Seconda
parte
(pubblicata in Giano. Pace ambiente problemi globali n.
28, gennaio-aprile 1998)
Summary
This
article deals with the discrepancy that lies in the political practices of
social environmental movements, green parties and left-wing organizations,
between the minimal programme and partial activism onthe one hand and the
maximum programme and the hope for global change on the other.
This
situation is partly due to the lack of
any realistic theory behind environmental policy and the State. The political
positions adopted in this sphere are generally combinations of the «State to
democracy» approach, the pressures it is subject to and the independent
initiatives that prefigure the creation of an ecological society.
Both
cases skirt the problem of the limitations of an environmental policy as such,
and of stateness as the concentration of class power, avoiding thus the
question of the limits placed by the capitalist State upon ecological
rationality as defined by John Dryzek: negative retroaction, co-ordination,
flexibility and/or strenght, resilience.
After
looking at the potentially anticapitalist nature of environmental social
movements and the origins of environmental politics in the general and
multi-dimensional crisis of capitalist society in the late Sixties, early
Seventies, the article moves on to make an analytic examination of the
intrinsic limits of normative and administrative action in environmental
politics.
Well
known phenomena such as the divisions within environmental politics, the
conflict of autorithy between institutional bodies and apparatus, the
contradictions in different interpretations of the laws and implementation,
applicative inertia, the gap between planned objectives and the means used to
reach them, are not the result of dysfunction, but are axpressions of the
limits of the State action in the environmental sphere. Such phenomena do not depend
simply upon the influence of interest groups; they are inherent to the
«rationale» of administrative activity due to the relative, reciprocal
independence of State and economy - a distinctive structural feature of
capitalism and the way class power is wielded. Together with the tendency
towards global transformation into commodity and the exploitattion of capital,
the limits of administrative action stand in the way of ecological rationality
and undermine the very foundations of environmental politics.
The
condition necessary for an international, ecological rationality is therefore
the socialisation and integration of political will and of management of the
resources and of the economic apparatus, that is to say, the maximum extension
of the democracy in all the spheres and the circles of the social life.
I limiti del
capitalismo nella capacità di soddisfare in modo adeguato i criteri della
razionalità ecologica ed i motivi del costante riproporsi di problemi
ecologici, nonostante normative parziali meditate e i successi di lotte
specifiche, non sono interni solo alla sfera economica ed alla logica della
produzione capitalistica, o dovuti agli interessi che potrebbero aver
«colonizzato» e «strumentalizzato» la sfera politico-statuale. Essi sono sia
economici che politici: risultano dalla specificità della dinamica economica
capitalistica, dall'articolazione tra questa e lo Stato, dalla specificità
dello Stato.
In una società
capitalistica la natura conta solo in quanto inserita nel processo di
valorizzazione del
capitale, la cui condizione è che l'insieme delle risorse, tra cui lo spazio
naturale in questione, sia sotto controllo privato, cioè non socializzato (il
tipo di proprietà giuridica, privata, pubblica o mista dell'unità di
valorizzazione è sotto questo aspetto indifferente). Inoltre, come sistema
economico il capitalismo non si riduce affatto né mercato né al solo guadagno
monetario. Ciò che essenzialmente lo distingue da precedenti società, in cui
già erano presenti sia scambi di mercato che avidità di denaro, è la tendenza
all'intensificazione della sussunzione reale del
lavoro e della natura nel processo attraverso cui il capitale si valorizza,
all’estrazione tendenzialmente senza limiti di plusvalore, all'estensione delle
sfere sociali e naturali incorporate nella riproduzione allargata del capitale sociale.
Non sono il mercato mondiale o gli imperativi dell'innovazione tecnologica ed
organizzativa a fare i rapporti di classe ma, viceversa, sono questi, con le
loro specificità storiche e geografiche, che determinano lo sviluppo ineguale e
combinato delle forze di produzione, i caratteri fondamentali delle economie
nazionali, gli orientamenti degli scambi commerciali e degli investimenti
diretti, in sintesi il modo in cui si trasforma il sistema mondiale. Invertendo
i rapporti di causa ed effetto si rischiano anacronismi storici e non verrà
messa a fuoco la radice più forte e profonda dei problemi ai quali ci si
riferisce nel presente.
La sussunzione
della forza lavoro al capitale è già un rapporto e una gerarchia di potere. Ma
la concentrazione del potere di disporre di
una determinata quantità di lavoro altrui non retribuito nelle mani di
capitalisti privati necessita, perché possa dominare l'insieme della formazione
sociale, della distinzione dei poteri politici da quelli economici: l'autonomia
relativa dell'economia e della statualità contraddistingue il modo di
produzione capitalistico allo stesso modo della valorizzazione del capitale. Anzi, è
proprio questa autonomia relativa (e quindi l'anormalità dell'estrazione di
surplus a mezzo della coercizione extraeconomica da parte di privati) che
spiega lo straordinario sviluppo delle forze di produzione nelle aree
capitalistiche centrali, l'approfondimento, razionale nei mezzi ma irrazionale
nei fini, del «dominio» sulla natura (con le conseguenze sul piano psichico e
ideale), l'estensione planetaria dello sfruttamento imperialistico e la
capacità di distruggere, o trasformare e funzionalizzare, forme sociali non
capitalistiche (20). Ed è a causa di
questa configurazione del
rapporto tra potere politico e poteri economici che è possibile lo sviluppo di
una molteplicità di centri individuali di accumulazione (le cui transazioni
costituiscono i mercati) e che le principali variabili socio-economiche sono
regolabili solo a posteriori, nonostante la crescita delle interdipendenze
sociali ed ecologiche su una scala inedita nella storia dell'umanità. La
dinamica strutturale del capitalismo è tale
che lo sviluppo delle forze di produzione comporta una parziale socializzazione
della stessa natura (nel senso dell'impatto crescente dell'attività umana)
mentre, e proprio per questo, l'autonomia relativa dell'economia e della
politica impediscono il controllo sociale
del ricambio
organico con la natura. Alla gestione sociale del
rapporto con la natura e, quindi, alla razionalità ecologica, si oppongono la
concentrazione del potere politico nello Stato
e la concentrazione del
potere economico nelle imprese capitalistiche.
