Un caos propagabile
Nulla sarà più come
prima. È una predizione assai facile, in base allo stato di disfacimento
politico in cui oggi si trova tutta l’area che va dalla Libia all’Afghanistan,
come al solito grazie all’imperialismo occidentale. Gli Stati più o meno
artificiali creati dai vincitori della Prima guerra mondiale, spartendosi il defunto
Impero ottomano attraverso la mistificazione dei “mandati”, potrebbero
scomparire o comunque potrebbero nascere nuove linee di frontiera. Né vanno
trascurati entità precarie come il Pakistan (originariamente addirittura distinto
in due parti lontanissime fra loro, di cui quella orientale sarebbe poi
divenuto il Bangla Desh) e l’Afghanistan, che obiettivamente è sempre stato un
caso a parte, più o meno tenuto insieme da dinastie la cui forza derivava da accorti
equilibrismi tra i componenti di un complicato mosaico etnico-religioso e tribale.
Ciò almeno fino a che nel lontano 1973 il re Zahir Shah non venne spodestato
dal cugino Sardar Muhammad Daud che proclamò la repubblica; le successive occupazioni
sovietica e statunitense hanno però definitivamente scompigliato le tessere del
puzzle con cui si può metaforicamente
identificare quel paese.
Tutto si complica
inevitabilmente quando, con estrema miopia ammantata da cinica furbizia, gli
imperialisti utilizzano proprio l’estremismo islamico per destabilizzare e
dominare. Il caos afghano è sotto gli occhi di tutti, e dopo il ritiro degli
occupanti occidentali le cose andranno anche peggio. Il Pakistan, oltre ai suoi
problemi endogeni è alle prese con la sovversione jihadista originariamente
creata da quel mix fra incoscienza e
autolesionismo che caratterizza da tempo la politica statunitense. Lo stato di
decomposizione degli altri paesi del Vicino e Medio Oriente è del pari palese:
la Libia è nel caos e lo Stato unitario appartiene al passato; in Siria,
quand’anche l’esercito regolare abbia ormai ripreso l’offensiva con ricorrenti
successi, la guerra si prolunga e tutto sommato il rischio di un intervento
statunitense è ancora pendente, seppure la diplomazia russa lo abbia
allontanato - comunque al-Assad è stato rieletto Presidente con un risultato
formale per lui più che soddisfacente (ha votato il 73,42% degli elettori e ha
ottenuto l’88,7% dei voti); difficilmente il governo di Baghdad potrà evitare
che il distacco del Kurdistan divenga definitivo (a prescindere da come ciò si
formalizzerà) e riportare sotto il suo controllo le zone a maggioranza sunnita;
infine il Libano è più instabile che mai per i contraccolpi interni dei
conflitti regionali in corso.
La Giordania
Con la creazione di
un sia pur velleitario “califfato” sunnita tra Iraq e Siria, la Giordania è a
rischio immediato, e senza l’interessato e pericoloso aiuto di Washington, re
Abdallah non potrà restare sul trono; e comunque è da vedere in quali
condizioni. Già nel suo territorio si è rifugiato almeno un milione di profughi
siriani, e sulla loro impermeabilità alla propaganda jihadista non c’è da fare
sottovalutazioni. Il sud del paese è fondamentalista, e almeno 2.500 giordani
combattono in Siria e in Iraq tra i jihadisti. Secondo stampa statunitense l’amministrazione
Obama non ritiene la Giordania in grado di resistere se si verificasse
un’espansione jihadista; e allora? La monarchia, tradizionale alleata degli
Stati Uniti, oltre a rivolgersi a questo suo protettore potrebbe anche avere l’aiuto
di Israele; e secondo il giornale israeliano Haaretz, il governo di Netanyhau avrebbe già assicurato agli Stati
Uniti la sua disponibilità a intervenire, se necessario, per il “salvataggio”
della Giordania. In una simile ipotesi Abdallah salverebbe momentaneamente il
trono, ma lo manterrebbe solo grazie ai carri armati israeliani. Lui,
discendente del Profeta, e nell’attuale situazione globale del mondo islamico.
Figuriamoci!
