo indicare un dato che è bene conoscere). Le forze che hanno saputo rappresentare un ruolo trainante e progressivo nella storia sono sempre state in buona parte costituite da giovani, o come minimo, di giovani ne hanno saputo raccogliere in misura apprezzabile. Chi abbia frequentato un po' negli ultimi anni forze o gruppi di sinistra ha visto che raccolgono una popolazione mediamente matura, se non anziana (con l'eccezione dei "centri sociali", certo, che per ora trascureremo), e soprattutto che la capacità e determinazione di invertire questa sorta di "ghettizzazione" anagrafica è del tutto insufficiente (quando non assente del tutto). Ma alla vecchiezza anagrafica fanno riscontro - quel che è molto peggio - la senescenza culturale e mentale, la pigrizia, il conformismo.
Le persone "di sinistra" che continuano a definirsi tali e ad impegnarsi in qualche organizzazione sono in discreta misura ripiegate su se stesse, impaurite e frastornate. Da vent'anni subiscono, eseguono, vengono usate da dirigenti sempre meno convincenti, sempre meno autorevoli, sempre meno credibili. E sempre più sono essi (i compagni e le compagne, diciamo, "di base") incapaci di ribellarsi a questa situazione - come la Gertrude di Manzoni, che ad ogni nuova imposizione subìta in silenzio dal padre si ripeteva fra sé: questa è stata l'ultima volta, la prossima davvero gli dico no e mi libero, ma ovviamente la volta dopo era uguale e quel 'no' liberatorio non venne mai più.

Sollevare lo sguardo, oltre
Basta aver letto qualcosa, negli ultimi 8-10 anni, anche solo un po' di quotidiani e riviste, anche ogni tanto, per sapere di esperienze, dibattiti, movimenti nuovi: in America Latina, in Europa, nello stesso mondo arabo-islamico - pur con aspetti spesso fortemente ambigui e contraddizioni drammatiche. Sviluppi, esperienze, conflitti che stanno cambiando il significato contemporaneo e concreto di concetti e idealità come libertà, rivoluzione, democrazia, autonomia.
Il mondo sta cambiando molto rapidamente, e se certo è molto arduo provare a fare previsioni, una cosa almeno - ma di capitale importanza - è già oggi sufficientemente chiara: il mondo non è più unipolare. Non lo è più, e non tornerà ad esserlo, non nell'orizzonte visibile, nemmeno il più lontano e futuribile.
È finito un ciclo più che secolare (era iniziato, grosso modo, nel 1500!). Che ciclo è che finisce? Il "capitalismo"? Questo non lo sappiamo, molto probabilmente no, ma quello che invece possiamo dire è più importante e meno fumoso: cosa vuol dire, cosa è "capitalismo"? Potremmo radunare dieci studiosi diversi e averne dieci definizioni diverse!
Quello che è finito è il ciclo della espansione demografica, territoriale, economica e politica degli europei, bianchi, e dei loro strumenti di dominio - statali o privati, direttamente economici (le famose "Compagnie delle Indie" in età moderna, le multinazionali in età contemporanea).
Questo dato elementare, innegabile ed evidente non va taciuto, non va esorcizzato. Con ogni probabilità esso ha un peso significativo nell'inconscio collettivo bianco ed euroamericano, e in quanto esso tende ad avere di paranoico, ossessivo, pericoloso. Questo dato elementare, se non fatto emergere e nominato, in molti andrà ad alimentare i riflessi fobici e ossessivi (più di quanto già non stia avvenendo).
Credo e temo che (quasi) tutti i bianchi cresciuti fin dal latte materno col pregiudizio autoritario-borghese hobbesiano dell'homo homini lupus, messi di fronte all'evidenza dell'esaurimento, del declino del secolare dominio mondiale bianco, sono a rischio di reagire in modo elementare e irriflesso.
Il modo elementare è quello che dà per scontato che il dominio mondiale bianco rappresentasse un modello immanente e necessitante, per cui a fronte del declino di chi ricopriva quel "ruolo" dovrà inevitabilmente scatenarsi una lotta all'ultimo sangue per la successione. Questa cosa non risponde in nessun modo a quello che sta avvenendo (non certo perché di guerre e conflitti non ve ne siano: ve ne sono, ma rispondono ad altre logiche), ma non è facile spiegarlo quando uno ha in testa quel modello.
Cosa, allora, si sta sostituendo al "modello" del dominio bianco?
È presto per dare una risposta definitiva, ma se partiamo dalla demografia e dalla geografia umana forse siamo sulla strada giusta. Sono prima di tutto la demografia e la geografia umana che ci parlano del ciclo di espansione mondiale bianco ed europeo, sono esse, prima e più della storia del "capitalismo", ad offrirci chiavi preziose di comprensione.
Dal 1500 (vado molto a spanne) europei bianchi crescono, si espandono, colonizzano: in tutte le direzioni possibili. Lo fanno, più o meno ininterrottamente, fino a tutto l'Ottocento. In quei tre secoli popolano, conquistano, danno forma e nome al mondo, per quanto possono. Già a fine Ottocento siamo a fine corsa. Il pianeta non è infinito. A Berlino (1884), anche grazie a Bismarck, Francia e Inghilterra si accordano per evitare di farsi la guerra per qualche lembo di terra o giungla africana, ma l'epoca degli esploratori che si avventurano in territori "vergini" per piantarci la bandierina patria volge al termine. I successivi conflitti saranno per disputarsi confini, diritti di sfruttamento, aree di influenza ("posti al sole") su una scacchiera che, ormai, margini di espansione estensiva non ne presenta più.
Bene, ma strutturalmente, stando ai parametri di questa "demografia e geografia umana", com'era stato il mondo prima del 1500? In una parola (beh, in due) era stato un mondo multipolare.
E com'è, sempre geograficamente e demograficamente, il mondo di oggi?
È un mondo multipolare. Non è un mondo uguale a quello di 500 anni fa - questo sarebbe puerile pretenderlo - ma certamente, nelle condizioni globali attuali (non ultimo: ambientali, ecologiche…), è un mondo multipolare.