Invece di
definirla sulla base di uno sviluppo autonomo e endogeno delle tecniche che, ad
un certo momento viene ostacolato dai rapporti sociali di produzione, la
contraddizione marxiana fra sviluppo delle forze di produzione e rapporti
sociali di produzione può essere fondata sul contrasto fra bisogni sociali, da
una parte, e direzioni di sviluppo prese dalle tecniche sotto il comando dei
capitalisti privati e dello Stato e capacità di fronteggiarne gli effetti
ambientali, dall’altra: qualcosa che implica la possibilità che le forze di
produzione possono trasformarsi anche in forze di distruzione, la cui massima
concentrazione è data dal «complesso militare-industriale».
La molteplicità
dei centri di accumulazione e il controllo non sociale sulle risorse
finanziarie, tecnologiche e naturali e sulla loro allocazione non può non
comportare la parcellizzazione della natura e degli ambienti, individuabile su
diverse scale e rapporti di interdipendenza settoriale, a cui corrisponde la
frammentazione nella regolazione del
rapporto con la natura.
Quel che
programmatori, tecnocrati e sostenitori del capitalismo regolato statualmente
hanno sempre trascurato è il fatto che, per quanto i rapporti tra l'economia e
la politica possano essere interdipendenti e complessi, fino alla scala
mondiale; per quanto ampie possano essere le funzioni socio-economiche degli
Stati (e preciso: in modo irreversibile, il che non significa necessariamente a
favore del lavoro); per quanto gli Stati possano cercare di orientare la
divisione interna del lavoro sociale, creando nuovi rami o agevolando quelli in
sviluppo (l'ecobusiness, ad esempio), e tentare di modificare il posto che
l'economia interna occupa nell'economia mondiale; ebbene, le capacità degli
Stati di regolare la dinamica economica sono comunque limitate oltre,
ovviamente, ad essere diseguali, proprio a causa dell’autonomia relativa
dell'economia e della politica tipica del capitalismo. Le risorse dello Stato
capitalista dipendono da quelle dell'economia capitalista ma non si
identificano con esse, così come lo sviluppo delle forze di produzione, il tipo
di merci prodotte ed il valore che esse incorporano non equivalgono
necessariamente ai bisogni sociali (nel senso più ampio: sia come valori d'uso
sia come valori che possono entrare nella riproduzione allargata del capitale).
Né la programmazione d'impresa né quella statale possono eliminare le crisi
economiche e i costi sociali ed ambientali dell'accumulazione.
Dunque, in
tutte le loro fasi le politiche pubbliche devono costantemente fronteggiare
dinamiche e problemi che per complessità e interdipendenza sfuggono alle
capacità di controllo dell'amministrazione proprio a causa della
non-coincidenza del
processo economico e di quello politico-amministrativo, della non
socializzazione della politica e dell'economia. Le contraddizioni ed i
conflitti sociali vengono allora trasformati in modo da risultare «trattabili»
dal sistema politico-amministrativo: da qui l'organizzazione di reti di
apparati e burocrazie specializzate, di procedure formalizzate e di rapporti
informali, il «pluralismo istituzionale» e la mediazione con i gruppi di
interesse, con un continuo oscillare fra accentramento e decentramento,
creazione e disintegrazione di organi di coordinamento e di responsabilità,
discrepanza tra obiettivi e programmi e risorse finanziarie, tecniche, umane,
informative.
Sulla base di
quanto argomentato fino ad ora le «disfunzioni» istituzionali, la
frammentazione e la segmentazione delle politiche ambientali, i conflitti fra
agenzie specializzate o livelli politico-amministrativi, la non corrispondenza
fra obiettivi, mezzi e realizzazioni, e via dicendo, sono dati strutturali in
cui si concretizzano i limiti della politica ambientale, la sua «selettività»,
per dirla con Offe, nei confronti delle istanze sociali ed ecologiche.
Certamente ci sono Stati che hanno capacità amministrative e gestionali
migliori di altri, che attuano politiche più organiche e strategie più chiare
di altri, più capaci di mediare in modo non meramente simbolico i conflitti
ambientali o comunque più orientati alla decisione che alla non-decisione (e in
genere sono quelli che possono permetterselo a causa della loro posizione
nell'economia mondiale): ma i modi dell'intervento, della programmazione e del
controllo statali riproducono (il che non significa che necessariamente
«riflettano» in modo passivo) i problemi di coordinamento, controllo e
previsione propri dell'economia capitalista.
Nella
frammentazione e nel trattamento amministrativo i problemi sono anche
depoliticizzati, tendenzialmente ridotti a questioni tecniche e di mediazione
tra gruppi di interesse, eludendo così le ragioni strutturali e profonde del
conflitto tra capitale e lavoro, salute e natura, da una parte, e capitale
dall'altra. Lo Stato, in altri termini, tende a spostare i problemi ed a
formularli in modo funzionali alla riproduzione del capitalismo e delle sue
istituzioni: per Martin Jänicke nel settore di «rimozione statale-industriale»
ambientale le preferenze strategiche delle tecnocrazie private e pubbliche
presentano analogie strutturali che portano a definire i problemi, in questo
caso ecologici, ignorandone la complessità, in conseguenza della
specializzazione (aggiungo: e della divisione dell'accumulazione di capitale in
settori e rami), trascurandone le cause, scegliendo le misure più dispendiose
per il bilancio statale (21).