Per
completare il quadro non vanno trascurati Egitto, Palestina, Arabia Saudita e
Iran. Il primo di questi paesi ancora non è sotto il pieno controllo dell’uomo
“forte” del momento, il generale al-Sissi, oggi Presidente; e gli eventi iracheni
sono ben suscettibili di dare ulteriore fiato all’opposizione cruenta degli
estremisti islamici. Il futuro prossimo sarà quindi assai agitato.
Palestina
La
Palestina è un caso sempre più tragico. Le prospettive di pace sono svanite,
poiché l’unica forza virtualmente in grado di costringere Israele a ridurre
pretese e arroganza – cioè gli Stati Uniti – non è in grado di farlo: nessun presidente
si farebbe carico della sicura sconfitta del suo partito qualora si alienasse
la lobby elettorale sionista. In più entrambe le leaderships politiche
palestinesi – al-Fatah e Hamas - sono al collasso, sia pure per
motivi diversi. Il recente “governo di unità nazionale” fra Abu Mazen e Hamas sembra
più un pio tentativo che una vera e propria realtà; e Abu Mazen è prossimo a
diventare il poliziotto d’Israele, se già non lo sia, ma ovviamente senza
portare risultato alcuno al suo popolo. La crisi causata dall’omicidio dei tre
ragazzi israeliani lo ha messo del tutto nell’angolo e ormai conta meno di quel
meno che contava prima. Hamas – pur con il suo attuale apparato missilistico (in
grado di arrivare fino ad Haifa) – non ha certo la stessa forza militare
dimostrata a suo tempo dall’Hezbollah
libanese.
Inoltre,
proprio i predetti tre omicidi dimostrano la sua perdita di controllo sulla
galassia islamista. Attribuirgli la responsabilità di quel tragico evento, come ha fatto Netanyahu,
sa di mera e opportunistica propaganda: secondo Limes la responsabilità sarebbe di membri della concorrente tribù Qawasameh, di Hebron, che non da ieri opererebbero
per screditare e danneggiare proprio il ruolo di Hamas come guida islamica. Una
differenza fra Abu Manzel e Hamas sta nel fatto che mentre il primo non è più
un interlocutore politico significativo, Hamas invece ha realizzato un forte gioco
diplomatico esterno, ma puntando su un cavallo risultato perdente: infatti, si
era schierato soprattutto con la Fratellanza Musulmana, ma pure con la Turchia
e il Qatar, alienandosi i precedenti appoggi siriano, libanese e iraniano. Di
questa situazione di debolezza hanno approfittato Jihad Islamica (5.000 uomini,
contro i 20.000 di Hamas), Comitati di Resistenza Popolare e vari gruppi radicali.
Caduto Morsi, il rapporto con l’Egitto è finito, e in più Hamas ha cominciato a
corteggiare i ribelli islamisti nel Sinai di Ansar Bayt al-Maqdis, contro cui
sta combattendo l’esercito egiziano. In queste condizioni tali dirigenze, a
tutti i fini, è come se non esistessero.
L’attuale
aggressione israeliana a Gaza - che ancora una volta Washington non può e non
vuole impedire per i soliti motivi elettoralistici - in sé e la sproporzione
delle vittime civili finora provocate dall’aviazione di Israele in rapporto al
numero dei ragazzi israeliani uccisi, sono elementi che complicano il quadro,
rinfocolando odi e soprattutto attirando ulteriori islamici arrabbiati nelle
fila jihadiste. Proprio in questo momento!
L’Arabia Saudita
Dal
canto suo la dirigenza saudita sta svolgendo da tempo un gioco destabilizzante
ma altresì pericolosissimo, in quanto rischia di diventare un boomerang. Essa,
cioè, sta palesemente dietro alla sovversione jihadista diffusa in tutto il
mondo islamico, e in Iraq tiene le fila di una manovra strategica orientata,
sul piano economico, a che i suoi alleati jihadisti si impadroniscano quanto
più possibile dei centri petroliferi iracheni e, sul piano politico, all’indebolimento
degli Sciiti locali. Ma stando così le cose, il problema è se, e fino a che
punto, i Sauditi siano in grado di evitare che la furia jihadista si volga
anche contro di loro, visto che il loro
comportamento non è del tutto in linea col rigorismo islamico di cui i
jihadisti si dicono fautori. Il dubbio è più che legittimo, anche tenuto conto
degli esiti delle manovre statunitensi passate e odierne.
