CONTENUTI DEL BLOG

domenica 25 gennaio 2015

DEFLAZIONE E DISOCCUPAZIONE IN EUROPA, di Michele Nobile

… e i problemi che il quantitative easing non risolve

La signora Merkel e il pappagallo congelato
Un colossale pappagallo zampe all'aria, con tutta l'apparenza d'essere morto: così la copertina di The Economist rendeva lo stato dell'economia europea nell'ultima settimana di ottobre dell'anno appena trascorso. Nella stessa immagine, una piccola Angela Merkel osserva il pappagallo affermando: sta solo riposando (it’s only resting).
Di cosa potrebbe soffrire lo sventurato pappagallo? Di freddo, nonostante le temperature anomale dell'autunno. Freddo che in termini economici si chiama deflazione: The Economist suggerisce dunque un paragone tra i prezzi e i parametri di temperatura entro cui si svolge la vita. Un certo livello d'inflazione nel processo economico è l'equivalente del sano riscaldamento del corpo nell'attività fisica: la crescita nominale dei prezzi e dei salari è indice di crescita dell'investimento e dell'occupazione, di vitalità economica. Viceversa, l'analogo della deflazione è il processo di congelamento, che causa sonnolenza, incoscienza e infine, se non si arresta, la morte. Ed è appunto questo il processo di cui può rimanere vittima il pappagallo, cioè l'economia europea.
Infatti, se si osserva il termometro dei prezzi al consumo, esso ci dice che la temperatura media annua nell'area dell'euro a ottobre era allo 0,4%, a novembre 0,3%, a dicembre -0,2% (ultimo dato del flash Eurostat del 7 gennaio 2015). A incidere fortemente sul livello dei prezzi è la riduzione della componente energetica, ma la crescita dei prezzi dei beni industriali staziona da tempo intorno allo zero, mentre i prezzi dei servizi, meno sottoposti alla concorrenza internazionale, sono i più caldi (1,2%). In Germania, dove pure il tasso di disoccupazione è meno della metà della media europea, il tasso d'inflazione annuo a ottobre era allo 0,7%, in novembre 0,5%; se si guarda alle altre grandi economie del continente, con gli stessi riferimenti temporali, i tassi per la Francia erano 0,5% e 0,4%, per l'Italia 0,2% e 0,3%, per la Spagna -0,2% e -0,5%. Oltre alla Spagna, a novembre erano addirittura sotto il punto di congelamento: Bulgaria (-1,9%), Grecia (-1,2%), Polonia (-0,3%). Se invece che i tassi annui si guardano le previsioni del tasso mensile di novembre, tutti i paesi europei sono sotto lo zero, ad eccezione della Germania, giusto a zero, della Norvegia e dell'Austria (dati Eurostat, release del 17 dicembre 2014).
Posto il problema, l'utilità del paragone tra il livello dei prezzi e la temperatura corporea finisce qui. Nei rapporti monetari e mercantili non c'è nulla di naturale.

Il grande freddo non è una minaccia: in Europa è già arrivato. O meglio: in effetti non è mai passato. Da una parte si può dire che, fra il terzo trimestre del 2009, quando il tasso dei prezzi al consumo per tutti i paesi Ocse era -0,4%, e il primo trimestre del 2011, quando era risalito al 3,2%, le pressioni deflazionistiche abbiano concesso solo una tregua temporanea. Infatti, dal 2011 in poi, in Europa la riduzione dei prezzi è stata ininterrotta. È l'effetto della caduta della domanda aggregata e dell'occupazione, del ripianamento dei debiti privati, dell'austerità fiscale dei governi, delle condizioni del credito alle imprese e della domanda di credito per investimenti di queste ultime, della grande incertezza sul futuro. D'altra parte, le regole inscritte nei trattati europei sono tali da conferire all'eurozona e all'Unione europea una congenita vocazione deflazionistica; meglio ancora, l'unilaterale ossessione per l'obiettivo della stabilità dei prezzi (formalmente, l'unico obiettivo della Banca centrale europea (Bce), che però non le impedisce di giudicare l'insieme delle politiche degli Stati membri) e i vincoli all'espansione della spesa pubblica (fortemente rafforzati negli anni più recenti) configurano un'attitudine pro-ciclica, ma con reazioni asimmetriche. La Bce è poco propensa a intervenire se si tratta di moderare o fermare la formazione di bolle speculative e la crescita della domanda interna, trainate dal debito privato; viceversa, è molto rigida nel bollare i deficit pubblici che, nella recessione, costituiscono un pavimento all'aggravarsi della crisi.
L'asimmetria, già implicita nelle regole e nel concreto operato delle istituzioni europee, è raddoppiata dall'inesistenza di un meccanismo che distribuisca il peso dell'aggiustamento economico anche tra le economie più forti, che presentano surplus nella bilancia dei pagamenti. Eppure, è ovvio che al surplus delle economie più competitive debba necessariamente corrispondere il deficit di altre economie dell'eurozona.
Con l'ironico contrasto tra l'immagine del pappagallo stecchito e la battuta della cancelliera tedesca, The Economist voleva far intendere che la maniacale ossessione per il rigore dei saldi finanziari pubblici crea pericolose illusioni nei confronti dello stato reale dell'economia; da notare che si tratta di un settimanale sul cui liberismo non può esserci il più piccolo dubbio. In questa prospettiva, la signora Merkel sembra pensare che nell'economia europea sia in corso un processo disinflattivo, una semplice riduzione dei prezzi nominali, non una deflazione, indice di stagnazione o peggio.
Poiché l'Unione europea è il mercato più ampio e ricco del pianeta, la sua stagnazione è una palla al piede per l'intera economia mondiale capitalistica; e l'eventuale suicidio dell'eurosistema, causato dalla rigida applicazione delle norme restrittive, costituirebbe un trauma dagli effetti imprevedibili per il sistema finanziario globale. La preoccupazione per il quadro europeo non è solo del settimanale britannico. Per fare qualche esempio autorevole: nel World Economic Outlook di ottobre, il Fondo monetario internazionale (Fmi) sottolineava che a medio termine esiste rischio di stagnazione nei paesi avanzati e di declino del potenziale di crescita in quelli emergenti. Per questo auspicava politiche monetarie e fiscali di sostegno alla ripresa e alla crescita a lungo termine, anche con investimenti infrastrutturali pubblici a sostegno della domanda.
Ed è interessante che, nonostante il rilievo nella politica internazionale, ancora una volta il Fmi (in buona compagnia) è costretto a contraddire le proprie precedenti previsioni. All'inizio dell'anno prevedeva infatti che activity is expected to improve further in 2014–15, largely on account of recovery in the advanced economies, nello stesso tempo riuscendo a pararsi da future smentite, ricordando le fragilità e le incertezze. In un documento di gennaio 2015, dal significativo titolo Escaping the Stagnation Trap: Policy Options for the Euro Area and Japan, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che comprende gli Stati a più alto reddito, nota che
«l'economia globale continua a muoversi a bassa velocità e molti paesi, particolarmente in Europa, sembrano incapaci di superare l'eredità della crisi. Con elevata disoccupazione, alta disuguaglianza e scarsa fiducia che ancora gravano pesantemente, è imperativo implementare velocemente riforme che diano impulso alla domanda e all'occupazione e accrescano il potenziale di crescita. Il tempo per agire è ora. Esiste un rischio crescente di stagnazione persistente, in cui la debolezza della domanda e della crescita potenziale del prodotto si rinforzino reciprocamente in un circolo vizioso. Il Giappone ha vissuto un prolungato periodo di crescita lenta».