Il potere della
borghesia si riproduce in questo modo storicamente determinato, per il quale i
contenuti delle politiche ambientali e le loro funzioni (e disfunzioni)
derivano dalla forma e dalla struttura dello Stato nei suoi rapporti con
l'economia e con gli apparati ed i settori che la costituiscono. La statualità,
oltre a mediare politicamente fra le frazioni borghesi esprimendo, per dirla in
breve, i suoi «interessi generali», e a provvedere ad alcune funzioni
economiche (che sono sempre anche politiche), si costituisce nei confronti
delle classi dominate come un filtro, grazie all'autonomia ed alla
specializzazione dei suoi apparati, come uno schermo ideologico, e come una
concentrazione di potere nella forma del monopolio dell'esercizio della
violenza fisica. Si tratta di una «scoperta» che è stata fatale a molti governi
e maggioranze parlamentari non organiche alla borghesia o alle sue frazioni
dominanti e, non di rado, veramente tragica.
La discussione
sul futuro «ecologico» del capitalismo come
totalità sociale non può prescindere dalla questione del potere politico e dalla sua impotenza»
strutturale a risolvere in tutta la loro complessità e profondità i problemi
ecologici. Una impotenza che contrasta con la durezza che lo Stato e la
borghesia sono capaci di dimostrare, nonostante certe teorizzazioni
sociologiche e postmoderne, come ci è ricordato, nel campo delle lotte
ecologico-sociali, dagli assassinii di Chico Mendes o di Ken Saro-Wiwa. E se
questi sono esempi troppo «esotici», allora bisogna ricordare Vital Michalon,
caduto a Malville mentre protestava contro il reattore Super-Phénix il 31
luglio 1977 (presidente della repubblica Valéry Giscard d'Estaing), e
l'equipaggio dell'imbarcazione di Greenpeace saltata in aria nel porto di
Aukland (Nuova Zelanda) il 10 luglio 1985 (presidente della repubblica François
Mitterand), vittime degli apparati di sicurezza dello Stato francese. Ma si è
trattato, in questi casi, solo di una frazione infinitesimale della potenza statale,
dispiegatasi in modo ben più ampio in occasione della guerra contro l'Iraq,
guerra anche per il petrolio.
Fasi
e strumenti della politica dell'ambiente
La storia quasi
trentennale della politica degli ambienti è solitamente divisa in due fasi.
La prima, è
spesso caratterizzata in modo ideal-tipico, forzato, perfino caricaturale,
ponendo l'enfasi sulla fissazione di standards e sulle restrizioni all'uso dei
fattori di produzione e dei prodotti, con il corredo di agenzie di controllo,
sanzioni, scadenze imperative: una tendenza definita da Emilio Gerelli
buro-staliniana. Il presupposto implicito di questa fase, si dice, era che tra
i valori dell'economia e quelli dell'ambiente non si potesse stabilire un
equilibrio per via economica.
Sempre secondo
i critici di questo tipo di politica, gli obblighi legali, stabilendo obiettivi
ambientali e di sicurezza per la salute e la vita umana a prescindere dal
confronto, in termini monetari, tra i benefici previsti e il costo economico
per le imprese, avrebbero impedito la ricerca della via meno costosa e più
efficiente, in termini di mercato, per migliorare la qualità dell'ambiente (il
riferimento qui è essenzialmente alla riduzione delle emissioni inquinanti).
Certamente il
contrasto fra gli scenari «apocalittici» dei Limiti dello sviluppo e l'idea dell'integrazione fra capitalismo e
ambiente presupposta dallo «sviluppo sostenibile» è significativo di un nuovo
contesto politico e culturale. Ma altrettanto significative furono le pressioni
esercitate, in genere con successo, dalle organizzazioni imprenditoriali e i
compromessi con i gruppi di interesse, la lentezza nell'approvazione e
nell'esecuzione delle normative, le proroghe e le deroghe, i fallimenti o i
successi molto parziali delle politiche, utilizzati per motivare un diverso e
più «liberale» orientamento. C'è da chiedersi quanto lo schema del comando e controllo
fosse realmente esteso all'insieme delle politiche che influenzano le
condizioni di vita e la natura e in che misura sia stato attuato, quando
previsto, senza trasformarsi in qualcosa di diverso, ad es. in una politica
distributiva di finanziamenti. Il mercato dei diritti di inquinamento o, per
dirla in modo più tecnico e neutro, dei permessi trasferibili all'emissione,
nacque proprio nel quadro del
Clean Air Act nel 1977, non durante l'amministrazione della «nuova destra»
reaganiana.
Il «principio
chi inquina paga» è stato fin dall'inizio uno dei cardini della politica degli
ambienti e dimostra la difficoltà di tagliare nettamente in due e in modo
ideal-tipico le fasi della politica ambientale. Esso mira a «perfezionare» il
mercato attraverso l'internalizzazione dei costi ambientali, rendendo visibile
ciò che il mercato spontaneamente non vede: è certamente alla base di misure di
tipo economico-finanziario quali le tasse ambientali piuttosto che del tipo «comando e
controllo».
