Indipendentemente
da come si evolveranno le cose sul piano militare, è possibile un primo bilancio
sull’enorme crisi che sta sconvolgendo l’Iraq. Qui emergono in tutta la loro
tragicità le catastrofiche conseguenze della dissennata politica statunitense,
capace di produrre costi umani di immane
portata, ma incapace di realizzare altresì i propri interessi imperialistici, creando
un mare di guai per gli Iracheni e per il mondo intero. Lo squagliamento del
nuovo esercito di Baghdad addestrato dagli Stati Uniti (quello di Saddam Husayn
fu sciolto dagli Usa subito dopo la conquista dell’Iraq) tratteggia quanto accadrà
domani in Afghanistan, col suo logico seguito. In più vanno contati fin d’ora
le sanguinose conseguenze del ritorno nei paesi di origine delle migliaia di
combattenti jihadisti con passaporti europei. Il massacro al Museo ebraico di
Bruxelles è stato, con tutta probabilità, solo un anticipo.
Una polveriera in fiamme
Tuttavia
il vero nucleo del problema sta nel fatto che la sconclusionata azione di
Washington, di cui l’attuale insipienza di Obama è il punto di arrivo attuale, provoca
la progressiva esplosione dei settori più a rischio della polveriera araba,
dall’Africa settentrionale al Vicino e Medio Oriente, e porterà a una terribile
deflagrazione finale. Non si dimentichi che solo pochi mesi fa gli Stati Uniti
avevano tutta l’intenzione di bombardare la Siria: senza l’escamotage di Putin essi avrebbero consegnato quel paese proprio ai
jihadisti che oggi marciano su Baghdad. Sull’irresistibilità di questa marcia
ci sarebbe molto da dire, se sono vere le voci che li valutano in circa 30.000
miliziani per lo più armati alla leggera. Tuttavia dai depositi militari
abbandonati di corsa dai soldati iracheni sicuramente i jihadisti hanno
ricavato materiali qualitativamente consistenti e utilizzabili sia in Iraq sia
in Siria.
Per
quanto sia stata una sorpresa la rapidissima disintegrazione dell’esercito iracheno,
i segnali premonitori di un’azione dei jihadisti c’erano eccome, ma il governo
centrale se ne è infischiato, a parte inascoltate richieste di aiuto agli Stati
Uniti. A questo punto le male lingue arabe attribuiscono quest’inerzia a un
machiavellico gioco del premier sciita Nuri al-Maliki, il quale avrebbe
lasciato precipitare la situazione per potersi poi fare attribuire poteri
straordinari a tempo indeterminato. Fantapolitica? Gioco rischioso? Non si sa,
ma da quelle parti tutto è possibile. Sta di fatto che forse una politica di
al-Maliki un po’ meno settariamente antisunnita avrebbe contribuito a
migliorare le cose. Invece anche lui ha puntato alla resa dei conti.
Circa
l’estrema gravità della situazione la carta geografica è assai eloquente e rivelatrice.
Per
quanto in Siria i jihadisti stiano subendo sempre più i colpi delle truppe di
Assad (che a differenza di quelle dell’Iraq non si sono dissolte, pur dopo vari
anni di guerra), essi controllano una zona di rilievo in Siria e Iraq che,
oltre tutto, si stende lungo il confine meridionale della Turchia.
Indipendentemente dal fatto che essi riescano o no a occupare Baghdad,
attualmente sono in grado di costituire il loro vagheggiato Stato Islamico di
Siria e Levante. Cacciarli da questa specie di triangolo non sarà per niente
facile (e non si sa che tipo di appoggio abbiano da tribù locali), e da qui
potranno sviluppare un’azione destabilizzante a vasto raggio, sostenuta dalle
risorse petrolifere delle zone conquistate, ponendosi come vero protettore dei
Sunniti in Iraq, Siria e Libano.
La
prospettiva di ulteriore destabilizzazione coinvolge ovviamente il Libano e la
Turchia; ma anche il sud sunnita dell’Iran non ne resta teoricamente immune. La
situazione, cioè, si fa complessa e intricata.
È
difficile che i jihadisti operanti in Mesopotamia non vogliano regolare conti
plurisecolari con gli Sciiti locali, cioè la maggioranza della popolazione
concentrata per lo più al sud. Già a Baghdad avranno a che fare con loro, e a
maggior ragione nel sud. Intanto ci sono gli appelli del Grande Ayatollah
al-Sistani perché gli Sciiti si arruolino in massa nell’esercito. Ultimamente
si registra la mobilitazione della brigata sciita Asaib Ahl
al-Haq, appoggiata dall’Iran e delle milizie della Badr Organization e del Kataib Hezbollah. Non é azzardato
prevedere un massacro di grandi proporzioni.