Il rischio che corre l'Europa è quello di cadere nella trappola in cui è incorso il Giappone dopo il crollo della bolla immobiliare e finanziaria nel 1990, con la conseguente «decade persa». In effetti per il Giappone si è trattato di ben più di una decade, e per l'Europa l'Ocse prevede che il Pil per abitante non raggiunga il livello precedente la crisi prima del 2017. Secondo l'Ocse, il piano Juncker di investimenti varato a novembre 2014 dalla Commissione europea si muove nella giusta direzione ma, anche nella migliore delle ipotesi, corrisponde a meno dell'1% del Pil dell'area ed è ancora molto al di sotto di quanto è necessario fare per rilanciare investimento e occupazione in Europa: «la domanda aggregata rimane debole: la restrizione fiscale ha contribuito a ridurre la domanda, specialmente nell'area dell'euro» (p. 3).
Insomma, l'establishment non-europeo esige da tempo che l'Europa rilanci la domanda. Certo, il predicatore non ha la coscienza a posto, ma i governi (e la stessa Bce) hanno già dimostrato che i rapporti tra Stato ed economia non sono quelli degli anni Venti del secolo scorso e che, nell'emergenza, le autorità politiche e monetarie sono pronte a violare le regole che si sono autoimposte. Quindi, sia pur tardiva, non stupisce la decisione della Banca centrale europea di ricorrere al quantitative easing (nel gergo, in italiano: l'allentamento quantitativo), il 23 gennaio del nuovo anno. Sarà il quantitative easing sufficiente per allontanare l'economia europea dalla via, già intrapresa, di una lunga stagnazione del tipo giapponese? Se ne può dubitare, sia per quelli che sono i limiti intrinseci del quantitative easing, sia per le specificità della sua versione europea. Di questo dico più avanti: prima penso sia utile l'inquadramento teorico e congiunturale della situazione.

La moneta non è mai socialmente neutrale
L'estensione dei valori entro cui può variare l'inflazione «benefica», come quelli del rapporto tra debito pubblico e Pil, per fare un esempio non casuale, è molto più ampia di quella della variazione della temperatura corporea, non può essere fissata in anticipo e in modo definitivo, il fenomeno normale è la variazione dei tassi di crescita dei prezzi, non la riduzione assoluta dei prezzi nominali. A meno che non si importi massicciamente dalle aziende capitalistiche localizzate in Cina: fenomeno ambivalente perché, da una parte, le importazioni a buon mercato sostengono il salario reale nei paesi a capitalismo avanzato, mentre l'accumulo di riserve presso la Banca centrale cinese sostiene il valore del dollaro (un insieme di relazioni produttive e finanziarie che è uno dei pilastri su cui si regge il potere strutturale del capitalismo Usa nell'economia mondiale); dall'altra parte, le stesse importazioni possono estromettere dal mercato aziende e settori che non riescono a reggere la competizione sul piano del costo del lavoro, dato il supersfruttamento della forza-lavoro cinese. Quest'ultimo colpisce i lavoratori e la competitività delle esportazioni di altri paesi, detti «emergenti», ma interessa anche lavoratori e competitività di alcuni paesi europei che non fanno parte, o ne fanno parte in misura limitata, della catena del valore regionale che fa capo alla Germania: tra questi, l'Italia. Su scala globale, l'entrata in scena della Cina taglia le gambe alle strategie di sviluppo export-led di tanti paesi periferici, già di per sé discutibili per l'effetto sui prezzi risultante dall'accresciuta concorrenza (fallacy of composition). Anche solo per questo fatto, il modello cinese non è generalizzabile e l'idea della Cina come perno di un qualche genere di nuovo ordine economico multipolare è un sogno reazionario. Le esportazioni dalla Cina, sia da parte del capitale interno che transnazionale, sono parte del problema della deflazione mondiale, in particolare per le merci industriali.
La questione cruciale è che la moneta può significare cose diverse per classi e categorie sociali diverse: per alcune è denaro che produce denaro, cioè capitale investito in mezzi di produzione e in titoli finanziari, per altre reddito da spendere in beni di consumo o da utilizzare per ripagare il debito contratto per l'acquisto della casa. Che si tratti dell'euro o della lira o del marco, è sempre così.
Poiché i prezzi delle infinite merci dei tanti settori e rami dell'economia - tra i quali, fondamentale, il prezzo a cui si vende la capacità di lavorare - variano in modo diverso, sono i diversi ritmi con i quali mutano i prezzi relativi tra merci e settori diversi che fanno sì che l'inflazione non sia fatto socialmente neutrale, ma un modo attraverso il quale si esprimono e si modificano i rapporti di forza verticali, tra le classi, e orizzontali, tra i capitali in concorrenza e le frazioni di capitale (produttivo, commerciale e finanziario). Riducendo il valore reale del debito (in assenza di indicizzazione), l'inflazione favorisce i debitori e il capitale produttivo, danneggiando i creditori e i rentiers, coloro che percepiscono rendite immobiliari e finanziarie. Ma l'inflazione dei prezzi dei beni di consumo (e il maggior costo delle importazioni conseguente dalla svalutazione di una moneta relativamente alle altre) riduce anche il potere d'acquisto dei lavoratori salariati e accresce la quota del profitto nel reddito nazionale, se non esiste un meccanismo istituzionale o una situazione di lotta che consenta ai salari di rincorrere adeguatamente la crescita dei prezzi.
Viceversa, la disinflazione può aumentare il salario reale dei lavoratori, nello stesso tempo in cui il salario si riduce relativamente al profitto sullo stock di capitale: e questa è la norma del capitalismo (stante la differenza tra aumenti della produttività e del salario reale). Si intende, quindi, la ragione dell'ossessiva preferenza per la bassa inflazione in un capitalismo fortemente finanziarizzato, quale è quello contemporaneo.
Tuttavia, non è affatto detto che la finanziarizzazione (termine che va precisato) implichi un unilaterale dominio o un'egemonia (altro termine vago, il cui meccanismo operativo va definito) del capitale finanziario sul capitale produttivo genericamente detto. Una politica che abbia come obiettivo il tasso d'inflazione è funzionale alla strategia neomercantilista di accumulazione del capitale produttivo trainata dalle esportazioni: livelli relativamente elevati di disoccupazione assicurano la disciplina del lavoro vivo e di chi il lavoro lo cerca, spinge alla ristrutturazione dei processi produttivi, alla centralizzazione del capitale, all'internazionalizzazione del capitale produttivo mediante investimenti diretti all'estero. Appunto quel che è accaduto in Europa, in particolare nel nord e verso oriente. Le grandi imprese transnazionali non solo possono utilizzare i fondi interni per l'investimento, ma possono gonfiare i profitti societari attraverso le loro branche finanziarie e l'acquisto di azioni proprie, e avere accesso al credito in misura molto superiore alle piccole e medie imprese.
