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venerdì 18 luglio 2014

LA FRANTUMAZIONE DI VICINO E MEDIO ORIENTE, di Pier Francesco Zarcone

Un caos propagabile
Nulla sarà più come prima. È una predizione assai facile, in base allo stato di disfacimento politico in cui oggi si trova tutta l’area che va dalla Libia all’Afghanistan, come al solito grazie all’imperialismo occidentale. Gli Stati più o meno artificiali creati dai vincitori della Prima guerra mondiale, spartendosi il defunto Impero ottomano attraverso la mistificazione dei “mandati”, potrebbero scomparire o comunque potrebbero nascere nuove linee di frontiera. Né vanno trascurati entità precarie come il Pakistan (originariamente addirittura distinto in due parti lontanissime fra loro, di cui quella orientale sarebbe poi divenuto il Bangla Desh) e l’Afghanistan, che obiettivamente è sempre stato un caso a parte, più o meno tenuto insieme da dinastie la cui forza derivava da accorti equilibrismi tra i componenti di un complicato mosaico etnico-religioso e tribale. Ciò almeno fino a che nel lontano 1973 il re Zahir Shah non venne spodestato dal cugino Sardar Muhammad Daud che proclamò la repubblica; le successive occupazioni sovietica e statunitense hanno però definitivamente scompigliato le tessere del puzzle con cui si può metaforicamente identificare quel paese.
Tutto si complica inevitabilmente quando, con estrema miopia ammantata da cinica furbizia, gli imperialisti utilizzano proprio l’estremismo islamico per destabilizzare e dominare. Il caos afghano è sotto gli occhi di tutti, e dopo il ritiro degli occupanti occidentali le cose andranno anche peggio. Il Pakistan, oltre ai suoi problemi endogeni è alle prese con la sovversione jihadista originariamente creata da quel mix fra incoscienza e autolesionismo che caratterizza da tempo la politica statunitense. Lo stato di decomposizione degli altri paesi del Vicino e Medio Oriente è del pari palese: la Libia è nel caos e lo Stato unitario appartiene al passato; in Siria, quand’anche l’esercito regolare abbia ormai ripreso l’offensiva con ricorrenti successi, la guerra si prolunga e tutto sommato il rischio di un intervento statunitense è ancora pendente, seppure la diplomazia russa lo abbia allontanato - comunque al-Assad è stato rieletto Presidente con un risultato formale per lui più che soddisfacente (ha votato il 73,42% degli elettori e ha ottenuto l’88,7% dei voti); difficilmente il governo di Baghdad potrà evitare che il distacco del Kurdistan divenga definitivo (a prescindere da come ciò si formalizzerà) e riportare sotto il suo controllo le zone a maggioranza sunnita; infine il Libano è più instabile che mai per i contraccolpi interni dei conflitti regionali in corso.

La Giordania
Con la creazione di un sia pur velleitario “califfato” sunnita tra Iraq e Siria, la Giordania è a rischio immediato, e senza l’interessato e pericoloso aiuto di Washington, re Abdallah non potrà restare sul trono; e comunque è da vedere in quali condizioni. Già nel suo territorio si è rifugiato almeno un milione di profughi siriani, e sulla loro impermeabilità alla propaganda jihadista non c’è da fare sottovalutazioni. Il sud del paese è fondamentalista, e almeno 2.500 giordani combattono in Siria e in Iraq tra i jihadisti. Secondo stampa statunitense l’amministrazione Obama non ritiene la Giordania in grado di resistere se si verificasse un’espansione jihadista; e allora? La monarchia, tradizionale alleata degli Stati Uniti, oltre a rivolgersi a questo suo protettore potrebbe anche avere l’aiuto di Israele; e secondo il giornale israeliano Haaretz, il governo di Netanyhau avrebbe già assicurato agli Stati Uniti la sua disponibilità a intervenire, se necessario, per il “salvataggio” della Giordania. In una simile ipotesi Abdallah salverebbe momentaneamente il trono, ma lo manterrebbe solo grazie ai carri armati israeliani. Lui, discendente del Profeta, e nell’attuale situazione globale del mondo islamico. Figuriamoci!
Per completare il quadro non vanno trascurati Egitto, Palestina, Arabia Saudita e Iran. Il primo di questi paesi ancora non è sotto il pieno controllo dell’uomo “forte” del momento, il generale al-Sissi, oggi Presidente; e gli eventi iracheni sono ben suscettibili di dare ulteriore fiato all’opposizione cruenta degli estremisti islamici. Il futuro prossimo sarà quindi assai agitato.

