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mercoledì 18 giugno 2014

LA CATASTROFE IRACHENA: GRAZIE WASHINGTON!, di Pier Francesco Zarcone

Indipendentemente da come si evolveranno le cose sul piano militare, è possibile un primo bilancio sull’enorme crisi che sta sconvolgendo l’Iraq. Qui emergono in tutta la loro tragicità le catastrofiche conseguenze della dissennata politica statunitense, capace di  produrre costi umani di immane portata, ma incapace di realizzare altresì i propri interessi imperialistici, creando un mare di guai per gli Iracheni e per il mondo intero. Lo squagliamento del nuovo esercito di Baghdad addestrato dagli Stati Uniti (quello di Saddam Husayn fu sciolto dagli Usa subito dopo la conquista dell’Iraq) tratteggia quanto accadrà domani in Afghanistan, col suo logico seguito. In più vanno contati fin d’ora le sanguinose conseguenze del ritorno nei paesi di origine delle migliaia di combattenti jihadisti con passaporti europei. Il massacro al Museo ebraico di Bruxelles è stato, con tutta probabilità, solo un anticipo.

Una polveriera in  fiamme
Tuttavia il vero nucleo del problema sta nel fatto che la sconclusionata azione di Washington, di cui l’attuale insipienza di Obama è il punto di arrivo attuale, provoca la progressiva esplosione dei settori più a rischio della polveriera araba, dall’Africa settentrionale al Vicino e Medio Oriente, e porterà a una terribile deflagrazione finale. Non si dimentichi che solo pochi mesi fa gli Stati Uniti avevano tutta l’intenzione di bombardare la Siria: senza l’escamotage di Putin essi avrebbero consegnato quel paese proprio ai jihadisti che oggi marciano su Baghdad. Sull’irresistibilità di questa marcia ci sarebbe molto da dire, se sono vere le voci che li valutano in circa 30.000 miliziani per lo più armati alla leggera. Tuttavia dai depositi militari abbandonati di corsa dai soldati iracheni sicuramente i jihadisti hanno ricavato materiali qualitativamente consistenti e utilizzabili sia in Iraq sia in Siria.
Per quanto sia stata una sorpresa la rapidissima disintegrazione dell’esercito iracheno, i segnali premonitori di un’azione dei jihadisti c’erano eccome, ma il governo centrale se ne è infischiato, a parte inascoltate richieste di aiuto agli Stati Uniti. A questo punto le male lingue arabe attribuiscono quest’inerzia a un machiavellico gioco del premier sciita Nuri al-Maliki, il quale avrebbe lasciato precipitare la situazione per potersi poi fare attribuire poteri straordinari a tempo indeterminato. Fantapolitica? Gioco rischioso? Non si sa, ma da quelle parti tutto è possibile. Sta di fatto che forse una politica di al-Maliki un po’ meno settariamente antisunnita avrebbe contribuito a migliorare le cose. Invece anche lui ha puntato alla resa dei conti.  
Circa l’estrema gravità della situazione la carta geografica è assai eloquente e rivelatrice.