Le differenze nel livello dei prezzi determinano, in rapporto alla produttività del lavoro, differenze nei tassi di cambio reali tra le valute, influendo quindi sulla competitività internazionale: questione di grande rilievo nella discussione sugli squilibri nell'area dell'euro, ma erroneamente intesi come se si trattasse di squilibri delle bilance dei pagamenti fra Stati con valute diverse, o tra membri di un sistema di cambi fissi, invece che come rapporti finanziari tra soggetti economici interni a un'unione monetaria. Le due interpretazioni comportano indirizzi politici opposti.

La violenza della moneta: deflazione da debiti e iperinflazione
L'inflazione «malvagia» è l'iperinflazione, che esprime la disgregazione degli scambi mercantili, il venir meno del valore della moneta (nazionale), il passaggio al baratto. Un esempio classico è l'iperinflazione nella Repubblica di Weimar, tra l'estate 1922 (aumenti mensili dei prezzi superiori al 50%) e 1923 (aumenti mensili dei prezzi superiori al 100%, fino al 1.000% in autunno, prima della stabilizzazione). A questo proposito si legge spesso che, memori di quell'antico disastro, i tedeschi siano congenitamente avversi all'inflazione. È una balla: i tedeschi che possono ricordare l'iperinflazione sono oramai morti o centenari e, purtroppo, per la stragrande maggioranza degli esseri umani la storia non è maestra di vita. Invece, alcuni tedeschi anziani potrebbero ricordare la deflazione dei primi anni Trenta, che portò alla morte la Repubblica di Weimar e alla vita il Terzo Reich hitleriano.
Si parla di deflazione, termine che da solo si riferisce al livello dei prezzi, ma il rischio maggiore è, più precisamente, la deflazione da debiti. In cosa consiste? Il modello classico della deflazione da debiti è quello elaborato dall'economista statunitense Irving Fisher nel 1932-1933. A cavaliere dei secoli XIX e XX Fisher era stato un giovane pioniere del marginalismo negli Stati Uniti; con un dono per la matematica, fu l'inventore dei numeri indice e l'artefice dell'equazione degli scambi per cui, dati il volume degli scambi (poi: il prodotto reale) e la velocità di circolazione della moneta, il livello dei prezzi dipende dall'offerta di moneta: questa equazione è la base del monetarismo e della tesi della neutralità della moneta. Questa ovvia equazione è però vera solo nel caso in cui la crescita dello stock di moneta sia proporzionale per tutti i soggetti economici, in modo che non muti la distribuzione del reddito reale. Non è ciò che avviene in un mondo diviso in classi sociali, che hanno posizioni di potere strutturalmente diverse e possibilità qualitativamente differenti di accesso al finanziamento mediante credito, e con mercati che non sono perfettamente concorrenziali, ma dominati da imprese che non «ricevono», ma fanno i prezzi.
L'ortodosso Fisher assumeva che la moneta fosse neutrale a lungo termine; tuttavia, quando venne alle prese con la Grande depressione, sostenne che la quantità moneta potesse risultare destabilizzante dei rapporti finanziari a breve termine: durante il boom economico si sviluppano bolle speculative che portano all'inflazione degli attivi finanziari, ma quando le bolle si sgonfiano e i prezzi delle attività iniziano a cadere, il tasso di interesse reale sui prestiti (la differenza tra tasso nominale e tasso d'inflazione) cresce, quindi cresce anche il valore reale dello stock del debito di imprese e famiglie. Il deteriorarsi della situazione finanziaria dei debitori porta le banche a restringere il credito, danneggiando anche le imprese finanziariamente sane, mentre la deflazione dei titoli finanziari, conseguente dalla corsa generale alla vendita di attività, aumenta il peso reale del debito. I fallimenti si susseguono, la domanda per beni d'investimento cade ulteriormente, la disoccupazione aumenta, la domanda e i prezzi cadono ancora e così via, in una spirale che pare inarrestabile perché si autoalimenta. Con le parole dello stesso Fisher:
«E viceversa, la deflazione causata dal debito reagisce sul debito. Ogni dollaro di debito non ancora rimborsato diviene un dollaro più pesante, e se il sovraindebitamento con cui noi siamo partiti è abbastanza grande, la liquidazione dei debiti non può tenere il passo con la caduta dei prezzi che causa. In questo caso, la liquidazione del debito sconfigge se stessa. Mentre riduce la quantità di dollari dovuti, non può farlo alla stessa velocità con cui aumenta il valore di ogni dollaro che ancora si deve. Quindi, lo stesso tentativo degli individui di alleggerire il peso del debito lo aumenta, a causa dell'effetto di massa della fuga precipitosa, come una piena che s'ingrossa, a liquidare ogni dollaro dovuto. Abbiamo, allora, il grande paradosso, che propongo, che è il segreto principale della maggior parte delle grandi depressioni, se non di tutte: più i debitori rimborsano e più devono rimborsare.
Più la barca economica s'inclina, più tende a inclinarsi. Non tende a raddrizzarsi, ma a capovolgersi»1.
Un paio di osservazioni in merito. La prima è che di Fisher sono rimaste famose le sue affermazioni, pochi giorni prima del crollo della borsa di New York nell'ottobre 1929, secondo cui i corsi azionari non erano inflazionati e sarebbero rimasti stabili a un alto livello: un errore di valutazione che gli costò un patrimonio e la credibilità. Questo è solo un esempio illustre dell'atteggiamento mentale tipico delle fasi di boom, che ogni volta spinge gli operatori economici, gli apologeti del capitalismo (ma, spesso, non solo loro) e le autorità a sostenere che il sistema abbia raggiunto una condizione di stabilità tale che non sono più possibili crisi gravi. A decenni di distanza, si tratta della stessa mentalità che, all'inizio del XXI secolo, faceva dire al presidente della Federal Reserve che ormai si era entrati nell'epoca della Great Moderation, essendo la politica monetaria in grado di ridurre l'ampiezza delle oscillazioni congiunturali.
Anche questo ci dice che in una società capitalistica la moneta non è una cosa ma un rapporto sociale, per cui la fiducia e le credenze, i comportamenti mimetici da gregge, giocano un ruolo fondamentale. Ci dice che si tratta di un rapporto sociale (che al limite non richiede supporti materiali) che si esprime in rapporti di crediti e debiti, in posizioni finanziarie soggette a variare nel tempo, ovvero progressivamente instabili a causa della progressione dell'espansione economica e dell'accumularsi di squilibri finanziari e produttivi tali da impedire, a un certo momento, che il debito sia ripagato, che il circolo finanziamento-pagamento sia chiuso. La creazione di moneta attraverso il credito finanzia l'investimento e la riproduzione allargata del capitale: essa, tuttavia, è sempre una scommessa sulla futura convalida sociale della produzione di beni e di servizi. L'espansione incoraggia i giocatori, li spinge a scommettere poste più ampie, a concentrarsi sui tavoli più interessanti, a non preoccuparsi dei debiti. La finanza, specialmente le più recenti pratiche della nuova finanza, alimentano il gioco.