Se questo
principio venisse applicato in modo esteso le esternalità ambientali presenti,
almeno quelle quantificabili, monetizzabili e con responsabili identificabili,
sarebbero incluse nel calcolo economico. Ma una tassazione che internalizzasse
integralmente i costi ambientali monetizzabili in tutti i settori spingerebbe
verso l'alto i costi di produzione e, in definitiva, negherebbe il principio
stesso, in quanto l'aumento dei prezzi ricadrebbe sui consumatori e solo sulla
domanda: l'effetto degli shock petroliferi andrebbe moltiplicato. Né vale dire
che in questo modo i consumatori si orienterebbero verso i prodotti più
ecologici, perché l'inflazione eliminerebbe tale effetto orientativo. Il
ragionamento in questi termini è del
tutto ipotetico perché il reddito e la crescita economica sono mezzi della
legittimazione e nessuna maggioranza politica è disposta a suicidarsi tentando
di internalizzare integralmente i costi ambientali. L'esperimento mentale è
comunque utile perché insegna qualcosa non solo sui limiti degli strumenti
finanziari e sui loro effetti distributivi ma anche sulla loro natura
tecnocratica. Le spese sostenute dalle imprese inquinanti andrebbero
confrontate con i sussidi e le varie forme di agevolazioni, giustificate da
esigenze di carattere economico e sociale (22).
Ciò che sarebbe
ecologicamente e a volte finanziariamente più razionale deve fare i conti anche
con i vincoli posti dalla concorrenza e dalla divisione internazionale del lavoro. L'impasse
dei negoziati sulla riduzione delle emissioni che determinano l'effetto serra
ne è l'esempio maggiore perché in questo caso, in misura decisamente maggiore
che per la riduzione dei Cfc, la posta in gioco è la possibilità dello sviluppo
industriale per il «sud» e della competitività internazionale per il «nord».
Nell'orientamento
più recente della politica ambientale, e coerentemente al quadro complessivo
che esalta l'efficienza del mercato, si tende a dare maggior risalto agli
«strumenti economici» e all'autoregolamentazione, dal disegno trasversale,
contrattualistico e volontaristico (23) rispetto alla regolamentazione diretta.
Gli strumenti
che l'approccio dell'autoregolamentazione contrappone allo schema del «comando e
controllo» sono solo in parte nuovi: in alcuni casi risalgono alla metà degli
anni '70 o non sono altro che l'estensione in campo ambientale di metodologie
ancor più vecchie. Ma nuova è la tonalità complessiva della politica
ambientale. Secondo l'Ocse, nel 1987 erano in vigore nei paesi membri 150
strumenti economici (tra cui circa 80 tasse e 40 sussidi), ma di questi «meno
della metà avevano l'intenzione di generare un incentivo economico e oltre metà
erano intesi ad aumentare il reddito. Solo un terzo potrebbe aver avuto qualche
impatto incentivante» e nell'insieme «nel 1987 gli strumenti di politica
ambientale nei paesi membri dell'Ocse erano principalmente del tipo comando e
controllo»; ma nel 1994 il numero degli strumenti economici risultava aumentato
del 25-50% a seconda dei paesi. Tra i paesi membri per i quali si disponevano
di più dati i «cambiamenti sono stati estesi in Finlandia, Svezia, Stati Uniti;
moderati in Olanda; e minori in Francia, Germania
e Italia» (24). Benché la regolamentazione diretta non possa essere eliminata,
la tendenza è dunque a sviluppare gli strumenti economico-finanziari,
contrattualistici e volontari.
Stando a questo
approccio la regolamentazione diretta è in genere inefficace e costosa.
Teoricamente
esso presuppone: primo, che le imprese sappiano meglio dello Stato quale sia la
via più conveniente per la riduzione degli impatti ambientali; secondo, che i
«valori ambientali» possano essere internalizzati dall'impresa, una volta
compreso che essi sono una opportunità e non un vincolo; terzo, che i problemi
ecologici nascano dalla mancanza di diritti di proprietà e dalla carenza di
mercato piuttosto che dai suoi fallimenti. Lungi dal riconoscere i limiti
intrinseci del
mercato, si postula che questo particolare meccanismo capitalistico di
coordinamento coincida con una astorica razionalità economica. L'intervento
statale deve quindi essere il più possibile limitato ad una funzione di indirizzo
e di stimolo della trasformazione, «ecologica» ma guidata dal mercato, della
tecnologia industriale. In altri termini, scontando la compatibilità tra
capitalismo e ambiente, si intende rafforzare il pieno controllo
imprenditoriale sulla direzione delle forze di produzione, usando gli standards
e la regolamentazione diretta solo nei casi più critici.
Le forme
concrete della «sostenibilità» del
capitalismo dipendono non solo dalla natura ma anche più dalle specificità
storiche e geografiche (nazionali e subnazionali) dei diversi capitalismi.
L'esposizione teorica può essere verificata considerando caratteri specifici ed
effetti delle politiche ambientali dei singoli Stati, quelli che sono
definibili gli stili nazionali (25).
Si tratta di
articolare un insieme complesso di variabili fra cui i modi dei rapporti fra lo
Stato e le imprese (o meglio con i rami ed i settori dell'accumulazione), le
caratteristiche dell'ordinamento istituzionale e della pubblica
amministrazione, livelli e orientamenti della spesa pubblica e, in modo più
specifico per il nostro discorso, forza di pressione, tipo di organizzazione,
conflittualità e modi di neutralizzazione della mobilitazione delle popolazioni
interessate e di cooptazione degli ambientalisti nelle compatibilità del
sistema politico.