Palestina
La Palestina è un caso sempre più tragico. Le prospettive di pace sono svanite, poiché l’unica forza virtualmente in grado di costringere Israele a ridurre pretese e arroganza – cioè gli Stati Uniti – non è in grado di farlo: nessun presidente si farebbe carico della sicura sconfitta del suo partito qualora si alienasse la lobby elettorale sionista. In più entrambe le leaderships politiche palestinesi – al-Fatah e Hamas - sono al collasso, sia pure per motivi diversi. Il recente “governo di unità nazionale” fra Abu Mazen e Hamas sembra più un pio tentativo che una vera e propria realtà; e Abu Mazen è prossimo a diventare il poliziotto d’Israele, se già non lo sia, ma ovviamente senza portare risultato alcuno al suo popolo. La crisi causata dall’omicidio dei tre ragazzi israeliani lo ha messo del tutto nell’angolo e ormai conta meno di quel meno che contava prima. Hamas – pur con il suo attuale apparato missilistico (in grado di arrivare fino ad Haifa) – non ha certo la stessa forza militare dimostrata a suo tempo dall’Hezbollah libanese.
Inoltre, proprio i predetti tre omicidi dimostrano la sua perdita di controllo sulla galassia islamista. Attribuirgli la responsabilità di quel tragico evento, come ha fatto Netanyahu, sa di mera e opportunistica propaganda: secondo Limes la responsabilità sarebbe di membri della concorrente tribù Qawasameh, di Hebron, che non da ieri opererebbero per screditare e danneggiare proprio il ruolo di Hamas come guida islamica. Una differenza fra Abu Manzel e Hamas sta nel fatto che mentre il primo non è più un interlocutore politico significativo, Hamas invece ha realizzato un forte gioco diplomatico esterno, ma puntando su un cavallo risultato perdente: infatti, si era schierato soprattutto con la Fratellanza Musulmana, ma pure con la Turchia e il Qatar, alienandosi i precedenti appoggi siriano, libanese e iraniano. Di questa situazione di debolezza hanno approfittato Jihad Islamica (5.000 uomini, contro i 20.000 di Hamas), Comitati di Resistenza Popolare e vari gruppi radicali. Caduto Morsi, il rapporto con l’Egitto è finito, e in più Hamas ha cominciato a corteggiare i ribelli islamisti nel Sinai di Ansar Bayt al-Maqdis, contro cui sta combattendo l’esercito egiziano. In queste condizioni tali dirigenze, a tutti i fini, è come se non esistessero.
L’attuale aggressione israeliana a Gaza - che ancora una volta Washington non può e non vuole impedire per i soliti motivi elettoralistici - in sé e la sproporzione delle vittime civili finora provocate dall’aviazione di Israele in rapporto al numero dei ragazzi israeliani uccisi, sono elementi che complicano il quadro, rinfocolando odi e soprattutto attirando ulteriori islamici arrabbiati nelle fila jihadiste. Proprio in questo momento!

L’Arabia Saudita
Dal canto suo la dirigenza saudita sta svolgendo da tempo un gioco destabilizzante ma altresì pericolosissimo, in quanto rischia di diventare un boomerang. Essa, cioè, sta palesemente dietro alla sovversione jihadista diffusa in tutto il mondo islamico, e in Iraq tiene le fila di una manovra strategica orientata, sul piano economico, a che i suoi alleati jihadisti si impadroniscano quanto più possibile dei centri petroliferi iracheni e, sul piano politico, all’indebolimento degli Sciiti locali. Ma stando così le cose, il problema è se, e fino a che punto, i Sauditi siano in grado di evitare che la furia jihadista si volga anche contro di loro,  visto che il loro comportamento non è del tutto in linea col rigorismo islamico di cui i jihadisti si dicono fautori. Il dubbio è più che legittimo, anche tenuto conto degli esiti delle manovre statunitensi passate e odierne.