Che si interrompe bruscamente quando una parte delle scommesse si rivela sbagliata o, addirittura, truccata dall'inizio, il valore delle merci prodotte (necessariamente espresso in un prezzo) non è più convalidato perché la domanda monetaria è insufficiente, le situazioni patrimoniali si mostrano insostenibili, l'insolvenza è diffusa o va evitata vendendo attività o rallentando la produzione. Tutti vogliono moneta, ma non per spenderla, bensì per trattenerla a fronte dell'incertezza del futuro, della sfiducia verso la solvibilità dei clienti e per ripianare i debiti. Insieme alle minori entrate, la riduzione del tasso di utilizzo delle capacità produttive riduce il saggio del profitto sul capitale investito: il rimedio è intensificare lo sfruttamento del lavoro, in termini marxiani l'intensificazione dell'estrazione di plusvalore. Il pessimismo e la prudenza taccagna subentrano all'ottimismo e all'investimento. L'inflazione finanziaria cede il passo alla deflazione, che è forse più democratica, nel senso che quasi nessuno sfugge ai suoi effetti. Il processo può essere moderato o fermato se papà Stato, già tanto vituperato, finanzia in deficit la domanda, cioè i profitti, e se mamma Banca centrale inietta liquidità per rivitalizzare la circolazione finanziaria. Ma anche i genitori possono sbagliare tempi, dosi, modi.
Seconda osservazione: è curioso come, in totale contrasto con la vulgata diffusa durante la precedente presunta Grande moderazione, nei primi mesi della Grande recessione alcuni commentatori ortodossi abbiano riscoperto la deflazione da debiti e invocato anche Keynes e perfino Hyman Minsky. Ovviamente, a Keynes si riferivano come si può chiamare l'idraulico quando si rompe una tubazione: per sistemare l'emergenza finanziaria e i suoi effetti sull'economia reale, per giustificare la pretesa di far piovere moneta sul sistema finanziario e salvare le banche «troppo grandi per fallire». La linea, appunto, di «helicopter Ben» Bernanke, presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti. E a Minsky ci si riferiva per la tassonomia delle posizioni finanziarie, non certo per la tesi della congenita instabilità finanziaria del capitalismo; si passava sopra la necessità di accrescere la quota pubblica sull'investimento totale e di affrontare decisamente la questione della disoccupazione, creando direttamente nuovi posti di lavoro attraverso la spesa pubblica. Poi, passata la tempesta e rientrato il panico, sono tornati al solito tran-tran della finanza «sana» e «prudente».
In modi opposti, sia l'iperinflazione che la deflazione esprimono la violenza della moneta2. Una violenza impersonale, la cui matrice è il doppio monopolio di cui dispone la classe dominante: sia dei mezzi di produzione, sia della creazione di moneta di credito per finanziare l'investimento. Su questo punto non c'è sovranismo monetario che tenga: in una società capitalistica il capitale, interno quanto internazionale, può sempre «scioperare» a suo modo. Pensare di risolvere i problemi tornando alla moneta nazionale significa essere vittime di una specifica forma di «illusione monetaria», che la moneta sia neutrale o neutralizzabile.

La Grande recessione e la disoccupazione in Europa
Il significato reale della discesa dei prezzi si comprende in rapporto alle altre variabili economiche: dopotutto, può darsi anche una disinflazione benigna, quando la crescita della produttività aumenta il salario reale dei lavoratori, la quantità di merci-salario che possono acquistare. Non è però il nostro caso. Non è benigna, di certo non per i lavoratori e le famiglie, una disinflazione che si accompagna al persistere di elevati tassi di disoccupazione: a novembre 2014, per l'insieme dell'area dell'euro e per i 28 paesi dell'Unione europea, i tassi di disoccupazione erano, rispettivamente, l'11,5% e il 10%; in valore assoluto, 18,3 e 24,4 milioni di persone. Non è benigna, ma indice di gravissimo squilibrio nella stessa area monetaria, una situazione in cui in alcuni paesi il tasso di disoccupazione è intorno al 5%, come in Germania e in Austria, e in altri presenta livelli da vera e propria depressione, come in Grecia (25,7% in settembre) e in Spagna (24%), e in altri ancora è in crescita: Italia, Finlandia, Lituania, Portogallo. Non è benigna la disinflazione che cancella speranze di vita autonoma per la metà o quasi dei giovani sotto i 25 anni in Spagna (tasso di disoccupazione giovanile al 54%), Grecia (49%), Italia (43%), Croazia (41%), solo per dare i dati più gravi.
Ai dati sulla persistente ed elevata disoccupazione in gran parte dei paesi europei corrispondono quelli sull'andamento del prodotto interno lordo e della produzione industriale: nel primo caso, dopo la caduta sotto zero tra l'inizio del 2011 e la metà del 2013, la ripresa è di pochi decimi (0,2% e 0,3% rispettivamente per l'area dell'euro e l'Unione europea nel terzo trimestre 2014); mentre la produzione industriale è al di sotto del livello di dieci anni prima, in forte calo quella dei beni capitale. Insomma, siamo in un contesto in cui la differenza tra la designazione ufficiale di uno stato di recessione oppure no dipende dai decimi appena sopra lo zero.
Nel grafico che riporta le curve dei tassi medi di disoccupazione per i paesi membri dell'area dell'euro e dell'Unione europea si possono distinguere le fasi della Grande recessione: quella acuta, dall'ultimo trimestre 2008 all'inizio del 2010; un'apparente stabilizzazione, tra il 2010 e il 2011; la nuova impennata della disoccupazione nel 2012, seguita da segni di riduzione nel 2014. La recessione europea non è solo grave, ma lunga, in due fasi. Di fatto (ma il dato ha un riscontro mondiale) essa ha avuto inizio prima del fallimento di Lehman Brothers, cioè nel secondo trimestre 2008 (quarto trimestre 2007 negli Usa), prolungandosi fino al primo trimestre 2009. La successiva ripresa è durata fino al terzo trimestre 2011 e, da allora, l'Europa è in recessione, benché la gravità della stessa sia diversa nei vari Stati. A giugno 2014 il Dating Committee del Centre for Economic Policy Research dichiarava: «lack of evidence of sustained improvement of economic activity in the euro area does, however, preclude calling an end to the recession that started after 2011Q3. Rather, consistent with the concerns expressed by the Committee at its October 2013 meeting, the euro area may be experiencing since early 2013 a prolonged pause in the recession that started after 2011Q3» (http://www.cepr.org/content/euro-area-business-cycle-dating-committee).
Questa volta, a importanti novità introdotte dalla Bce fa da contrappunto un rinnovato ed energico slancio della più rigida ortodossia fiscale. Ragion per cui, «adesso che la crescita della Germania barcolla, l'area dell'euro è sul punto di cadere nella sua terza recessione in sei anni. I suoi leaders hanno sprecato due anni di respiro, concessi per l'impegno di Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, di fare "qualsiasi cosa sia necessaria" per salvare l'euro» (The Economist, 25 ottobre, p. 11).

Fonte: Eurostat, «Euro area unemployment rate at 11.5%», release 7 gennaio 2015
Anche senza contare precariato, sottoimpiego, lavoro nero, ritiri forzati dal mercato del lavoro e demoralizzazione, il rischio è che la disoccupazione si stabilizzi a un livello che, per quanto inferiore al massimo più recente, sia pur sempre socialmente inaccettabile.