L'industria del
dis-inquinamento è un settore i cui tassi di crescita sono superiori a quelli
generali delle economie nazionali e per il quale lo Stato nelle sue varie
articolazioni, contraddicendo il dogma liberistico, funge da propulsore e,
almeno fino ad ora, da protettore: le oscillazioni nella crescita del settore,
le differenze tra i paesi, le disuguaglianze tra i grandi comparti (acqua,
aria, rumore ecc.), dipendono dall'iniziativa politica, nazionale e locale
(26). Specialmente le grandi società conglomerate hanno interesse a sviluppare
l'«industria verde» perché questa può costituire una forma di internalizzazione
dei costi: è possibile cioè produrre in proprio i processi necessari per essere
conformi alle norme. Si possono creare nuove divisioni societarie, compensare
produzioni in declino, valorizzare risorse interne, probabilmente riciclare
impianti esistenti; l'igiene ambientale dei siti può rientrare nella
valutazione degli stessi ai fini della vendita. La formazione di risorse e
competenze in questo campo consente di aumentare il fatturato ed i profitti con
le vendite a terzi. Ma, anche nei paesi più sviluppati, siamo ancora molto
lontani dall'avvento delle «tecnologie pulite» a monte. Un documento Ocse
stimava gli investimenti per tecnologie pulite nel 1985 non superiori al 20%
degli investimenti totali per la riduzione dell'inquinamento. Anche più
drastico un documento ufficiale statunitense: «Negli Stati Uniti più del 99% degli
stanziamenti federali e statali viene devoluto al controllo dell'inquinamento
dopo che i rifiuti sono stati effettivamente generati» (27). E secondo una
ricerca sull'impiantistica ambientale, commissionata dal Ministero
dell'Ambiente, «dopo oltre venti anni di attività politica ambientale, l'industria
tedesca destina ancora il 90% dei propri investimenti ambientali a impianti di
abbattimento a valle, e similmente avviene in Francia, Stati Uniti e Belgio,
dove gli interventi end-of-pipe
costituiscono ancor oggi una quota degli investimenti ambientali delle imprese
compresa tra l'80 e il 90%» (28).
I tempi della
«tecnoecologia» sembrano veramente molto lunghi.
Politica
degli ambienti, democrazia, trasformazioni dello Stato
Quel che è in
gioco nelle trasformazioni attuali della statualità non è un impossibile
ritorno al passato liberale e un ridimensionamento assoluto dell'intervento
dello Stato (per cui a un meno di intervento statale corrisponderebbe un più di
mercato). Se c'è qualcosa che le politiche ambientali ed i problemi ecologici
dimostrano al di là di ogni dubbio è l'irreversibilità delle relazioni
qualitative tra economia e statualità costruite nel corso del '900. Quel che cambia sono
l'orientamento delle politiche, gli strumenti, le priorità, il peso relativo
degli apparati, con ciò assecondando le trasformazioni nei rapporti fra le
classi. Un paradosso della fase attuale è che al declino dei diritti
economici-sociali, e forse anche di quelli civili e politici, sembra
corrispondere lo sviluppo del
diritto dell'ambiente.
Quando la
grammatica politica, anche della sinistra, si riduce agli imperativi della
«competizione globale» ed ai criteri della (sedicente) efficienza del mercato e
quando la validità della politica dei governi si misura in base all'indice
della borsa ed al cambio della moneta, è dubbio che i bisogni sociali, e tra
questi quelli di tipo ambientale, possano trovare soddisfazione. Se non alla
condizione e nei limiti, quantitativi e qualitativi, di una ripresa del tasso
di accumulazione a cui, altro paradosso, si oppone lo stesso miope indirizzo
detto liberista. Un certo «keynesismo ambientale» potrebbe svolgere un ruolo in
un nuovo periodo di lunga crescita economica. Ma la crisi dei diritti
economico-sociali e delle istituzioni del
welfare state impone coattivamente ed in modo generalizzato i mezzi che si sono
già dimostrati incapaci di regolare razionalmente non solo lo scambio sociale
ma il ricambio organico società-natura: la moneta ed il calcolo monetario, la produzione privata di servizi e la
centralità dell'impresa.
Quando lo Stato
si vuole meno «sociale», ovvero quando più forte è il potere borghese e minore
la conflittualità che genera ed estende le garanzie politiche e sociali, si
intensificano gli aspetti «assolutistici» impliciti nell'amministrazione
statale, di cui esempio macroscopico è lo spostamento del potere in direzione
dei ministeri finanziari e delle Banche centrali, in funzione della priorità
accordata alla politica monetaria e valutaria. Questo influenza direttamente la
politica ambientale in diversi modi: dal rigetto della programmazione e di una
attiva politica industriale, alla scelta degli strumenti economici per
l'ambiente fino al finanziamento dei ministeri per l'ambiente e delle agenzie
ambientali o degli enti locali.
In questa
logica il favore, accordato in apparenza all'impersonale entità del mercato, in effetti
ai poteri economici privati, comporta dei privilegi che scaturiscono
dall'intreccio tra interessi burocratico-statali e privati-imprenditoriali, o
meglio dall'interiorizzazione negli apparati politici e burocratici degli
interessi delle frazioni capitalistiche. Lo sviluppo di questi privilegi
assolutistici accentua la crisi dei principi di legalità e di certezza del diritto, di
pubblicità, e di controllo degli atti statali: tipico il caso delle inchieste
giudiziarie che, anche in campi ambientali, coinvolgono i politici rivelando
una parte di quei poteri invisibili
che continuamente si riproducono e prolificano nel normale funzionamento dello
Stato capitalista. Dalla fine della Seconda guerra mondiale la politica nei
paesi a capitalismo avanzato non è mai stata tanto elitaria e ridotta ad
amministrazione e, proprio per questo, trasformata in spettacolo delle fortune
e delle sfortune dei «principi». Nonostante la retorica liberale e liberista le
trasformazioni in corso nei rapporti fra Stato ed economia sono tali da
rafforzare in modo sostanziale i poteri burocratici ed amministrativi, se non
nei confronti dei forti, certamente nei confronti dei cittadini.
Può l'erosione
della democrazia coesistere con la razionalità ecologica?