Per quanto in Siria i jihadisti stiano subendo sempre più i colpi delle truppe di Assad (che a differenza di quelle dell’Iraq non si sono dissolte, pur dopo vari anni di guerra), essi controllano una zona di rilievo in Siria e Iraq che, oltre tutto, si stende lungo il confine meridionale della Turchia. Indipendentemente dal fatto che essi riescano o no a occupare Baghdad, attualmente sono in grado di costituire il loro vagheggiato Stato Islamico di Siria e Levante. Cacciarli da questa specie di triangolo non sarà per niente facile (e non si sa che tipo di appoggio abbiano da tribù locali), e da qui potranno sviluppare un’azione destabilizzante a vasto raggio, sostenuta dalle risorse petrolifere delle zone conquistate, ponendosi come vero protettore dei Sunniti in Iraq, Siria e Libano.
La prospettiva di ulteriore destabilizzazione coinvolge ovviamente il Libano e la Turchia; ma anche il sud sunnita dell’Iran non ne resta teoricamente immune. La situazione, cioè, si fa complessa e intricata.
È difficile che i jihadisti operanti in Mesopotamia non vogliano regolare conti plurisecolari con gli Sciiti locali, cioè la maggioranza della popolazione concentrata per lo più al sud. Già a Baghdad avranno a che fare con loro, e a maggior ragione nel sud. Intanto ci sono gli appelli del Grande Ayatollah al-Sistani perché gli Sciiti si arruolino in massa nell’esercito. Ultimamente si registra la mobilitazione della brigata sciita Asaib Ahl al-Haq, appoggiata dall’Iran e delle milizie della Badr Organization e del Kataib Hezbollah. Non é azzardato prevedere un massacro di grandi proporzioni.
A nord ci sono le milizie dell’autonomo Kurdistan iracheno, i Peshmerga, che già si sono affrettati a occupare la zona di Kirkuk, da cui si trae almeno 1/3 del petrolio iracheno; zona il cui controllo era conteso fra essi e il governo centrale di Baghdad. Lo scontro armato fra Peshmerga e jihadisti è sullo sfondo, e in Siria è in atto da tempo.      
Dal canto suo il governo turco dell’islamico Erdoğan potrà essere costretto a intervenire per evitare l’estendersi del contagio all’Anatolia e in questo caso paradossalmente da un lato si troverà al fianco dei Curdi iracheni, che l’ulteriore precipitare degli eventi non potrà che rafforzare ancor di più; e da un altro lato dovrà scontare il fatto che di certo non rimarranno ibernati (militarmente e politicamente) i curdi turchi dell’Akp, con ulteriori complicazioni.
In più c’è l’Iran sciita, che - tenuto altresì conto dei precedenti libanese e siriano - non potrà assistere indifferente alla frantumazione dell’asse Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah. Si profila nei fatti una collaborazione fra Washington e Teheran? Sarebbe una vera beffa storica, e comunque qualche strizzatina d’occhio statunitense già si vede.

Oggi in primo piano c’è al-Baghdadi (e finanziatori)
I media italici vanno alla ricerca di elementi atti a individuare chi sia oggi in Iraq l’erede di bin Laden e al-Zawahiri. Si tratta di un gioco mediatico tutto sommato fine a se stesso, giacché il problema non sta nel carisma e/o nelle capacità operative del capo di turno, in quanto gli emiri jihadisti vanno e vengono e tutto resta come prima. Infatti, a essere problematico è il jihadismo diffuso, che capta aderenti dentro e fuori dalle zone storiche dell’Islam ed è sempre all’attacco pur con le sue vicende di alterne scissioni e ricomposizioni.
Comunque, oggi sembra che il capo iracheno sia Abu Bakr al-Baghdadi, classe 1971, su cui pende una taglia di 10 milioni di dollari. Con tutta probabilità si tratta del nome di battaglia del dott. Ibrahim Ali al-Samarrai (cioè di Samarra), che aveva preso le armi contro gli invasori statunitensi. Ahimé, catturato nel 2005 proprio dagli statunitensi e chiuso nella prigione di Camp Bucca (presso Basra), nel 2009 era stato messo in libertà nel quadro della pacificazione del generale David Petraeus.
E poi - a monte di questo problema - ci sono gli indispensabili finanziatori, appartenenti alla categoria dei «soliti noti», di cui si parla ma contro cui nulla si fa. Essi si trovano fondamentalmente in Arabia Saudita, nel Qatar e negli altri Emirati del Golfo, giocando ruoli ambigui e differenziati. Si dice che al-Baghdadi operi per conto del principe saudita Abd ar-Rahman al-Faysal (fratello del ministro degli Esteri saudita e ambasciatore saudita a Washington), e comunque pare che da circa un mese i suoi miliziani ricevano armamenti dall’Ucraina - dove i sauditi hanno comprato una fabbrica di armi e hanno creato, attraverso la Turchia, una speciale linea ferroviaria per rifornire i suoi miliziani.

La situazione politica generale
Facendo il punto, oggi troviamo aperti dei fronti bellici in Libia, Siria, Iraq (e Afghanistan, per quanto paese non-arabo), situazione confusa in Tunisia e un inizio di lotta armata in Egitto; invece la situazione politica è ben più confusa. Allo scoppio della guerra in Siria esistevano un asse turco-saudita-qatariota a sostegno degli islamisti sunniti, che andavano dai Fratelli Musulmani alle fazioni più estremiste, e un asse iraniano-iracheno-siriano con l’aggiunta dei libanesi di Hezbollah.
Il golpe che in Egitto ha deposto il presidente al-Mursi, ha cambiato un po’ le cose, a motivo dell’appoggio dato al generale al-Sisi dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo, a parte il Qatar; per cui oltre a questo asse e a quello turco-qatariota c’è quello sciita. Resta da vedere se i jihadisti riusciranno a costituirne un quarto.
Cosa aveva detto a suo tempo George W. Bush? Missione compiuta? Meno male.  

      
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