L’Iran nel mirino
Gli odierni eventi in Iraq sono chiaramente diretti anche contro l’Iran, centro dello Sciismo mondiale, insieme a quelli siriani. Può darsi che l’entità sunnita creata dai jihadisti non resti nelle loro mani definitivamente e che i superstiti seguaci di Saddam Husayn se ne impadroniscano, e può darsi pure che in Siria le truppe di al-Assad riescano a riconquistare i territori orientali oggi ancora in mani jihadiste. Tuttavia è azzardato pensare che l’entità sunnita oggi costituita venga eliminata in tempi brevi, tanto più che essa non è contraria (in quanto tale) agli interessi statunitensi nell’area. Dando per scontata la permanenza di tale entità, c’è da chiedersi (un po’ retoricamente, a dire il vero) se non rientri tra gli obiettivi di essa (e dei loro sponsor sauditi) l’estensione della spinta sunnita anche verso il confinante Khuzistan iraniano: territorio a maggioranza araba e sunnita, e con forte concentrazione di pozzi petroliferi.
È fuori dubbio che l’Iran strategicamente non può consentire, e non consentirà senza intervenire (direttamente o no), né la sconfitta di al-Assad né quella degli Sciiti iracheni, essendo in gioco sia l’asse dell’alleanza sciita in Oriente, sia la difesa dei maggiori santuari della storia sciita; e a fortiori non lascerà impunite azioni entro i suoi confini. Alle brutte Teheran potrebbe sempre cercare di “compensare” i debordamenti sunniti decidendosi a fornire maggiori sostegni agli Sciiti dell’Arabia Saudita (oltre tutto concentrati in zona ad alta concentrazione di pozzi petroliferi) e a quelli del Bahrayn (dove sono maggioritari).
Sta di fatto che oggi per l’Iran gli Stati Uniti si sono spostati sullo sfondo come “grandi nemici” immediati, mentre tale è diventata l’Arabia Saudita nel grande arco geopolitico che comprende Libano, Siria, Iraq, Golfo Persico, Pakistan, Afghanistan e Khuzistan; per non tacere dell’Opec.  
In Iran – e fra i loro alleati, ma non solo – il sospetto che le manovre saudite non avvengano senza il consenso e/o la compartecipazione degli Stati Uniti è tanto forte da risultare certezza. Infatti non hanno nulla di diplomatico le recenti dichiarazioni dello speaker del Parlamento iraniano, Ali Larijani, per il quale il terrorismo è diventato uno strumento di Washington; o del generale Mohammad Reza Naghdi; egli senza peli sulla lingua ha sostenuto che i jihadisti
«in diversi Stati regionali, specialmente in Siria e Iraq, sono finanziati dagli Stati Uniti (...) e gli Stati Uniti li stanno manipolando per distorcere l’immagine dell’Islam e dei musulmani”. 
Per l’Iran la situazione attuale va affrontata con debita accortezza. Innanzi tutto, se per gli Stati Uniti il premier iracheno al-Maliki è da buttare, per quanto abbia vinto elezioni regolari, essendo ritenuto il responsabile unico del precipitare degli eventi nel suo paese (e lasciamo stare che se davvero dietro questo precipitare ci fosse pure lo zampino statunitense ci troveremmo di fronte a una mistificazione aberrante). Per Teheran, invece, l’atteggiamento è ben diverso. Infatti, nella presente situazione politico-militare un eventuale ammorbidimento di al-Maliki, nel senso di formare un governo non solo sciita, potrebbe essere preferibile a un cambio di cavallo in corsa, che non necessariamente darebbe maggiori garanzie.
Circoli iraniani prossimi ai Pasdaran vedono nella situazione irachena una maggiore opportunità. L’inerzia statunitense, cioè, rafforzerà i legami tra Iran e Iraq, e porterà Baghdad a rafforzare ulteriormente i legami con Teheran e Mosca (e difatti gli aerei recentemente inviati dalla Russia hanno mostrato tutta la loro utilità). La medaglia ha però un rovescio: l’Iran, già impegnato in Siria, potrebbe finire anche in Iraq coinvolto in un conflitto di lunga durata, col rischio di impegnarsi su due fronti; senza peraltro trascurare che gli eventi potrebbero evolversi nel senso di impegni ulteriori. Cosa auspicata dai nemici di Teheran. Allora toccherebbe alla Russia aumentare il proprio impegno. E magari anche alla Cina.
Ma l’Iraq non può cadere come i Sauditi vorrebbero. Oltre al fattore storico-religioso-politico, e alla perdita del collegamento territoriale tra Iraq e Siria a seguito dell’avanzata jihadista, c’è che si tratta di un paese il cui interscambio commerciale con l’Iran è stato di almeno 13 miliardi dollari solo nello scorso anno. L’importanza del partenariato iracheno è altresì rivelata dal progetto (ora evidentemente messo nel cassetto) per la creazione di condutture per 67 miglia al fine di fornire all’Iraq dai 3 ai 4 milioni di metri cubi di gas naturale al giorno, con un guadagno per l’Iran di circa 3,7 miliardi dollari all’anno. Resta da interrogarsi sulle ulteriori modalità dell’intervento iraniano in Iraq.
Sul piano preventivo vanno considerate le 10 divisioni terrestri poste al confine con l’Iraq, più squadriglie di aerei pronte a intervenire in caso di avvicinamento jihadista a meno di 60 chilometri dalla frontiera. Ovviamente questo dispositivo andrebbe a operare in territorio iracheno se fossero in pericolo i santuari sciiti (oltre all’obbligo morale se ne sarebbe anche uno giuridico: il trattato di Qasr-e Shirin, del 1723 fra impero ottomano e persiano).
In atto sembra che due battaglioni delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane si trovino in Iraq: a Baghdad ci sarebbero 500 Pasdaran e a Diyala 1.500 miliziani, sembra per difendere Samarra (a 100 chilometri da Baghdad) e aiutare nella  riconquista di Tikrit. Il governo iraniano lo nega, ma questo vuol dire poco e niente. A ogni buon conto il generale dei Pasdaran Qasem Soleimani si è recato varie volte a Baghdad. L’Iran può contare anche sulla milizia di Asa’ib Ahl al-Haq (Lega dei Giusti), sulla brigata al-Badr, a suo tempo disciolta ma ora ricomparsa sotto la guida del capo del Consiglio Supremo Islamico dell’Iraq, Sayyid Ammar al-Hakim, e sull’Esercito del Mahdi (Jaish al-Mahdi) di  Muqtada as-Sadr. Allo stato delle cose, cioè in assenza di effettiva minaccia su Baghdad e/o le città sante di Najaf e Karbala, questo dispositivo dovrebbe bastare.
Sulla stampa internazionale si è fantasticato su una possibile azione congiunta statunitense-iraniana in Iraq. A prescindere da ogni altro aspetto, la convenienza sarebbe del tutto nulla per l’Iran, che non a caso sta evitando di far apparire il presente conflitto iracheno come un mero scontro settario fra Sunniti e Sciiti (che lo sia veramente, è altro discorso). Infatti, questa ipotetica azione congiunta sarebbe sfruttata dalla propaganda avversaria come frutto palese di un complotto tra sciiti e cristiani in funzione antisunnita. Per non parlare poi dell’assoluta mancanza d’interesse degli Iraniani per un ritorno di militari statunitensi sul suolo iracheno. Non è causale che il generale Soleimani, alle brutte, preferirebbe impiegare in modo massiccio le milizie sciite.  