A
nord ci sono le milizie dell’autonomo Kurdistan iracheno, i Peshmerga, che già si sono affrettati a
occupare la zona di Kirkuk, da cui si trae almeno 1/3 del petrolio iracheno;
zona il cui controllo era conteso fra essi e il governo centrale di Baghdad. Lo
scontro armato fra Peshmerga e
jihadisti è sullo sfondo, e in Siria è in atto da tempo.
Dal
canto suo il governo turco dell’islamico Erdoğan potrà essere costretto a
intervenire per evitare l’estendersi del contagio all’Anatolia e in questo caso
paradossalmente da un lato si troverà al fianco dei Curdi iracheni, che
l’ulteriore precipitare degli eventi non potrà che rafforzare ancor di più; e
da un altro lato dovrà scontare il fatto che di certo non rimarranno ibernati
(militarmente e politicamente) i curdi turchi dell’Akp, con ulteriori
complicazioni.
In
più c’è l’Iran sciita, che - tenuto altresì conto dei precedenti libanese e
siriano - non potrà assistere indifferente alla frantumazione dell’asse Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah.
Si profila nei fatti una collaborazione fra Washington e Teheran? Sarebbe una
vera beffa storica, e comunque qualche strizzatina d’occhio statunitense già si
vede.
Oggi in primo piano c’è
al-Baghdadi (e finanziatori)
I
media italici vanno alla ricerca di elementi atti a individuare chi sia oggi in
Iraq l’erede di bin Laden e al-Zawahiri. Si tratta di un gioco mediatico tutto
sommato fine a se stesso, giacché il problema non sta nel carisma e/o nelle
capacità operative del capo di turno, in quanto gli emiri jihadisti vanno e
vengono e tutto resta come prima. Infatti, a essere problematico è il jihadismo
diffuso, che capta aderenti dentro e fuori dalle zone storiche dell’Islam ed è
sempre all’attacco pur con le sue vicende di alterne scissioni e
ricomposizioni.
Comunque,
oggi sembra che il capo iracheno sia Abu Bakr al-Baghdadi, classe 1971, su cui pende una taglia di 10 milioni di
dollari. Con tutta probabilità si tratta del nome di battaglia del dott.
Ibrahim Ali al-Samarrai (cioè di Samarra), che aveva preso le armi contro gli
invasori statunitensi. Ahimé, catturato nel 2005 proprio dagli statunitensi e
chiuso nella prigione di Camp Bucca (presso Basra), nel 2009 era stato messo in
libertà nel quadro della pacificazione del generale David Petraeus.
E
poi - a monte di questo problema - ci sono gli indispensabili finanziatori,
appartenenti alla categoria dei «soliti noti», di cui si parla ma contro cui
nulla si fa. Essi si trovano fondamentalmente in Arabia Saudita, nel Qatar e
negli altri Emirati del Golfo, giocando ruoli ambigui e differenziati. Si dice
che al-Baghdadi operi per conto del principe saudita Abd ar-Rahman al-Faysal
(fratello del ministro degli Esteri saudita e ambasciatore saudita a
Washington), e comunque pare che da circa un mese i suoi miliziani ricevano armamenti
dall’Ucraina - dove i sauditi hanno comprato una fabbrica di armi e hanno
creato, attraverso la Turchia, una speciale linea ferroviaria per rifornire i
suoi miliziani.
La situazione politica
generale
Facendo
il punto, oggi troviamo aperti dei fronti bellici in Libia, Siria, Iraq (e
Afghanistan, per quanto paese non-arabo), situazione confusa in Tunisia e un
inizio di lotta armata in Egitto; invece la situazione politica è ben più
confusa. Allo scoppio della guerra in Siria esistevano un asse
turco-saudita-qatariota a sostegno degli islamisti sunniti, che andavano dai
Fratelli Musulmani alle fazioni più estremiste, e un asse iraniano-iracheno-siriano
con l’aggiunta dei libanesi di Hezbollah.
Il
golpe che in Egitto ha deposto il presidente al-Mursi, ha cambiato un po’ le
cose, a motivo dell’appoggio dato al generale al-Sisi dall’Arabia Saudita e
dalle monarchie del Golfo, a parte il Qatar; per cui oltre a questo asse e a
quello turco-qatariota c’è quello sciita. Resta da vedere se i jihadisti
riusciranno a costituirne un quarto.
Cosa
aveva detto a suo tempo George W. Bush? Missione compiuta? Meno male.