Nel migliore
dei casi, la ridefinizione dei rapporti tra Stato ed economia ripropone, anche
nel rapporto tra società capitalistica e natura, il paradosso di una maggiore
razionalità microeconomica (efficienza a livello dell'impresa) e di una
maggiore irrazionalità macrosociale. Il risparmio di energia e materia a
livello della singola unità produttiva è infatti perfettamente compatibile con
la logica del sistema: ad esso si possono
opporre solo la convenienza economica e il monopolio tecnologico (il discorso
può essere diverso al livello del
consumo). Ma, come l'insieme delle regolamentazioni parziali dello Stato e
l'ecobusiness, si tratta solo di correttivi all'interno di una logica sistemica
che richiede la crescita tendenzialmente senza limiti dell'accumulazione di
capitale, della produzione e consumo di merci e quindi dell'entropia
complessiva dell'energia e della materia.
Si può fare
un'analogia con la riduzione della durata della giornata lavorativa, la singola
conquista socio-economica più importante e dagli effetti più ampi nella storia del capitalismo: essa ha
spinto all'aumento della produttività e al perfezionamento dell’estrazione di
plusvalore relativo. Nello stesso tempo, questo ha comportato la sussunzione reale
della forza lavoro al capitale, l'estensione della mercificazione, la
trasformazione dei rapporti e dei problemi sociali e lo spostamento delle
contraddizioni sistemiche nel tempo e nello spazio.
La parziale
internalizzazione del «valore ambiente» nella società capitalista può avere
effetti simili, ben rappresentati dai problemi delle biotecnologie: la
creazione di un nuovo ramo di accumulazione, una più spinta «sussunzione reale
della natura», una migliore capacità di utilizzarla produttivamente, razionalmente
in termini microeconomici e di marketing, creando nuovi problemi ecologici e
spostandone altri verso le generazioni a venire e le aree dette in via di
sviluppo. La tendenza potenzialmente illimitata all'utilizzo capitalistico,
privato e statale, dei processi e delle risorse naturali va messa a confronto
con i limiti, variabili ma strutturali, degli apparati politico-amministrativi
nel prevedere, prevenire, valutare retrospettivamente gli effetti ecologici
dell'attività economica nel suo complesso e di retro-agire adeguatamente e
tempestivamente.
I toni delle
politiche ambientali rispondono alla situazione sociale e politica generale ma
esse sono sempre un vettore della mercificazione della natura.
A un tono
difensivo, segnato dal prendere tempo e dall'incertezza sulla strategia di
fondo, è seguito un approccio
pragmatico, più coerente rispetto all'insieme delle funzioni statali: di
legittimazione e mediazione e, specialmente, di razionalizzazione del quadro al cui
interno sviluppare la mercificazione e la valorizzazione delle condizioni
naturali della produzione capitalistica. Il che pone le premesse per cui i
limiti delle politiche ambientali si trasformino in crisi delle stesse.
Conclusione
La questione
cruciale è che apparati sottratti al controllo sociale, che siano pubblici o
privati, possono incorporare i bisogni sociali ed ecologici solo come variabili
e sotto-prodotti delle loro autonome finalità, quali risultano dalla
materialità dei rapporti sociali che sottintendono, si tratti della riproduzione
di una casta o classe politico-burocratica sedicente socialista o di una classe
di capitalisti privati. La lotta politica e sociale può condizionare quelle
finalità e le politiche possono incorporare compromessi, espliciti o impliciti,
con i movimenti sociali. Ma la trasformazione-modernizzazione del
sistema non fa che spostare nel tempo e nello spazio le contraddizioni interne,
fino a quando non si pone la questione del
potere degli apparati politici ed economici. È questo potere di classe, che si
condensa e si concentra politicamente nello Stato e nell'insieme delle sue
politiche, a decidere (o meglio: ad orientare indipendentemente da una chiara
previsione degli effetti sociali ed ecologici futuri) il tipo di sviluppo delle
forze di produzione, cioè del
rapporto con la natura.
Il rischio è
che
«nel contesto
dell'industrialismo e della logica del mercato
il riconoscimento delle costrizioni ecologiche risulti nell'estensione del potere
tecnoburocratico. Questo è un approccio che risale a un punto di vista
premoderno che è tipicamente anti-politico. Esso abolisce l'autonomia del politico a favore
dell'espertocrazia, designando lo Stato e i suoi esperti per valutare il
contenuto dell'interesse generale e per escogitare i modi per assoggettare ad
esso gli individui. L'universale è separato dal particolare, i più alti
interessi dell'umanità sono separati dalla libertà e dalla capacità di autonomo
giudizio dell'individuo» (29).
La versione
estrema dell'espertocrazia e dello Stato-strumento, è la soluzione hobbesiana
dei problemi ecologici che fa appello, per salvare l'umanità dalla catastrofe
ecologica, a un potente Leviatano e/o a una paterna aristocrazia che educhi la
popolazione a riconoscere i vincoli posti dalla scarsità, unendo i caratteri della
religiosità e della disciplina militare. Ma sappiamo che il totalitarismo non
implica affatto una gestione economicamente ed ecologicamente razionale e che
esso cova la propria autodistruzione; e se lo si presuppone come soluzione
inevitabile in una condizione già catastrofica sembra poco credibile la
persistenza delle capacità dello stesso controllo totalitario, almeno in
termini moderni.
Benché un punto
di vista hobbesiano possa caratterizzarsi come statalismo socialista, benché
certi discorsi ideologici sulle società pre-capitaliste o sul comunitarismo o
sul senso di identità e di appartenenza diffusi nell'ambientalismo sorvolino
sulla loro compatibilità con la libertà individuale, l'aspetto più interessante
delle prospettive hobbesiane consiste in quanto rivelano dei limiti ultimi
dell'orizzonte politico-ecologico del pensiero borghese e della
complementarietà tra l'individualismo dello homo
economicus e l'autoritarismo. Questo è chiaro specialmente nella celebre
parabola di Garret Hardin sulla «tragedia dei beni comuni» e sul suo messaggio:
«la rovina è il destino verso cui sono trascinati tutti gli uomini, ciascuno
inseguendo il proprio miglior interesse, in una società che crede nella libertà
dei beni comuni. La libertà nell'ambito dei beni comuni porta la rovina per
tutti» (30). L'argomentazione si presta a due soluzioni che condividono gli
stessi presupposti e che risultano essere due facce della stessa medaglia.