Il mondo nuovo
Non esiste più un unico, planetario moto di colonizzazione e popolamento che parta da un "centro" bianco ed europeo per irradiarsi negli altri continenti. Esistono, quelli sì, vari e diversi poli attrattivi di flussi migratori che corrispondono ai "poli" mondiali di più intenso sviluppo economico, urbano, demografico (il mix di questi tre indicatori può anche variare molto).
Ci sono alcuni poli di attrazione nel Nordamerica, altri nel Sudamerica, c'è l'Europa occidentale, c'è la Russia, c'è l'area del Golfo Persico, c'è il Sudafrica, ci sono i poli dell'Estremo Oriente e dell'Oceania. Non è il caos, non è l'anarchia che precede un inevitabile assestamento corrispondente a qualche tipo di dominio "globale": questi sono nient'altro che schemi mentali e/o pregiudizi eurocentrici (o forse il riflesso condizionato del troppo Risiko - o troppo Limes, per i più grandicelli). No. Il mondo è tornato ad essere multipolare, com'era ai tempi di Ramses (che a suo modo lo sapeva, tanto che fece pace anziché incaponirsi dopo la patta di Qadesh con gli Hittiti), ai tempi di Pericle (anche se lui non lo poteva sapere), e un po' più tardi di Kubilaj Khan (che pure lui lo sapeva, non ultimo grazie ai signori Polo, veneziani, a lungo suoi ospiti e poi perfino ambasciatori straordinari).
La massima aspirazione per il cinese medio, il brasiliano medio, l'indiano medio - e potremmo continuare - non è quella di vedere il suo stato, la sua bandiera, il suo capataz prendere il posto che fu già del "dominatore bianco". No. È quella di vivere la propria vita, nel proprio paese - magari con la possibilità di viaggiare - e possibilmente nella pace; vivere una vita vivibile, in cui il lavoro c'è - e non ti ammazza - e una casa la trovi senza indebitarti a vita, e se ti ammali puoi curarti anche se non sei ricco. E in cui non rischi di essere bombardato se il tuo presidente dice un 'no' di troppo agli Usa.
Credo che invece di predicozzi buonisti, che servono solo a fare incazzare di più chi già lo è di suo per le condizioni sempre più precarie in cui è costretto a vivere (e per la propaganda velenosa e deformante con cui lo bombardano i media mainstream), più che quello servano parole chiare e forti, coraggiose e in controtendenza, sul mondo nuovo che sta nascendo, che esiste già, che non sappiamo che forma e assetti avrà, ma è già, e sempre più sarà, multipolare. Viviamo nel mondo (reale) che esiste già, e contribuiremo a definirne i caratteri, seguitiamo ad avvoltolarci negli incubi, nel rumore e nella confusione delle ossessioni novecentesche, e saremo anche noi dei morti viventi, capaci solo di parlare ad altri morti.