Ma il “Califfato” è davvero così forte?
In un’intervista riportata il 30 giugno da Reseau International, il generale libanese Hoteit dà una versione dell’avanzata jihadista in Iraq che conferma le opinioni di quanti l’hanno definita più che “resistibile”. Alla domanda se non tema che i miliziani del “Califfato” si espandano fino ad arrivare in Libano, ha risposto:
«Consideriamo gli eventi per come sono e non cadiamo nelle trappole mediatiche occidentali, che ci fanno credere che il Siil sia una forza gigantesca contro cui non possiamo resistere. Non è vero. (…) Abbiamo sufficienti informazioni sulla forza dell’organizzazione. (…) Perché abbiamo infatti assistito a una sceneggiata! Lo sapevate che 25.000 uomini della polizia e dell’esercito dello Stato iracheno erano presenti a Mossul e il Siil aveva solo 500 combattenti? Pertanto, ciò che è successo a Mossul non è una guerra, ma tradimento e capitolazione associati a una guerra mediatica condotta dai canali TV al-Jazeera (qatariota) e al-Arabiya (saudita) che annunciarono la capitolazione di Mossul sei ore prima della sua caduta reale! Esattamente come nel precedente di Bab al-Aziziyah in Libia, quando annunciarono la sconfitta di Muammar Gheddafi tre giorni prima della caduta e la morte tre giorni prima dell’assassinio. Nel caso di “guerra psicologica”, la regola è che gran parte della popolazione sia immersa nella “nebbia media”, in attesa di vedere chi sia il più forte per decidere da che parte stare».   
Quindi si tratterebbe di una realtà in sé militarmente insignificante. La questione dell’esistenza o meno della mano statunitense dietro i jihadisti di al-Baghdadi trova obiettivamente risposte antitetiche, tra chi lo nega (considerandola assurda) e chi invece la sostiene. È giusto prenderne atto, ma non va trascurato un  particolare: chi nega l’ipotesi di cui trattasi fornisce ragionamenti, mentre chi la sostiene fornisce fatti. È il caso del periodico Der Spiegel (non certo tacciabile di fantasiosità), che a marzo dello scorso anno parlò di istruttori statunitensi all’opera dal febbraio 2012 nella base di Safawi, nella Giordania settentrionale. In teoria si sarebbe trattato di addestramento di ribelli “moderati” da impiegare in Siria, ma sembra che vi abbiano “studiato” anche elementi dello Stato Islamico dell’Iraq e Levante (Siil). In seguito il britannico Guardian rivelò la presenza di istruttori anglo-francesi all’opera in un’altra base giordana. Successivamente ancora è emersa l’esistenza di un altro centro di addestramento, per militanti del Siil presso la base aerea turca di Incirlik. A livello di ragionamento, infine, se si considera la sostanziale inazione statunitense verso la nuova ondata di sovversione in Iraq (senza l’arrivo di aerei russi oggi al-Maliki starebbe ancora aspettando invano quelli statunitensi) certo è che i sospetti si ingigantiscono.
Resta il fatto che l’alleanza fra seguaci di Saddam e jihadisti non è affatto una novità: cominciò a essere operativa agli esordi della lotta armata sunnita contro gli invasori occidentali.