Colgo l'occasione per ricordare che il livello che avrebbe raggiunto la disoccupazione per l'area dell'euro era prevedibile fin dall'autunno 2008. Per quanto mi riguarda, tentai una ragionevole stima quantitativa basandomi sulle dimensioni e sulla velocità della crescita della disoccupazione a partire dagli anni Settanta del secolo scorso nei paesi Ocse. La conclusione per l'Europa era: «Perché il tasso di disoccupazione nell'area dell'euro raggiunga l'11%, circa 17 milioni di disoccupati, è sufficiente un incremento pari a quello del 1990-1994. L'incremento richiesto perché il numero di disoccupati corrisponda a un tasso del 12% è molto inferiore a quello verificatosi nel 1973-1976»: il che implicava, stante la gravità della crisi finanziaria, che esso venisse raggiunto; come valore assoluto dei disoccupati nell'area dell'euro, per un tasso dell'11% calcolato sulla popolazione attiva del 2008, davo 18,4 milioni entro tre anni3. Non erano necessari complicati calcoli econometrici per capire quale sarebbe stata la portata del problema: il mio ragionamento non era nulla di speciale ma, proprio per questo, va a demerito degli specialisti delle agenzie internazionali che, con i loro software e la loro competenza «tecnica», hanno sistematicamente sbagliato le previsioni. Tuttavia, non è solo questione di diverse visioni del processo economico e di modelli econometrici. In linea di massima, vale quanto scritto da Kalecki nel lontano 1943:
«In un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del "principale" sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica.
È vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. Persino la crescita dei salari derivante dalla posizione più forte dei lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un accrescimento dei prezzi che di una riduzione di profitti e in tale maniera verrebbe a colpire soprattutto gli interessi dei redditieri.
Ma la "disciplina nelle fabbriche" e la "stabilità politica" sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L'istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è "sana" dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale»4.
In Europa siamo da tempo lontani dal pieno impiego che, comunque, non è mai stato generale; la tendenza è, semmai, alla piena precarietà. Tuttavia, la disoccupazione resta l'arma economica più potente che il capitale può impiegare contro i lavoratori: dunque, dietro la sottovalutazione dell'impatto della crisi finanziaria sull'occupazione, la costituzionalizzazione dei limiti del debito e del deficit pubblico con l'obiettivo del pareggio di bilancio, le condizioni che sono parte integrante dei prestiti agli Stati membri dell'eurosistema, si può vedere la determinata volontà delle caste politiche e del padronato europei di comprimere ulteriormente il costo del lavoro, di piegare in tutti i paesi la crescita nominale dei salari (e la spesa e le modalità di erogazione di servizi pubblici) al pari o al di sotto del tasso-obiettivo del 2% d'inflazione.
Che il lavoro debba essere una variabile del tutto dipendente dal capitale è oggi concettualizzato attraverso il Nairu, acronimo di Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment: cioè della definizione del tasso di disoccupazione necessario perché l'inflazione non aumenti. Ebbene, nel 2013 l'Ocse poneva il Nairu per 15 paesi dell'area dell'euro al 10%; per la Germania al 6,3%, per la Francia al 9,2%, per l'Italia al 9,9%, per la Grecia al 16,8%; in un rapporto del marzo 2014 la Commissione europea ha avuto la buona grazia di ridurre il Nairu della Spagna per il 2015 dal 26,6% al 20,7% (il tasso reale era allora il 25,2%)5. A prescindere dalla assai discutibile validità scientifica della determinazione di questi valori, molto vicini ai tassi di disoccupazione reali (e con impressionanti variazioni delle stime tra il 2007 e il 2014), è da intendere il significato politico di questo concetto, che è la forma, per così dire sublimata, della lotta di classe: l'indicazione del livello di disoccupazione che è «giusto» conseguire per mantenere i lavoratori sotto il pieno controllo della disciplina del capitale.
Si tratta di utilizzare la crisi per realizzare pienamente il modello neomercantilistico implicito nel trattato di Maastricht. Che poi la generalizzazione di questo modello competitivo all'interno dell'unione monetaria possa destabilizzarla invece che stabilizzarla, pare contare poco. La riproduzione allargata del capitale è sempre contraddittoria: in questo caso lo spostamento nel tempo della contraddizione di una costruzione europea compiutamente neomercantilistica dipende, in gran parte, dalla crescita delle esportazioni nette all'esterno dell'area europea, negli Stati Uniti, eventualmente in Cina.
Una postilla: il bersaglio principale di quelle note sulla crisi del 2009 erano previsioni e politiche dei governi, ma con una punta polemica anche nei confronti di quei critici che prospettavano genericamente il giorno del giudizio per il neoliberismo, sottovalutando il fatto che il sistema ha ora capacità di reazione di gran lunga superiori a quelle degli anni Trenta. Se, in termini generali, il rapporto fra crisi economica e radicalizzazione politica non è meccanico, il sistema ora può sostenere tassi di disoccupazione elevati senza necessariamente pagare il prezzo politico che si vorrebbe. Non sottovalutare il nemico.

La congiuntura europea e la decisione della Bce per il quantitative easing
I segni di ripresa all'inizio del 2014, già di per sé modesti, sono stati rivisti al ribasso verso la fine dell'anno. Tra le componenti della domanda aggregata, i consumi privati sono aumentati poco nel 2013, limitati dalla riduzione del reddito, nominale e reale, delle famiglie nella seconda parte del 2014. Dopo un anno di modesta crescita, nel secondo trimestre del 2014 anche gli investimenti fissi lordi si sono fermati: nel secondo trimestre 2014 «gli investimenti totali in termini reali in rapporto al Pil sono tornati al livello minimo registrato dall'inizio della crisi» (Bce, Bollettino mensile, dicembre 2014, p. 69) e «nel terzo trimestre la debolezza degli investimenti totali - così la definisce la Bce - sarebbe proseguita, mostrando un incremento molto modesto della produzione di beni di investimento a fronte di un utilizzo della capacità produttiva nel settore manifatturiero ancora inferiore alla media di lungo periodo». Anche il contributo della domanda estera alla crescita del Pil è assai modesto. Tra il 2008 e il 2013 la quota delle esportazioni di beni e servizi sul totale mondiale per la Germania si è ridotta, nonostante il forte attivo della bilancia dei conti correnti sul Pil, del 10%; per l'Italia, del 18%; per la Francia, del 13%; per la Spagna, del 7% (Eurostat, Macroeconomic Imbalances Procedure Scoreboard, 28 novembre 2014). Quanto ai disavanzi pubblici dell'area dell'euro, nel 2013 essi erano in calo rispetto al 2012, dal 3,6% al 2,9% del Pil, conseguenza di un rapporto tra spesa e Pil costante e dell'aumento delle imposte, mentre il debito pubblico è aumentato di 1,9 punti di percentuale, collocandosi al 90,8% del Pil dell'area.
Il punto critico è dato dalla domanda e dalle condizioni di offerta del credito, connesse alle aspettative circa la dinamica economica e allo stato finanziario dei soggetti interessati.