Immigrazione
Sull'immigrazione - nella sua dimensione di diretto e quotidiano impatto, gli arrivi dei "clandestini" - credo si possa e si debba adottare una posizione molto radicale e netta, riassumibile in pochi punti e con una proposta estremamente concreta:

NO quote di ingresso, NO Bossi-Fini, NO Cie, ma apertura di normalissime rotte civili a quote di mercato (40-80 € traversata solo ponte Tunisi-Palermo, contro gli 800-1000 che prendono ora gli scafisti), per tutti.

"Apertura per tutti", come?
Solo dietro presentazione di un documento di identità e versamento di una caparra a copertura di eventuale viaggio di ritorno e di "x" mesi per la ricerca del posto di lavoro (sempre molto meno degli 800 € che ora vanno agli scafisti). Per chi del documento di identità fosse sprovvisto, credo sarebbe utile prevedere un "documento funzionale", rilasciato ad hoc ma da autorità ufficiali italiane, dietro dichiarazione di nome e provenienza e registrazione delle impronte digitali. Le restanti condizioni resterebbero identiche: pagamento del biglietto e caparra ragionevole a copertura del biglietto di ritorno; non sarebbe male aggiungerci il trattenimento di un'altra quota - ragionevole, più che ragionevole, anzi - per controllo medico all'ingresso (soprattutto di questi tempi e viste le condizioni igienico-sanitarie in cui vengono fatti molti di questi viaggi, che sono spesso fughe disperate).
Questa sarebbe certamente anche una misura di autotutela, come comunità nazionale. L'unica veramente possibile, fra l'altro. Una misura di autotutela e responsabilità, anziché menefreghismo cinico o scaricabarile (che è ciò che vediamo ora).
Un meccanismo del genere non avrebbe costi esorbitanti e potrebbe togliere tutto il "mercato" agli scafisti e agli "imprenditori" di questi flussi. Potrebbe creare, il particolare è importante, una situazione nuova e molto più difficile per le varie forme di criminalità organizzata (mafie tout court, terroristi ecc.).
Ovviamente la questione immigrazione non può essere ridotta al come comportarsi a fronte degli ingressi "clandestini". E lì si va sul terreno delle politiche del lavoro e sociali, e altri aspetti connessi, ognuno specifico e delicato - per dire, è tutt'altro che piccola la problematica dei bambini e giovani figli di immigrati, in molti casi nati e cresciuti in Italia, italofoni, ma privi di cittadinanza e persone di serie B a tutti gli effetti (lo stesso Napolitano e la Chiesa cattolica hanno più volte sollecitato, in tema, il passaggio al principio dello ius soli nella concessione della cittadinanza).
Per ora non approfondisco questi aspetti, che andranno trattati.

Vi sono altri punti importanti sui quali è a mio avviso possibile e necessario "sparigliare le carte", abbandonando idee e posizioni che sono diventate puri e semplici dogmi, pregiudizi a cui ci si aggrappa, o modi di blandire fette di elettorato - a seconda dei casi.