L’Iran nel mirino
Gli
odierni eventi in Iraq sono chiaramente diretti anche contro l’Iran, centro
dello Sciismo mondiale, insieme a quelli siriani. Può darsi che l’entità
sunnita creata dai jihadisti non resti nelle loro mani definitivamente e che i
superstiti seguaci di Saddam Husayn se ne impadroniscano, e può darsi pure che
in Siria le truppe di al-Assad riescano a riconquistare i territori orientali
oggi ancora in mani jihadiste. Tuttavia è azzardato pensare che l’entità
sunnita oggi costituita venga eliminata in tempi brevi, tanto più che essa non
è contraria (in quanto tale) agli interessi statunitensi nell’area. Dando per
scontata la permanenza di tale entità, c’è da chiedersi (un po’ retoricamente,
a dire il vero) se non rientri tra gli obiettivi di essa (e dei loro sponsor
sauditi) l’estensione della spinta sunnita anche verso il confinante Khuzistan
iraniano: territorio a maggioranza araba e sunnita, e con forte concentrazione
di pozzi petroliferi.
È
fuori dubbio che l’Iran strategicamente non può consentire, e non consentirà
senza intervenire (direttamente o no), né la sconfitta di al-Assad né quella
degli Sciiti iracheni, essendo in gioco sia l’asse dell’alleanza sciita in
Oriente, sia la difesa dei maggiori santuari della storia sciita; e a fortiori non lascerà impunite azioni
entro i suoi confini. Alle brutte Teheran potrebbe sempre cercare di “compensare”
i debordamenti sunniti decidendosi a fornire maggiori sostegni agli Sciiti
dell’Arabia Saudita (oltre tutto concentrati in zona ad alta concentrazione di
pozzi petroliferi) e a quelli del Bahrayn (dove sono maggioritari).
Sta
di fatto che oggi per l’Iran gli Stati Uniti si sono spostati sullo sfondo come
“grandi nemici” immediati, mentre tale è diventata l’Arabia Saudita nel grande
arco geopolitico che comprende Libano, Siria, Iraq, Golfo Persico, Pakistan,
Afghanistan e Khuzistan; per non tacere dell’Opec.
In
Iran – e fra i loro alleati, ma non solo – il sospetto che le manovre saudite
non avvengano senza il consenso e/o la compartecipazione degli Stati Uniti è
tanto forte da risultare certezza. Infatti non hanno nulla di diplomatico le
recenti dichiarazioni dello speaker
del Parlamento iraniano, Ali Larijani, per il quale il terrorismo è diventato
uno strumento di Washington; o del generale Mohammad Reza Naghdi; egli senza
peli sulla lingua ha sostenuto che i jihadisti
«in diversi Stati regionali, specialmente in Siria e Iraq, sono finanziati dagli Stati Uniti (...) e gli Stati Uniti li stanno manipolando per distorcere l’immagine dell’Islam e dei musulmani”.
Per
l’Iran la situazione attuale va affrontata con debita accortezza. Innanzi
tutto, se per gli Stati Uniti il premier iracheno al-Maliki è da buttare, per
quanto abbia vinto elezioni regolari, essendo ritenuto il responsabile unico
del precipitare degli eventi nel suo paese (e lasciamo stare che se davvero
dietro questo precipitare ci fosse pure lo zampino statunitense ci troveremmo
di fronte a una mistificazione aberrante). Per Teheran, invece, l’atteggiamento
è ben diverso. Infatti, nella presente situazione politico-militare un
eventuale ammorbidimento di al-Maliki, nel senso di formare un governo non solo
sciita, potrebbe essere preferibile a un cambio di cavallo in corsa, che non
necessariamente darebbe maggiori garanzie.