Le manovre statunitensi continuano
I bilanci sono sempre fonti utilissime per comprendere cosa si stia preparando. Alla fine di giugno Obama ha presentato al Congresso il budget per il 2015 sulle attività diplomatiche e militari all’estero (la Overseas Contingency Operations - Oco), pari a 65,8 miliardi. Di questi, 5 miliardi sono destinati alla creazione di un Fondo di partenariato contro il terrorismo; 3 miliardi per addestrare in loco forze antiterrorismo e lottare contro non meglio specificate “ideologie radicali” e promuovere modi “democratici” di governo; 1,5 miliardi per prevenire l’estendersi del conflitto siriano; 0,5 miliardi per «addestrare ed equipaggiare gli elementi controllati dell’opposizione armata siriana per aiutare a difendere il popolo siriano, stabilizzare le aree sotto il controllo dell’opposizione, facilitare la fornitura di servizi essenziali, contrastare le minacce terroristiche, e promuovere le condizioni per una «soluzione negoziata»;  0,5 miliardi saranno conservati per affrontare nuove situazioni di crisi.
Riguardo alla Siria non si capisce il significato dell’obiettivo di stabilizzare le aree sotto il controllo dell’opposizione. O meglio, viene il sospetto che sotto ci sia l’obiettivo di creare uno Stato separato sotto il controllo dell’opposizione siriana “moderata”. Tuttavia l’obiezione fondamentale è che le zone di cui trattasi oggi sono poche, piccole e separate fra loro. A meno che non si vogliano creare situazioni similari a quella che volle Israele nel sud del Libano utilizzando i Maroniti: potrebbe trattarsi di zone di sicurezza alla frontiera con Israele e con la Turchia. Il che sarebbe in linea con quanto affermato da Obama il 20 giugno alla Cbs:
«Penso che questa idea che ci fosse una forza siriana moderata in grado di sconfiggere Assad semplicemente non sia vera, e voi lo sapete, abbiamo passato molto tempo a cercare di lavorare con un’opposizione moderata in Siria (...) L’idea che fosse in grado di rovesciare improvvisamente non solo Assad, ma anche degli spietati jihadisti, altamente qualificati, a condizione che le inviassimo alcune armi è una fantasia (…)».
Questo discorso conferma varie cose: il carattere etero-diretto dell’opposizione siriana “moderata”; la raggiunta consapevolezza dell’estrema difficoltà di abbattere al-Assad; il persistere nel non mollare la presa; la costante priorità data alla protezione di Israele. Va pure notato che l’obiettivo della costituzione di queste due zone di sicurezza risponde a due esigenze strategiche: costituire una sorta di tenaglia da cui eventualmente ripartire contro al-Assad, e insieme contribuire alla vecchia esigenza israeliana di disporre di fasce territoriali di protezione, meglio ancora se “allargata”, cioè non attorno agli stessi confini di Israele (anche la neonata costituzione dello Stato del Sud Sudan – già fallito alla sua nascita e subito in preda a guerra civile – corrisponde a questa esigenza). Sul sito “Rete Voltaire” il giornalista Thierry Meyssan sostiene che, per questa e altre ragioni,
«Nel corso della riunione a porte chiuse durante la quale il Segretario della Difesa Chuck Hagel e il Capo di Stato Maggiore, il generale Martin Dempsey, sono andati a spiegare ai parlamentari del Congresso la situazione in Iraq, non solo hanno preteso di aver perso il dossier su Abu Bakr al-Baghdadi (e quindi di ignorare perché lo avevano arrestato nel 2004 e perché lo hanno rilasciato pochi mesi dopo), ma hanno ammesso di non avere alcun piano di intervento e di lasciare il campo completamente libero all’Emirato islamico e al Kurdistan».