Innanzitutto si può pensare che sia possibile rimediare alla «tragedia dei beni
comuni» privatizzandoli e sviluppandone il mercato. Per gli economisti
contemporanei la parabola ha in campo ambientale lo stesso significato
paradigmatico che ebbe il Robinson Crusoe
per l'economia classica, di cui condivide l'impianto epistemologico strettamente
individualista ed utilitarista e l'antistoricità. Ma, segno dei tempi, i banali
esempi di Hardin certo non hanno il fascino dell'avventura narrata da Defoe.
Oppure si può
ricorrere, con le parole di Hardin, alla «coercizione reciprocamente
concordata», idea che ha interessato gli studiosi della politica. Hardin non è
soggettivamente un totalitario perché si pone il problema dei correttivi
all'autorità dei custodi ma, oggettivamente, l'impianto del suo discorso può giustificare anche il
Leviatano. Come altri hobbesiani egli è stato criticato perché ammette
implicitamente solo il «dilemma del
prigioniero» ed esclude giochi più complessi a n-giocatori e con possibilità di apprendimento. Ma il nocciolo
della questione è che «si ha sfruttamento eccessivo delle risorse comuni solo
se l'accesso a tali risorse non è regolato. Ma proprietà comune e proprietà a
libero accesso non sono sinonimi; non tutta la proprietà pubblica è priva di
regole riguardanti il suo utilizzo» (31). Né la proprietà comune implica che essa
debba essere gestita necessariamente dal Leviatano: la riduzione delle
alternative alla privatizzazione dei beni comuni o alla coercizione può essere
posta solo da chi fa del comportamento del capitalista
l'essenza dell'umanità, che ammette solo l'eteroregolazione mediante la
proprietà privata o il potere statale e nega la possibilità della
socializzazione dell'economia e della politica.
La riflessione
ambientalista ed ecosocialista sarà teoricamente parziale fino a quando
non approfondirà la critica dei
meccanismi della politica ambientale e della stessa statualità in quanto limiti
alla razionalità ecologica. Credo siano chiare le implicazioni politiche di
questa posizione: non è sufficiente porre la questione del
rapporto tra rosso e verde o tra marxismo ed ecologismo, o dell'alleanza tra
partiti verdi e partiti socialdemocratici (o comunisti) o tra ambientalismo e
sindacalismo per un qualche nuovo «piano del
lavoro».
Quel che è
politicamente discriminante è l'autonomia politica, da cui dipende la volontà,
e la capacità, di far vivere anche nelle lotte difensive e parziali e negli
obiettivi tattici la prospettiva di una società ecologicamente e socialmente
razionale. L'ecologia è destinata ad essere un'appendice dell'economia fino a
quando non sarà possibile la gestione direttamente sociale delle risorse e del ricambio organico su
tutte le scale. E questo significa che solo «reincastrando» la politica e
l'economia è possibile costruire modi e istituzioni della decisione politica ed
elaborare i criteri di un calcolo delle risorse che, subordinando sempre più
gli scambi monetari a scambi di usi e di valori d'uso, abbiano la qualità della
vita e dei rapporti ecologici come proprie finalità sistemiche. La gestione
democratica e pianificata delle forze di produzione è condizione essenziale per
la costruzione di una società ecologicamente razionale. Anch'essa realizzerà
compromessi e mediazioni, ma la socializzazione e l'integrazione della politica
e dell'economia possono garantire sia maggiore responsabilità, capacità di
previsione e di valutazione ecologica dei rischi, impliciti nel rapporto che
qualsiasi tipo di società ha con la natura, sia la necessaria disponibilità dei
meccanismi istituzionali e sociali e delle risorse tecniche ed economiche
perché il rapporto con la natura corrisponda ai criteri della razionalità
ecologica. Allora l'uso sociale della natura potrebbe non essere in antitesi
con autentici sentimenti di rispetto per essa.
Tutto ciò
potrebbe essere solo un'utopia. Ma certamente più concreta di un «capitalismo
ecologicamente razionale».
Note
20) In questa
forma lo Stato capitalista risulta dedotto dalla specificità del rapporto di lavoro salariato. Benché non
sia rilevante per la discussione delle politiche ambientali ritengo comunque di
estrema importanza sottolineare che questa deduzione si basa su qualcosa di più
«concreto» di una operazione logica. Insieme al ruolo determinante dei rapporti
di forza tra signori e contadini, diversi nelle varie zone d'Europa e in
particolare fra la sua parte occidentale e quella centro-orientale, essa è il
nocciolo di una interpretazione storiografica della transizione dal feudalesimo
al capitalismo, e che può quindi essere verificata nella ricerca e nel
dibattito: della linea che parte dalle posizioni di Dobb nella polemica con
Sweezy e che giunge fino al «dibattito Brenner». Si tratta di un punto di vista
diverso da quello di Gunder Frank o di Wallerstein, ma non esclude affatto
l'esistenza di più modi di produzione in un unico sistema mondiale di scambi e
di interazioni strategiche: è la concezione del sistema che è diversa. Precisazione:
fenomeni di coercizione privata non sono esclusi né nei processi di
«accumulazione primitiva» del capitale nei paesi neocoloniali o ex «socialisti»
né in quelli a capitalismo avanzato, come è il caso delle mafie di vario
genere. Ma in un capitalismo sviluppato fenomeni di questo tipo sono, non a
caso, perseguibili.