Circoli
iraniani prossimi ai Pasdaran vedono
nella situazione irachena una maggiore opportunità. L’inerzia statunitense,
cioè, rafforzerà i legami tra Iran e Iraq, e porterà Baghdad a rafforzare
ulteriormente i legami con Teheran e Mosca (e difatti gli aerei recentemente
inviati dalla Russia hanno mostrato tutta la loro utilità). La medaglia ha però
un rovescio: l’Iran, già impegnato in Siria, potrebbe finire anche in Iraq
coinvolto in un conflitto di lunga durata, col rischio di impegnarsi su due
fronti; senza peraltro trascurare che gli eventi potrebbero evolversi nel senso
di impegni ulteriori. Cosa auspicata dai nemici di Teheran. Allora toccherebbe
alla Russia aumentare il proprio impegno. E magari anche alla Cina.
Ma
l’Iraq non può cadere come i Sauditi vorrebbero. Oltre al fattore
storico-religioso-politico, e alla perdita del collegamento territoriale tra
Iraq e Siria a seguito dell’avanzata jihadista, c’è che si tratta di un paese
il cui interscambio commerciale con l’Iran è stato di almeno 13 miliardi
dollari solo nello scorso anno. L’importanza del partenariato iracheno è
altresì rivelata dal progetto (ora evidentemente messo nel cassetto) per la
creazione di condutture per 67 miglia al fine di fornire all’Iraq dai 3 ai 4
milioni di metri cubi di gas naturale al giorno, con un guadagno per l’Iran di
circa 3,7 miliardi dollari all’anno. Resta da interrogarsi sulle ulteriori
modalità dell’intervento iraniano in Iraq.
Sul
piano preventivo vanno considerate le 10 divisioni terrestri poste al confine
con l’Iraq, più squadriglie di aerei pronte a intervenire in caso di
avvicinamento jihadista a meno di 60 chilometri dalla frontiera. Ovviamente
questo dispositivo andrebbe a operare in territorio iracheno se fossero in
pericolo i santuari sciiti (oltre all’obbligo morale se ne sarebbe anche uno
giuridico: il trattato di Qasr-e Shirin, del 1723 fra impero ottomano e persiano).
In
atto sembra che due battaglioni delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane si
trovino in Iraq: a Baghdad ci sarebbero 500 Pasdaran e a Diyala 1.500 miliziani,
sembra per difendere Samarra (a 100 chilometri da Baghdad) e aiutare nella riconquista di Tikrit. Il governo iraniano lo nega,
ma questo vuol dire poco e niente. A ogni buon conto il generale dei Pasdaran Qasem
Soleimani si è recato varie volte a Baghdad. L’Iran può contare anche sulla
milizia di Asa’ib Ahl
al-Haq (Lega dei Giusti), sulla brigata al-Badr, a suo tempo disciolta ma ora ricomparsa sotto la guida del
capo del Consiglio Supremo Islamico dell’Iraq, Sayyid Ammar
al-Hakim, e sull’Esercito del Mahdi (Jaish
al-Mahdi) di Muqtada as-Sadr. Allo
stato delle cose, cioè in assenza di effettiva minaccia su Baghdad e/o le città
sante di Najaf e Karbala, questo dispositivo dovrebbe bastare.
Sulla
stampa internazionale si è fantasticato su una possibile azione congiunta
statunitense-iraniana in Iraq. A prescindere da ogni altro aspetto, la
convenienza sarebbe del tutto nulla per l’Iran, che non a caso sta evitando di
far apparire il presente conflitto iracheno come un mero scontro settario fra
Sunniti e Sciiti (che lo sia veramente, è altro discorso). Infatti, questa
ipotetica azione congiunta sarebbe sfruttata dalla propaganda avversaria come
frutto palese di un complotto tra sciiti e cristiani in funzione antisunnita. Per
non parlare poi dell’assoluta mancanza d’interesse degli Iraniani per un
ritorno di militari statunitensi sul suolo iracheno. Non è causale che il
generale Soleimani, alle brutte, preferirebbe impiegare in modo massiccio le milizie
sciite.
Ma il “Califfato” è davvero così
forte?
In
un’intervista riportata il 30 giugno da Reseau
International, il generale libanese Hoteit dà una versione dell’avanzata
jihadista in Iraq che conferma le opinioni di quanti l’hanno definita più che “resistibile”.