I prestiti alle imprese non finanziarie dell'eurozona presentano da tempo un tasso di crescita negativo, sia pure in riduzione, da -3,2% di febbraio a -1,6% di ottobre, o a -2,1% nel terzo trimestre del 2014 sull'anno. Inoltre, i prestiti sono concentrati geograficamente in alcuni paesi e nelle imprese di maggiori dimensioni, e dovuti più a operazioni di ristrutturazione del debito e di fusione e acquisizione che agli investimenti (negativi). Dunque, mentre è in atto un processo di ristrutturazione e concentrazione economica, in una congiuntura dominata dall'incertezza o da aspettative negative le banche sono molto prudenti nell'erogare credito alle imprese non finanziarie, per le quali il rapporto tra debiti e Pil è tornato a crescere, dall'81,9% nel primo trimestre del 2014 all'82,4% nel secondo, presumibilmente per la debole crescita del Pil. Anche il tasso di crescita dei prestiti alle famiglie è negativo, -0,5% nel terzo trimestre del 2014. Del resto, nel secondo trimestre 2014 sia il rapporto tra il debito delle famiglie e reddito disponibile nominale che quello fra debito delle famiglie e Pil erano elevati, sia pur stabili, rispettivamente al 96,5% e al 61% (Banca centrale europea, Bollettino mensile, dicembre 2014).
Insomma, l'Europa non riesce a trovare una via per la ripresa; anzi, le caste politiche sembrano fare del loro meglio per garantire la stagnazione per l'area nel suo insieme e la depressione in alcuni paesi. Paradossalmente, in modo tardivo e limitato, è proprio la Bce che ha dimostrato iniziativa, mettendo in campo una panoplia di programmi di credito per le banche. Con l'inflazione ormai vicina allo zero la politica monetaria ha però quasi esaurito le munizioni; le operazioni di rifinanziamento a lungo termine delle banche da parte della Bce in settembre e dicembre hanno avuto un valore pari a poco più di metà di quello atteso (212 invece che 400 miliardi di euro).
L'azione della Bce è riuscita a fermare la crisi del debito detto sovrano, ma non ha impedito la riduzione dei prestiti reciproci tra le banche private (la contrazione del mercato interbancario) e dei prestiti delle banche alle imprese non finanziarie del settore privato, mentre, nello stesso tempo, è molto cresciuta, relativamente alla situazione del 2007, la quota dei titoli finanziari nazionali, privati e pubblici, detenuti dalle banche private. Conseguenza della contrazione dei prestiti diretti tra le banche private europee e delle «iniezioni di liquidità» è stata la crescita (come negli Stati Uniti, in Giappone o nel Regno Unito) del bilancio della Bce nel sistema Target2, che media i rapporti tra le banche nazionali che costituiscono l'eurosistema. Questo è un fatto ovvio, quel che fa della Bce una banca centrale, quando salva l'unificazione monetaria e solleva le banche nazionali dal vincolo di detenere riserve internazionali: in altri termini, ha impedito il precipitare di una crisi catastrofica del sistema. Tuttavia, non ha impedito né può impedire la stagnazione.
A questo proposito si può innanzitutto notare che, nonostante le più tempestive e determinate azioni dello stesso tipo intraprese da anni dalla Federal Reserve statunitense, dalla Banca centrale giapponese e da quella britannica, anche in questi paesi la curva dei prezzi tende a divaricarsi rispetto alla crescita dei bilanci delle banche centrali. Ovvero, l'iniezione di liquidità non arresta la tendenza alla deflazione. L'effetto maggiore del quantitative easing è sui bilanci delle banche e sui titoli di Stato, nonché sull'impulso a investimenti finanziari più redditizi e quindi rischiosi, non sull'investimento produttivo. Questo perché è la domanda di credito che crea moneta, non l'inverso, e la domanda di credito dipende dalle decisioni d'investimento. Se le prospettive rimangono incerte e la domanda debole, allora l'investimento stagna.
Il quantitative easing all'europea è un passo avanti, ma ancora troppo timido. I limiti posti all'acquisto di titoli di Stato e il fatto che formalmente solo il 20% del rischio sia a carico della Bce, con il resto scaricato sulle banche centrali nazionali (il che è illusorio, nel caso di una crisi che metta a repentaglio l'eurosistema), ribadiscono la volontà delle caste politiche europee di non procedere verso la costruzione di un autentico Stato federale, con un bilancio degno di questo nome, che integri politica fiscale e monetaria, puntando a correggere gli squilibri interni all'area. Stante la linea dell'austerità fiscale, delle sedicenti riforme strutturali e della compressione del costo del lavoro, l'effetto complessivo del quantitative easing sulla domanda interna dell'eurozona sarà assai limitato. Né ci si può attendere molto, per l'insieme dei paesi membri, da una crescita delle esportazioni conseguente dall'indebolimento dell'euro, in considerazione del rilievo degli scambi interni all'area e del possibile arrestarsi della crescita negli Stati Uniti.
Il quantitative easing non risolve il problema fondamentale dell'eurozona: di avere moneta unica e Banca centrale, ma non un bilancio federale vero e proprio, né una politica di investimenti pubblici e di correzione degli squilibri interni all'area. Minsky6 notava che una delle ragioni per cui nel secondo dopoguerra non si sono verificate depressioni profonde è che la Federal Reserve ha svolto la funzione di prestatore di ultima istanza e che, nello stesso tempo, il disavanzo del settore pubblico ha sostenuto la domanda (sulla base di una dimensione del settore pubblico Usa in rapporto al Pil allora, 1963, dieci volte maggiore che nel 1929), l'investimento e quindi i profitti: una politica di intervento sì-sì, opposta a quella no-no del 1929-1932. È quanto accaduto, con molti limiti, anche nella prima fase della Grande recessione. L'orientamento europeo pone invece limiti, anche con la decisione della Bce di gennaio, al finanziamento dell'investimento pubblico, alla creazione di moneta e di domanda aggiuntiva.
Pare che si attenda che dall'esterno, cioè dagli Stati Uniti, si inneschi nuovamente e con vigore il meccanismo che sta alimentando la crescita mondiale da ormai trentacinque anni: il rilancio della domanda interna Usa attraverso l'indebitamento, con conseguente forte crescita del deficit commerciale. L'economia statunitense è indubbiamente in condizioni di gran lunga migliori di quella europea; negli Stati Uniti, l'amministrazione Obama e la Federal Reserve hanno mostrato capacità d'agire con decisione e tempestività superiori a quelle della Bce e delle sclerotiche caste politiche europee. Tuttavia, neanche negli Stati Uniti son proprio rose e fiori: la ripresa è stata lenta, il ritmo è ancora, al momento, al di sotto di quel che sarebbe necessario per recuperare quanto perso, di sicuro per il lavoratore dipendente medio. L'indice Dow Jones ha toccato quota 18 mila, ma l'effetto ricchezza non pare, non ancora, essere sufficiente per attrarre le esportazioni del mondo, mentre l'aumento del tasso d'interesse negli Stati Uniti potrebbe sgonfiare Wall Street; ed è ovvio che neanche la Cina possa sostituirsi agli Stati Uniti, dalla cui domanda dipende fortemente, né può fare a meno del vantaggio competitivo che gli deriva dal supersfruttamento della forza-lavoro. Tra il 2006 e il 2014 il deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti in rapporto al prodotto interno si è ridotto dal 6% a circa il 2,5%: una buona notizia per gli Usa, non per il resto del mondo, per come funziona l'economia planetaria.