Scuola
Parlerò un po' di scuola (è il campo in cui lavoro: insegno italiano e storia alle superiori, da ormai oltre quindici anni).
La scuola è in sofferenza, sotto più di un aspetto, un po' in tutto il mondo, salvo forse in pochi paesi in cui si sono fatte scelte coraggiose nei metodi e contenuti e grandi investimenti. Vi sono paesi - ormai ne hanno parlato molti media - nei quali si è deciso che l'istruzione fosse un terreno strategico e di preminenza assoluta - su tutti la Finlandia. Questo piccolo paese, da anni in testa a quasi tutti gli indicatori di qualità dell'istruzione, spende per essa oltre il 7% annuo del suo Pil (inutile dire che il ritorno di questo investimento, anche solo strettamente economico, è ampiamente positivo).
Un punto di sofferenza molto comune a tanti sistemi scolastici nel mondo è la distanza fra i modelli educativi ereditati dal passato e le modalità di comunicazione, interazione e ricerca/utilizzo di informazioni e contenuti, così come avviene nell'era digitale, soprattutto da parte di chi è più giovane.
Dall'esterno forse non si ha cognizione del livello del divario che sta allontanando sempre di più la scuola italiana dalla media europea. Un dato recente parla di un 7-9% di aule informatizzate nella scuola italiana, a fronte di paesi dove lo stesso dato viaggia dal 60 al 95%.
Un altro dato recentissimo riguarda i tempi e l'efficacia dello studio, anche individuale: gli studenti italiani sono in assoluto fra quelli che spendono più ore di tutti nei compiti a casa (ovviamente ciò non riguarda le fasce più deboli, che i compiti non li fanno per niente, per più di un motivo, fasce che da noi sono fortemente concentrate nelle scuole professionali, altro fenomeno tutto e solo italiano); bisogna aggiungere che queste molte ore dedicate ai compiti non sono spese bene, perché se andiamo a vedere i risultati, studenti che studiano a casa molto meno (Finlandia, ma anche Gran Bretagna, Germania, tutto il Nord Europa…) vanno meglio o molto meglio dei nostri nella maggior parte delle materie.
Le cose necessarie da fare sarebbero (sono) tante, indicherò alcuni punti chiari e urgenti, in negativo e in positivo.
In negativo: per quello che resta della "sinistra", in tema di scuola uno dei primi obiettivi che si enuncia è la "stabilizzazione dei precari". È un errore, e grave; una concessione populistica e corporativa. È sacrosanto il principio del diritto al lavoro, ma non per questo si può e si deve difendere il diritto ad insegnare per chi di insegnare non è in grado.
Uno dei problemi della scuola italiana è che i canali di formazione degli insegnanti sono deboli, generici, poco selettivi, ma soprattutto pochissimo formativi (nel senso di reale, impegnativa trasmissione degli elementi di una professione - funzione tutt'altro che semplice fra l'altro). È sbagliato seguire la deriva facile per cui la scuola italiana è tutta da buttare, gli insegnanti sono tutti dei privilegiati che lavorano solo 18 ore a settimana e tutti incapaci di rapportarsi col mondo esterno. Questo è un altro populismo, un altro stereotipo da respingere senz'altro. Ciò detto, è vero che un'anomalia della scuola italiana è la facilità con cui può accadere e accade che si trovi ad insegnare personale che nel modo più evidente non è in grado di farlo. Ogni sistema educativo ha pregi e difetti nel mondo, ma avviene solo in Italia che nella stessa scuola ci possano essere classi dai risultati buoni o molto buoni e classi, a parità di ambiente di provenienza e formazione pregressa, dai risultati disastrosi. Spesso questo avviene perché una classe ha, in una materia (a volte, più d'una) un insegnante non in grado di insegnare - spesso l'incapacità è soprattutto relazionale ed educativa, non di rado vi sono casi di logoramento personale molto vicini al burnout.
Per decenni si è potuti diventare insegnanti semplicemente prendendo una laurea e mettendosi in graduatoria per fare supplenze (e accumulare punteggio), in attesa della "sanatoria", che assicurava l'abilitazione e in prospettiva l'assunzione in ruolo, praticamente quasi solo grazie a una laurea e alla pratica. In tanti abbiamo fatto questa trafila, e in tanti siamo diventati insegnanti più o meno capaci - anche molto capaci; ma c'è chi invece capace non era, in grado non era, ed è entrato lo stesso, e insegna.
L'Italia è forse l'unico paese Ocse nel quale gli insegnanti non sono tenuti, per legge (per contratto), ad aggiornarsi - ed è pieno di insegnanti che insegnano da venti o trent'anni le stesse cose allo stesso modo. Il mondo negli ultimi venti o trent'anni è cambiato molto, e più o meno per tutti. Tanti, senza aggiornarsi, avrebbero dovuto chiudere: non solo l'informatico, ma anche il meccanico, l'elettrauto, il grafico, il fotografo, l'infermiere… l'insegnante no. Da contratto l'aggiornamento è un "diritto", ma non un dovere.
Com'è possibile che partiti e sindacati che a parole si dicono difensori della scuola pubblica - esaltata come leva di equità, progresso sociale ecc. - non vedano il problema? È concepibile una scuola di qualità in cui gli insegnanti non sono tenuti ad aggiornarsi?
Ci deve essere una spiegazione. La spiegazione è semplice. Per i partiti e i sindacati italiani la scuola - lo sappiano coscientemente o no gli interessati - è welfare mascherato. Welfare mascherato. Un comparto la cui funzione fondamentale è dare lavoro a della gente. L'Italia è probabilmente l'unico paese al mondo in cui insegnanti e bidelli hanno lo stesso contratto, le stesse rappresentanze e le stesse elezioni per la designazione dei rappresentanti sindacali (esistono scuole nelle quali nelle Rsu siedono solo bidelli e non insegnanti, e la cosa è del tutto legale e possibile). Questa è la dignità e l'importanza che il sistema italiano riconosce alla figura insegnante nella scuola "pubblica".