Alla domanda se non tema che i miliziani del “Califfato” si espandano fino ad
arrivare in Libano, ha risposto:
«Consideriamo gli eventi per come sono e non cadiamo nelle trappole mediatiche occidentali, che ci fanno credere che il Siil sia una forza gigantesca contro cui non possiamo resistere. Non è vero. (…) Abbiamo sufficienti informazioni sulla forza dell’organizzazione. (…) Perché abbiamo infatti assistito a una sceneggiata! Lo sapevate che 25.000 uomini della polizia e dell’esercito dello Stato iracheno erano presenti a Mossul e il Siil aveva solo 500 combattenti? Pertanto, ciò che è successo a Mossul non è una guerra, ma tradimento e capitolazione associati a una guerra mediatica condotta dai canali TV al-Jazeera (qatariota) e al-Arabiya (saudita) che annunciarono la capitolazione di Mossul sei ore prima della sua caduta reale! Esattamente come nel precedente di Bab al-Aziziyah in Libia, quando annunciarono la sconfitta di Muammar Gheddafi tre giorni prima della caduta e la morte tre giorni prima dell’assassinio. Nel caso di “guerra psicologica”, la regola è che gran parte della popolazione sia immersa nella “nebbia media”, in attesa di vedere chi sia il più forte per decidere da che parte stare».
Quindi
si tratterebbe di una realtà in sé militarmente insignificante. La questione
dell’esistenza o meno della mano statunitense dietro i jihadisti di al-Baghdadi
trova obiettivamente risposte antitetiche, tra chi lo nega (considerandola
assurda) e chi invece la sostiene. È giusto prenderne atto, ma non va
trascurato un particolare: chi nega
l’ipotesi di cui trattasi fornisce ragionamenti, mentre chi la sostiene
fornisce fatti. È il caso del periodico Der
Spiegel (non certo tacciabile di fantasiosità), che a marzo dello scorso
anno parlò di istruttori statunitensi all’opera dal febbraio 2012 nella base di
Safawi, nella Giordania settentrionale. In teoria si sarebbe trattato di
addestramento di ribelli “moderati” da impiegare in Siria, ma sembra che vi
abbiano “studiato” anche elementi dello Stato Islamico dell’Iraq e Levante
(Siil). In seguito il britannico Guardian
rivelò la presenza di istruttori anglo-francesi all’opera in un’altra base
giordana. Successivamente ancora è emersa l’esistenza di un altro centro di
addestramento, per militanti del Siil presso la base aerea turca di Incirlik. A
livello di ragionamento, infine, se si considera la sostanziale inazione
statunitense verso la nuova ondata di sovversione in Iraq (senza l’arrivo di
aerei russi oggi al-Maliki starebbe ancora aspettando invano quelli
statunitensi) certo è che i sospetti si ingigantiscono.
Resta
il fatto che l’alleanza fra seguaci di Saddam e jihadisti non è affatto una
novità: cominciò a essere operativa agli esordi della lotta armata sunnita
contro gli invasori occidentali.
Le manovre statunitensi
continuano
I
bilanci sono sempre fonti utilissime per comprendere cosa si stia preparando. Alla
fine di giugno Obama ha presentato al Congresso il budget per il 2015 sulle attività diplomatiche e militari
all’estero (la Overseas Contingency
Operations - Oco), pari a 65,8 miliardi. Di questi, 5 miliardi sono
destinati alla creazione di un Fondo di partenariato contro il terrorismo; 3
miliardi per addestrare in loco forze antiterrorismo e lottare contro non
meglio specificate “ideologie radicali” e promuovere modi “democratici” di
governo; 1,5 miliardi per prevenire
l’estendersi del conflitto siriano; 0,5 miliardi per «addestrare ed
equipaggiare gli elementi controllati dell’opposizione armata siriana per
aiutare a difendere il popolo siriano, stabilizzare le aree sotto il controllo
dell’opposizione, facilitare la fornitura di servizi essenziali, contrastare le
minacce terroristiche, e promuovere le condizioni per una «soluzione
negoziata»; 0,5 miliardi saranno
conservati per affrontare nuove situazioni di crisi.