21) Martin
Jänicke, «Per una teoria del
fallimento dello Stato», in Il governo
debole. Forme e limiti della razionalità politica, Bari , De Donato, 1981, a cura di Carlo
Donolo e Franco Fichera.
22) Si veda
Organisation for economic co-operation and development, Subsidies and environment. Exploring the linkages, Oecd, 1996;
David Roodman, «Riformare le sovvenzioni», in State of the wordl, a cura di Lester Brown, Christopher Flavin,
Hilary French, Torino , Isedi, 1997. Un
rapporto della Corte dei Conti della Comunità Europea indica che i 2,5 miliardi
di Ecu stanziati nel periodo 1989-1993 nel quadro dei fondi strutturali
comunitari hanno avuto a che fare più col nettoyage che con l'azione preventiva
ed afferma che «se dovessero moltiplicarsi, soprattutto senza autentiche misure
di dissuasione per prevenire il ripetersi dei danni, potrebbero contribuire ad
accreditare l'idea che l'inquinatore non è il pagatore e che il costo
ambientale di una attività non deve essere a carico di chi intraprende
l'attività», cit. in Henri Smets, «Lex exceptions admises au principe polleur
payeur», in Droit et pratique du commerce
international, tomo 20, n. 2, 1994, p. 217. Tra i tanti dati citati: nel 1990 l 'industria francese ha
investito 6 miliardi di franchi nella lotta all'inquinamento, con sovvenzioni a
questo fine per 2 miliardi, ma ricevendo nel complesso (industria manufatturiera,
gas, acqua e settore elettrico) 41,4 miliardi, su un ammontare complessivo di
sovvenzioni per tutti i settori economici di 168 miliardi.
23)
«L'autoregolamentazione ha raggiunto e continuerà a raggiungere importanti
successi nel migliorare gli effetti ambientali dell'industria e dell'economia.
Ma perché essa funzioni e sia credibile, deve essere negoziato un quadro chiaro di aspettative e requisiti fra le
industrie e il governo. All'interno di tale quadro, l'industria sarà libera di
innovare e competere (...) L'autoregolamentazione può dimostrarsi alla società
in generale più conveniente sia delle regolamentazioni comando e controllo, sia
degli strumenti economici. L'industria spesso detiene le informazioni sulle
tecnologie e sulle emissioni che il governo deve regolare in modo efficace.
Allora L'autoregolamentazione evita, in una certa misura, le spese del governo nella
raccolta delle informazioni, nella loro trasformazione in regolamentazioni e
poi nel monitoraggio degli effetti. Ovviamente ci sarebbe sempre una raccolta
di informazioni e un monitoraggio da parte dei governi, ma essa dovrebbe essere
meno antagonista e meno estesa, perciò più economica», da Stephan Schmidheiny, Cambiare rotta. Una prospettiva globale del
mondo economico industriale sullo sviluppo e l'ambiente, Bologna , il Mulino, 1992, pp. 45-46.
Aggiunta
del 2014: il 13 febbraio 2012 lo stesso Stephan Schmidheiny venne condannato
dal tribunale di Torino a 16 anni di reclusione, elevati a 18 nella sentenza
d’appello l’anno successivo, per disastro ambientale doloso permanente e per
omissione volontaria di cautele antinfortunistiche, nonché al risarcimento di
circa 3000 parti civili: ciò in conclusione del procedimento riguardante la
morte di quasi 3000 persone a partire dagli anni ‘50 causata dall’esposizione
all’amianto all’interno e nelle vicinanze delle installazioni di Eternit
Italia.
24) Oecd, Applying economic instruments to
environmental policies in Oecd and dynamic non-member states, Oecd, 1994,
pp. 25-26.
25) Sulla
comparazione di stili nazionali della regolazione ambientale: Rodolfo Lewanski,
«La formulazione delle politiche ambientali: attori, razionalità e stili
nazionali», in Costituzioni razionalità
ambiente, a cura di Sergio Scamuzzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; P.
Vogel, National styles of regulation:
environmental policy in Great Britain and the United States, Ithaca and
London, Cornell University Press, 1986; Volker Schneider, «Corporatist and
pluralist patterns of policy-making for chemicals control: a comparison between
West Germany and the Usa», in Alan Cawson (a cura di), Organized interests and the state. Studies in meso-corporatism, Beverly Hills , Cal. ,
Sage Publications, 1985.
26)
Sull'ecobusiness: a cura di Emilio Gerelli, Ascesa
e declino del
business ambientale. Dal disinquinamento alle tecnologie pulite, Bologna , il Mulino, 1990; a cura di Bruno Dente e Pippo
Ranci, L'industria e l'ambiente, Bologna , Il Mulino 1992;
a cura di Roberto Malaman e Sergio Paba, L'industria
verde, Bologna ,
il Mulino, 1993; Rita Madotto, L'ecocapitalismo.
L'ambiente come grande business, Roma, Datanews, 1993; Claudia Rosani,
«L'industria dell'ecobusiness», Capitalismo
natura socialismo n. 3 (fasc. 9), ottobre 1993; Alexandre Vatimbella, Le capitalisme vert, Paris ,
Syros , 1992.
27) U. S.
Congress, Office of Technology Assessment, Serious
reduction of hazardous waste, Washington, U. S. Government Printing Office,
1986, in
Schmidheiny op. cit., p. 145.
28) In L'industria verde, Bologna , il Mulino, 1993, p. 12, a cura di Roberto Malaman
e Sergio Paba.
29) André Gorz,
«Political ecology: expertocracy versus self-limitation», in New left review n. 202,
novembre-dicembre 1993, p. 57.
30) Garret
Hardin, «The tragedy of the commons», in Science
n. 162, 1968.
31) Charles
Perrings, Economia e ambiente,
Milano, Etas, 1992, p. 178, prima ed. Cambridge University Press, 1987.
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