Ma non dimentichiamo i Curdi
La causa curda ha sempre suscitato simpatie, non foss’altro per le indicibili sofferenze di questo popolo dagli inizi del secolo XX. Pur tuttavia sarebbe  ingenuo considerarli i personaggi “buoni” della storia; pur lasciando da parte la loro volontaria ed entusiastica partecipazione al genocidio armeno, ad attestarlo ci sono anche le sanguinose e spietate faide politiche interne che li hanno caratterizzati per la disunione anche a fronte dei nemici.

Oggi i Curdi dell’Iraq stanno giocando in modo spregiudicato e pragmatico le proprie manovre a tutto campo. Impadronitisi dei pozzi di Kirkuk e di Bai Hassan – con la scusa ufficiale di proteggerli nell’attuale caotica situazione – si sono affrettati a espellere i lavoratori arabi, cominciando a reiterare in proprio le pulizie etniche di cui erano stati vittime fino a poco fa. Inoltre è in corso un riavvicinamento reciproco con la Turchia per evidenti ragioni economiche legate all’interscambio commerciale col Kurdistan iracheno e per ragioni politiche interne. Di recente Erdoğan ha fatto votare dal Parlamento di Ankara l’autorizzazione a negoziare con i Curdi della Turchia, con il “presente” per cui i parlamentari curdi che opereranno per il disarmo dei guerriglieri del Pkk saranno esenti da procedimenti giudiziari: chiaramente l’iniziativa mira a lucrare un bel po’ di voti curdi alle vicine elezioni presidenziali in cui Erdoğan è candidato. In più si va costituendo una specie di asse fra il Kurdistan iracheno e Israele, in Italia subito entusiasticamente salutato da un organo filosionista come Il Foglio. Sul futuro unitario dell’Iraq non c’è da farsi illusioni. 

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