Riguardo
alla Siria non si capisce il significato dell’obiettivo di stabilizzare le aree
sotto il controllo dell’opposizione. O meglio, viene il sospetto che sotto ci
sia l’obiettivo di creare uno Stato separato sotto il controllo
dell’opposizione siriana “moderata”. Tuttavia l’obiezione fondamentale è che le
zone di cui trattasi oggi sono poche, piccole e separate fra loro. A meno che
non si vogliano creare situazioni similari a quella che volle Israele nel sud
del Libano utilizzando i Maroniti: potrebbe trattarsi di zone di sicurezza alla
frontiera con Israele e con la Turchia. Il che sarebbe in linea con quanto
affermato da Obama il 20 giugno alla Cbs:
«Penso che questa idea che ci fosse una forza siriana moderata in grado di sconfiggere Assad semplicemente non sia vera, e voi lo sapete, abbiamo passato molto tempo a cercare di lavorare con un’opposizione moderata in Siria (...) L’idea che fosse in grado di rovesciare improvvisamente non solo Assad, ma anche degli spietati jihadisti, altamente qualificati, a condizione che le inviassimo alcune armi è una fantasia (…)».
Questo
discorso conferma varie cose: il carattere etero-diretto dell’opposizione
siriana “moderata”; la raggiunta consapevolezza dell’estrema difficoltà di
abbattere al-Assad; il persistere nel non mollare la presa; la costante
priorità data alla protezione di Israele. Va pure notato che l’obiettivo della
costituzione di queste due zone di sicurezza risponde a due esigenze
strategiche: costituire una sorta di tenaglia da cui eventualmente ripartire
contro al-Assad, e insieme contribuire alla vecchia esigenza israeliana di
disporre di fasce territoriali di protezione, meglio ancora se “allargata”,
cioè non attorno agli stessi confini di Israele (anche la neonata costituzione
dello Stato del Sud Sudan – già fallito alla sua nascita e subito in preda a
guerra civile – corrisponde a questa esigenza). Sul sito “Rete Voltaire” il
giornalista Thierry Meyssan sostiene che, per questa e altre ragioni,
«Nel corso della riunione a porte chiuse durante la quale il Segretario della Difesa Chuck Hagel e il Capo di Stato Maggiore, il generale Martin Dempsey, sono andati a spiegare ai parlamentari del Congresso la situazione in Iraq, non solo hanno preteso di aver perso il dossier su Abu Bakr al-Baghdadi (e quindi di ignorare perché lo avevano arrestato nel 2004 e perché lo hanno rilasciato pochi mesi dopo), ma hanno ammesso di non avere alcun piano di intervento e di lasciare il campo completamente libero all’Emirato islamico e al Kurdistan».
Ma non dimentichiamo i Curdi
La
causa curda ha sempre suscitato simpatie, non foss’altro per le indicibili
sofferenze di questo popolo dagli inizi del secolo XX. Pur tuttavia
sarebbe ingenuo considerarli i
personaggi “buoni” della storia; pur lasciando da parte la loro volontaria ed
entusiastica partecipazione al genocidio armeno, ad attestarlo ci sono anche le
sanguinose e spietate faide politiche interne che li hanno caratterizzati per
la disunione anche a fronte dei nemici.
Oggi
i Curdi dell’Iraq stanno giocando in modo spregiudicato e pragmatico le proprie
manovre a tutto campo. Impadronitisi dei pozzi di Kirkuk e di Bai Hassan – con la scusa ufficiale
di proteggerli nell’attuale caotica situazione – si sono affrettati a espellere
i lavoratori arabi, cominciando a reiterare in proprio le pulizie etniche di
cui erano stati vittime fino a poco fa. Inoltre è in corso
un riavvicinamento reciproco con la Turchia per evidenti ragioni economiche legate
all’interscambio commerciale col Kurdistan iracheno e per ragioni politiche
interne. Di recente Erdoğan
ha fatto votare dal Parlamento di Ankara l’autorizzazione a negoziare con i Curdi
della Turchia, con il “presente” per cui i parlamentari curdi che opereranno
per il disarmo dei guerriglieri del Pkk saranno esenti da procedimenti
giudiziari: chiaramente l’iniziativa mira a lucrare un bel po’ di voti curdi
alle vicine elezioni presidenziali in cui Erdoğan è candidato. In più si va costituendo una specie di asse fra il Kurdistan iracheno e
Israele, in Italia subito entusiasticamente salutato da un organo filosionista
come Il Foglio. Sul futuro unitario
dell’Iraq non c’è da farsi illusioni.
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