Uscire dall'eurozona?
Non solo i rapporti di potere interni ai singoli paesi, ma anche quelli tra le singole economie e nell'economia mondiale nel suo insieme si esprimono (mantenendosi sul piano prettamente economico) attraverso rapporti monetari e finanziari: tassi di cambio, differenziali nei tassi d'inflazione, d'interesse, dei rendimenti dei titoli di Stato, flussi di capitale a breve termine e dell'investimento diretto, rimpatrio dei profitti delle società transnazionali, rimesse degli emigrati e così via. Non c'è una globalizzazione che rompa il rapporto tra capitali e Stati, ma fin dalla nascita del sistema la riproduzione allargata dei capitalismi si estende al di là delle frontiere della nazione, intersecandosi e affiancandosi: ed è questo che fa dell'economia mondiale un sistema complesso e stratificato, che costituisce la divisione internazionale del lavoro e crea la gerarchia del potere economico, in breve l'imperialismo come modo di esistenza del capitalismo. Inoltre, benché a destra e a sinistra sia stata posta grande enfasi sul carattere nomade dei capitali e sull'autonomia dei mercati finanziari, che si sarebbero liberati dal legame con gli Stati territoriali a causa della deregolazione e dell'apertura dei sistemi finanziari, pochi settori dell'economia sono così soggetti alla regolazione normativa e all'influenza delle decisioni politiche ai massimi livelli quanto quello finanziario. Ovviamente non mi riferisco alle transazioni quotidiane, ma al quadro d'insieme entro cui queste si svolgono, al fatto che più che de-regolazione bisognerebbe dire ri- o diversa regolazione. Il nocciolo della questione è che, se da una parte gli agenti privati creano moneta ogni volta che si crea una rapporto credito-debito, l'architettura dei sistemi finanziari, le dinamiche finanziarie e il funzionamento del sistema monetario internazionale restano inseparabili dagli orientamenti delle politiche statali e dalle decisioni degli Stati politicamente ed economicamente più potenti; ciò vale anche per gli effetti non intenzionali delle stesse e per l'impulso dato dalle normative all'innovazione finanziaria, di prodotto e di processo, volta ad aggirarle. Niente quanto l'unificazione monetaria europea e il suo disegno istituzionale evidenzia il nesso ineliminabile fra statualità e moneta.
Lo spazio monetario europeo è una costruzione che esprime il grado d'interdipendenza commerciale e finanziaria del continente, conferendole una spinta ulteriore, ma tale da risultare, nello stesso tempo, intrinsecamente contraddittoria. La contraddittorietà non risiede nell'unificazione monetaria in se stessa, ma nel fatto che la Banca centrale sia indipendente dai singoli governi e che non abbia alle proprie spalle uno Stato federale (e capitalistico) europeo, come è la regola nel resto del mondo. Coerentemente, l'art. 125 del trattato dell'Unione europea proibisce il «salvataggio» finanziario degli stati membri, la cosiddetta no bailout clause7: lasciar «fallire» uno Stato membro è la sanzione ultima contro l'espansione del debito pubblico e la ragione per cui l'orientamento restrittivo è inscritto nelle norme regolanti l'eurosistema e l'Unione europea.
Queste sono anche le condizioni istituzionali per cui i saldi commerciali e finanziari tra i paesi membri sono trattati come se si riferissero a paesi con valute diverse: il che, in una unione monetaria, è un controsenso, comprensibile solo alla luce di due considerazioni.
La prima è che l'unificazione monetaria europea è nello stesso tempo l'istituzionalizzazione di un determinato orientamento politico-economico, quel che si indica, per intendersi, come neoliberista: ma, in effetti, si tratta dell'interiorizzazione su scala continentale di un orientamento neomercantilistico, di cui il capitalismo tedesco è l'esempio di successo, non trasferibile, come tale, ai paesi che non sono strettamente integrati al capitalismo tedesco.
La seconda considerazione è che le caste politiche europee non hanno voluto costruire un autentico Stato (capitalistico) federale europeo ma un monstrum, nel senso etimologico di qualcosa di straordinario, in quanto aspetti sovrastatali si combinano con la conservazione di poteri (per gli Stati più potenti) e di responsabilità (specialmente per gli Stati meno potenti) statali. Questo, insieme al neomercantilismo, che comporta l'accumularsi e il polarizzarsi di surplus e deficit, di crediti e debiti, è quanto mina dall'interno la stabilità economica (che è sempre relativa) dell'area dell'euro e le possibilità vitali della moneta unica.

Perché Syriza ha ragione nell'opporsi all'austerità senza uscire dall'eurozona
La lotta contro le linee politiche dei governi europei non può però trovare nell'indicazione dell'uscita dall'eurosistema la parola d'ordine centrale. Da un punto di vista anticapitalistico, la discussione su «euro sì, euro no» è, a mio parere, viziata da economicismo, ovvero da cattiva politica e, insieme, da cattiva critica dell'economia politica. Sulla questione ho già scritto8, e scriverò ancora. Qui dico, brevemente, che la proposta di uscire dall'area dell'euro è, economicamente, tutta centrata sui vantaggi della svalutazione della resuscitata moneta nazionale e sull'ipotesi che così si possa finanziare a piacere la spesa pubblica. Si sottovaluta, però, che la svalutazione ha anche un costo, a causa della crescita del valore reale delle passività con l'estero (il debito) in valuta diversa da quella nazionale e della maggiore difficoltà di finanziarsi nel mercato internazionale del capitale; essa comporta un maggior costo delle importazioni, che incide direttamente sulla competitività delle esportazioni; la svalutazione può incidere anche sui salari reali, specialmente se la quota dei beni di consumo importata è elevata (come in Grecia); l'inflazione importata può influire negativamente sulla distribuzione del reddito, e può trasformarsi in iperinflazione.
La proposta di uscire dall'euro presuppone che la competitività internazionale dipenda solo dal prezzo, non anche dal tipo di prodotti esportati e dai mercati di destinazione; si sottovaluta il fatto che l'eurosistema in pratica sottrae i singoli Stati al vincolo delle riserve internazionali, sicché l'uscita dall'euro potrebbe tradursi immediatamente in una crisi bancaria e della bilancia dei pagamenti. Si sottovalutano le conseguenze di una rottura dell'eurozona sulla domanda internazionale e in particolare europea, che vanificherebbe i potenziali benefici della svalutazione. Infine, i presupposti di questa proposta non sono diversi da quelli dell'attuale ortodossia: essa interpreta la crisi europea essenzialmente come un problema di squilibri nella bilancia dei pagamenti tra gli Stati, come se non appartenessero alla medesima area valutaria. Tali squilibri dovrebbero essere trattati come può accadere in uno Stato: con politiche mirate, trasferimenti dalle regioni più ricche a quelle in difficoltà.