Si potrebbe dire di altre storture e rigidità, tutte assurde, gravi, tali da rendere impossibile (o quasi) il fare scuola in modo moderno, sensato, gratificante per tutti. Altra conferma del modello sotteso "scuola = welfare mascherato" lo si vede dalla struttura del bilancio dell'istruzione. Oltre il 90% è assorbito dalla voce "stipendi del personale". Qualunque organizzazione il cui bilancio sia così strutturato è impossibilitata anche solo a ragionare di futuro, di investimenti, di innovazione: senza risorse non si ricerca, non si innova: si riproduce il tran-tran usuale, e basta.
Nella scuola italiana ci vogliono sì maggiori risorse anziché tagli su tagli, ma anche, anzi ancor di più, ambizione, gusto e passione per la sperimentazione e l'innovazione, meritocrazia - e in dosi da cavallo. Il pregiudizio secondo cui la meritocrazia sia una bestemmia e un cavallo di Troia per far passare idee e pratiche aziendaliste, competitive, discriminatorie, è semplicemente idiota. Va abbandonata. Le persone capaci sono fondamentali - in ogni campo della vita - e la scuola ne ha bisogno.
È vero che a livello di propaganda la "meritocrazia" è stata ed è un cavallo di battaglia dei bocconiani liberisti a oltranza, ma questa è appunto propaganda: non si può lasciare a questi specialisti ignoranti (magari dai titoli taroccati) un valore come quello della competenza. Non si può.
Che la meritocrazia sia un'arma ideologica della destra è un pregiudizio che va demolito. Basta guardare la realtà italiana per demolirlo. Primo: proprio la scuola italiana - così vecchia e così poco efficace - è fonte di discriminazione. All'estero, i sistemi educativi più mostrano standard alti (e fanno selezione all'ingresso per gli insegnanti) e più funzionano da volàno di promozione sociale; sono questi i sistemi che consentono anche a chi proviene da strati sociali deboli di raggiungere risultati alti.
In Italia questo avveniva negli anni Sessanta e Settanta, poi ha iniziato ad avvenire meno e da decenni non avviene più, per niente (o quasi). La scuola italiana non solo registra e "riceve", per così dire, ma spesso conferma e allarga la distanza fra studenti provenienti da un ambiente socio-culturale alto e studenti di ambiente svantaggiato. Lo dicono statistiche pubbliche, di non difficile lettura.
Una delle statistiche meno usata e citata - forse per l'imbarazzo e la vergogna che provoca - riguarda i livelli generali di scolarizzazione in Italia. La curva di ascesa degli anni Sessanta e Settanta si è arenata e ha poi cambiato segno. Siamo uno dei paesi più ignoranti dell'Ue, e lo siamo di più ad ogni anno che passa. Una causa diretta di questo sono i numeri degli abbandoni scolastici: gli studenti, letteralmente, scappano dalla scuola. Decenni fa lo facevano così pochi che la cosa poteva sembrare marginale: oggi la cosa investe percentuali a due cifre e va tutta ad allargare la voragine fra una parte d'Italia che resta "a galla" (con fatica crescente per i più) e un'altra parte sempre più alla deriva.
Uno dei fattori dell'invecchiamento e della deriva di inefficacia crescente della scuola italiana ha le sue radici negli anni Settanta, ma nella politica, non nell'istruzione. In quegli anni si consumò un accordo non scritto fra i principali partiti e sindacati (allora erano molto forti i tre sindacati confederali, Cgil-Cisl-Uil, oltretutto uniti da un patto per cui agivano sempre di concerto nelle cose di maggior rilievo). Cosa diceva questo accordo non scritto? Una cosa semplice: la scuola sarebbe diventata una specie di grande ammortizzatore sociale per assorbire la domanda di occupazione dei settori socialmente e/o geograficamente più deboli, a cui si riteneva che il sistema economico nel suo insieme non avrebbe saputo dare altrimenti risposte adeguate.
Contestualmente, si recideva il legame "naturale", la possibilità di comunicazione che vi era sempre stata fra scuola e università, per cui l'insegnante di scuola bravo e/o ambizioso che voleva terminare la carriera da docente universitario lo poteva tentare. Dalla fine degli anni Settanta ciò non fu più possibile e la "carriera" professionale scolastica venne separata in modo invalicabile da quella universitaria. L'unica possibilità di "carriera" della scuola italiana finì di fatto per essere agganciata agli scatti di carriera; l'anzianità come unico criterio di merito.
Coi decenni si è prodotto una sorta di "modello" di fatto, peculiare, tutto e solo italiano. Quello che ha iniziato a funzionare è un patto implicito molto semplice fra lo stato e il dipendente assunto nella scuola: io, Stato, ti chiedo molto poco, tu, insegnante, accontèntati anche di poco.
Uno dei risultati di questa situazione è che avviene una scrematura di fatto: le persone più dotate, ma anche (legittimamente) ambiziose, saranno portate a lasciare la scuola come ultima scelta nei loro progetti, perché la scuola è un comparto che non offre possibilità di carriera. Si è data la possibilità a molti di identificare la scuola non come il laboratorio impegnativo che dovrebbe essere, ma come "il posto", nel senso più piatto, fantozziano e impiegatizio possibile. Ovviamente gli insegnanti che credono nel loro lavoro ci sono e restano, ma una diffusa, strutturale, pesante presenza degli "impiegati" della scuola, poco attenti a ciò che va oltre lo sbrigare le procedure (spiegazione-voto-tenuta del registro-scrutinio), è costantemente alimentata dal meccanismo generale.
Le strutture consolidate del mercato del lavoro non sono immutabili, ma per cambiarle in modo pensato e secondo un pensiero sociale evoluto e democratico occorrono grande determinazione e grande capacità di scegliere - oltre all'affidarsi alle competenze, che non va scordato.