Infine, la parola d'ordine dell'uscita dall'euro non è generalizzabile: cosa accadrebbe se tutti gli Stati europei, o anche solo quelli con maggiori difficoltà, entrassero nella logica delle svalutazioni competitive? Oppure: cosa accadrebbe se un solo Stato, che non sia la Germania, riuscisse a rilanciare la domanda interna?
Ma la ragione fondamentale per cui ritengo che la parola d'ordine dell'uscita dall'euro sia del tutto sbagliata è che essa è cattiva politica, e proprio da un punto di vista anticapitalistico e internazionalista. A meno di non ipotizzare, in modo del tutto fantastico, una rivoluzione sociale a breve scadenza, la parola d'ordine dell'uscita dall'euro non può significare altro che il ritorno alla sovranità monetaria di uno Stato territoriale capitalistico: lo scopo è, allora, salvare l'economia (presunta) nazionale, anch'essa capitalistica. Si può tingere come si vuole di connotati progressisti questa operazione, ma essa resta tutta dentro una prospettiva di riforma del capitalismo nazionale, per giunta di dubbio successo.
Può apparire molto «di sinistra» agli ingenui, ma è un arretramento relativamente all'azione «internazionalistica» del ceto politico e del grande capitale: non casualmente converge con la posizione della destra apertamente nazionalista e xenofoba, ma anche con una possibilità ben presente nell'opinione pubblica e nel ceto politico tedesco. Per anni ho criticato la visione dell'economia mondiale come un unico mercato globale in cui i prezzi e i salari tendono a convergere (non importa se verso il basso o l'alto) e il capitale si separa dallo Stato territoriale; tuttavia, questa proposta è rivelatrice di una visione del mondo altrettanto errata, per cui esistono o possono esistere economie «nazionali» senza vincoli esteri (si può anche pensare che il ragionamento sia che, in una certa epoca, esistevano le economie nazionali, non essendo allora l'economia mondiale, o continentale, niente altro che la sommatoria di questi rapporti inter-nazionali; e poi che, in qualche momento, sia nata un'economia globale neoliberista, alla quale ci si può opporre tornando alle economie nazionali con una politica «keynesiana»).
Inoltre, tranne che nella fantasia, l'uscita dall'eurosistema sarebbe gestita dalle attuali caste politiche: non c'è da farsi nessuna illusione su un'inversione della politica economica e sociale nel quadro della postdemocrazia esistente e della convergenza di fatto tra le grandi famiglie politiche. Al contrario l'uscita dall'eurosistema, con tutti i problemi che essa comporterebbe, potrebbe implicare un inasprimento e una generalizzazione senza precedenti della ben nota linea antisociale, in nome della competitività e della salvezza dell'economia nazionale.
Dunque, criticare Syriza e Tsipras perché non intendono uscire dall'eurozona è del tutto sbagliato. È solo apparentemente una critica fatta da sinistra: in realtà è solo demagogia. La questione cruciale è un'altra: un governo di sinistra esprime o no la mobilitazione e la radicalizzazione dei movimenti sociali di massa? Favorisce o neutralizza la mobilitazione sociale?9.
La parola d'ordine «uscire dall'euro!» ha senso se si vuole capitalizzare demagogicamente, come consenso d'opinione ed elettorale, il disagio sociale. È invece irrilevante per la lotta extraistituzionale dei salariati e dei comuni cittadini: il processo di radicalizzazione e di unificazione dei movimenti di lotta ha come «naturale» bersaglio i governi nazionali e, solo per questa via, la politica delle istituzioni europee. In questa prospettiva è possibile anche immaginare la convergenza internazionale di movimenti in più paesi, che potrebbe modificare i rapporti di forza tra le classi e imporre con la lotta un diverso orientamento alle caste politiche europee. Si dirà che questo è poco realistico, ma non mi pare meno realistico di una (presunta) soluzione puramente nazionale centrata sulla sovranità monetaria. Qualora, eventualità auspicabile ma al momento non ragionevolmente prevedibile, la mobilitazione portasse alla crisi del potere capitalistico in uno o più Stati, ebbene, solo allora si porrebbe concretamente il problema se, come, quando e con chi uscire dall'euro, ammesso che l'eurosistema ancora esista o che lo Stato in questione non ne sia già fuori, per iniziativa propria o altrui.
In mancanza di tale sbocco rivoluzionario, la convergenza internazionale di forti movimenti di massa, in lotta su obiettivi specifici ma unificati dall'obiettivo di rovesciare i governi esistenti, potrebbe sfociare in una riforma, certo ancora capitalistica, ma che comporterebbe pur sempre conquiste sociali per i lavoratori e un più avanzato terreno di lotta. La direzione storica è quella dell'integrazione dei popoli europei contro l'Europa capitalistica e per un'autentica e completa unità politica continentale: la difesa dell'economia «nazionale» in Europa appartiene al passato. Anzi, alla parte peggiore della storia d'Europa.


1 Irving Fisher, «The Debt-Deflation Theory of Great Depressions», in Econometrica, I, n. 4, ottobre 1933.
2 È il titolo di un libro di Michel Aglietta e André Orléan, La violence de la monnaie, Presses universitaires de France, Paris 1982.
3 Michele Nobile, «La disoccupazione, durante e oltre la crisi. Previsioni per i prossimi anni», 26 giugno 2009, prima in rete nel blog di Utopia Rossa e poi in Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari editore, Bolsena 2012; con un'anticipazione sintetica dell'aprile 2009, anch'essa nel blog e nel volume.
4 Michał Kalecki, «Aspetti politici del pieno impiego» (1943), in Id., Sul capitalismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 38.
5 European Commission, European Economic Forecast, primavera 2014, p. 28; Sebastian Gechert - Katja Rietzler - Silke Tober, «The European Commission's New NAIRU: Does it Deliver?», Macroeconomic Policy Institute (IMK) Working Paper, n. 142, dicembre 2014. Nella terminologia della Commissione europea la I di inflazione è sostituita da W per salario: Nawru invece di Nairu.
6 Hyman P. Minsky, «Potrebbe ripetersi? Una riproposizione», introduzione a Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del '29, Einaudi, Torino 1984; «gli acquisti di beni e servizi da parte del governo federale erano l'1,2 per cento del Pnl nel 1929 e l'11,3 per cento nel 1962», «Potrebbe ripetersi?», 1963, ibidem, p. 32. Misurata in percentuale del Pil, dai primi anni Cinquanta del secolo scorso al 2014, la quota dei consumi e dell'investimento pubblici negli Usa tende a decrescere dai primi anni Settanta, in modo più marcato negli anni Novanta (intorno al 20% del Pil); gli investimenti privati mostrano oscillazioni ampie, ma una tendenza lineare; le variazioni più importanti sono invece la tendenza dei consumi privati, fortemente in crescita dalla seconda metà degli anni Settanta (dal 60% al 70% del Pil), e il contributo costantemente negativo delle esportazioni nette sul Pil dal 1972, che si accentua nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, rallentando negli anni più recenti.
7 «L'Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico».
8 Rimando ai miei testi in Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, cit.
9 Sulla situazione greca rimando ai miei articoli sul blog di Utopia Rossa: «Formazione e crisi del regime postdemocratico in Grecia» e «Analisi dei risultati delle elezioni del 17 giugno 2012».

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com