Crisi educativa e umiltà
Molti segni sembrano indicare che, prima ancora che scolastica, viviamo una crisi profonda educativa e morale. Sempre più bambini e adolescenti crescono nella debolezza, confusione o latitanza di figure di riferimento adulte, e i bisogni inevasi, il disagio, la domanda inarticolata (o aggressiva, o autolesionistica) che tutto questo genera si scarica sul sistema scolastico. Il circolo vizioso del rimpallarsi dei rispettivi rancori, delle rispettive impotenze e fragilità fra singole famiglie e singole scuole va rotto (andrebbe considerato, fra l'altro, come corrispettivo trasparente e addirittura logico delle dinamiche di guerra tra poveri care al potere).
Invece di dividersi fra difese corporative e fuori tempo della scuola e degli insegnanti (come se la scuola andasse bene così com'è) e sostegno populistico dei genitori e delle famiglie "a prescindere", bisogna capire e accogliere il disagio e i disagi, ma anche parlare senza timori di crisi - di valori e di modelli, sia familiari, relazionali, che educativi e scolastici, e accettare con umiltà che abbiamo bisogno ciascuno e tutti di studio, di aiuto e auto-aiuto, e di spirito di comprensione e accoglienza come pre-condizioni per vedere una via d'uscita.

Credibilità e fiducia
Con questa consapevolezza potremo iniziare a ricostruire, ognuno già dal suo proprio àmbito, e potremo essere credibili come persone (come gruppo? come gruppi?) preoccupate sinceramente del bene comune e della cosa pubblica. Senza la capacità di ispirare questo tipo di fiducia ogni tentativo politico (che non voglia essere pura cosmesi) sarà destinato ad altri insuccessi. Bisogna invece puntare al successo, se no è stupido anche solo cominciare.

Budrio (BO), 14 febbraio 2015

NOTA BENE:
Queste pagine sono una bozza di lavoro, offerta alla discussione e al confronto fra poche/i amiche/i e compagne/i, colleghe/i, genitori, amministratori, nella speranza che possano apparire utili e interessanti. Sono le riflessioni personali di una persona di 53 anni, padre e marito, insegnante, per il quale la politica (e lo studio) sono sempre state cose molto importanti, fin da ragazzo. Vedere che la politica è sempre più svilita (fino a coincidere con cialtroneria conclamata o crimine) e lo studio irrilevante, nelle cose pubbliche italiane, è sempre più preoccupante, e non riesco a tollerarlo - mi spaventa pensare a chi è bambino oggi.
Questo non è un documento pubblico, non è destinato ad alcun tipo di propaganda o campagna - per cui sarebbe evidentemente poco adatto. Invito chi legge a tenere conto di questo. Ogni osservazione, critica, aggiunta, correzione è la benvenuta - nei limiti della correttezza e del rispetto. Grazie.
G.V.

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