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domenica 6 aprile 2014

SU BENICOMUNISMO DI PIERO BERNOCCHI (II PARTE), di Michele Nobile

La critica della nozione di globalizzazione neoliberista
In un precedente intervento nel blog di Utopia Rossa (sulla bozza del primo capitolo di Benicomunismo, qui http://utopiarossa.blogspot.it/2011/11/proposito-de-la-crisi-di-piero.html), ho ampiamente convenuto con Bernocchi nella critica delle fuorvianti nozioni di globalizzazione, neoliberismo e «governo unico delle banche», con spunti critici sulla sua lettura della crisi iniziata nel 2007-2008.

Colgo l’occasione per ribadire che i presupposti analitici e le implicazioni politiche di un uso coerente della nozione di globalizzazione, tanto più se caratterizzata come neoliberista, sono molto diversi da quelli associati al concetto di imperialismo.
La discussione intorno e alle determinazioni storiche dell’imperialismo è sempre aperta, tuttavia essa comporta l’assunzione di alcuni concetti correlati:
a) che l’imperialismo non sia solo e principalmente una determinata politica ma la forma di esistenza storica del capitalismo come sistema mondiale;
b) che il capitalismo sia animato fin dall’inizio dalla tendenza all’espansione planetaria e a strutturare una economia mondiale che è più della giustapposizione delle economie nazionali e dei loro scambi (come è invece, e non a caso, nei discorsi sul «fordismo» e l’epoca «keynesiana»). Le battaglie politiche nella II Internazionale, già nei primi anni del ‘900, sulle questioni della «politica mondiale», del colonialismo, del militarismo e della guerra, e l’elaborazione teorica e politica di Rosa Luxemburg, Trotsky, Lenin, Bucharin e altri prima e durante la Prima guerra mondiale, testimoniano la centralità delle contraddizioni della dimensione mondiale nell’analisi e nella prospettiva strategica del pensiero rivoluzionario;
c) che questo sistema mondiale sia dinamico, presenti diverse configurazioni storiche che però comportano sempre la riproduzione interdipendente dell’ineguaglianza dei livelli di sviluppo socioeconomico  e della potenza politica, ideologica e militare (quel che si usava definire sviluppo ineguale e combinato del capitalismo). Il concetto di imperialismo richiede dunque che si definiscano storicamente l’articolazione e le contraddizioni tra le particolarità nazionali e la dinamica complessiva del sistema mondiale; 
d) conseguentemente, il nemico non è individuato in una particolare politica o in un particolare schieramento partitico, ma nella classe capitalistica e negli Stati che costituiscono il sistema mondiale. E se il sistema capitalistico è mondiale, il processo di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali deve essere pure inteso come processo mondiale. La burocrazia «socialista» può usare il termine imperialismo come arma ideologica, ma la sua posizione è sempre quella dell’autodifesa nazionale e conservatrice della propria posizione, una prospettiva geopolitica statocentrica.

La nozione di globalizzazione invece non è altro che la proiezione su scala mondiale del concetto neoclassico del mercato perfettamente concorrenziale, concepito per mercati particolari e nazionali. Essa combina la descrizione (almeno come operatività della tendenza) con la prescrizione: presuppone che livello socioeconomico intermedio o statale-nazionale sia assorbito e tendenzialmente «sciolto» nell’unico mercato globale integrato, lasciando come residuo solo il locale e così causando l’obsolescenza delle politiche economiche e sociali nazionali.
Nella pratica l’orientamento politico non scaturisce meccanicamente dall’analisi, ma il successo a sinistra della nozione di globalizzazione neoliberista ritengo risieda proprio nella sua ambiguità: essa facilita la collaborazione, certo in varie forme (dal voto alla partecipazione governativa) e a vari livelli (nazionale e/o locale-regionale), con la «sinistra di governo» o il centrosinistra, in contrapposizione alla cd. cosiddetta «destra neoliberista»; inoltre, si presta bene a giustificare argomentazioni complottistiche e orientamenti nazionalisti, contro il potere dell’oligarchia finanziaria transnazionale, Bruxelles, i vari think tanks, il Fmi ecc. Se l’assunzione della tesi della globalizzazione è una forma in cui si esprime l’egemonia intellettuale capitalistica sulla sinistra, la collaborazione col centrosinistra o le speranze in esso riposte esprimono concretamente l’egemonia politica della stessa casta partitico-statale dominante sulla sinistra.
Giustamente Bernocchi enfatizza la persistente centralità dello Stato nei capitalismi più avanzati. Il punto cruciale è che se a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso sono cambiati il contenuto e gli strumenti delle politiche economiche e sociali, non si sono invece ridotti in assoluto i poteri di intervento socioeconomico degli Stati dei paesi capitalistici avanzati. Così dovrebbe invece essere secondo la formula liberale, fatta propria dai critici del cd. neoliberismo, per cui più mercato equivale a meno Stato e viceversa, assimilando per lo più lo Stato all’interesse generale: come se quello tra Stato e mercato fosse un gioco a somma zero e non una sinergia tra gli istituti fondamentali del potere nel capitalismo. Se quella formula fosse vera, allora l’attuale configurazione mondiale del capitalismo sarebbe potuta entrare in una situazione critica già da molti lustri e dal 2007-2008 avrebbero dovuto verificarsi una depressione grave e generale, tipo anni Trenta, e il crollo del cd. neoliberismo e delle relative espressioni politiche, o mediante profondo rinnovamento dei partiti dominanti o mediante la loro sostituzione con altri. Al contrario, per quanto gravi e duramente pagate dai lavoratori, specialmente in alcuni paesi, negli ultimi decenni le crisi sono rimaste a lungo circoscritte proprio a causa dell’intervento degli Stati e delle banche centrali. Non siamo negli anni Venti del secolo scorso. Concordo quindi pienamente con la tesi per cui la politica economica e sociale dei paesi a capitalismo avanzato sarà pure liberista quando si tratta di diffondere precarietà e flessibilità nel mercato del lavoro e nelle aziende o di ridurre la spesa sociale ma, nel suo insieme, è invece caratterizzabile come neomercantilista: volta a promuovere il capitale interno nell’economia mondiale.
Ed è proprio tenendo conto della persistente capacità d’intervento degli Stati centrali e della realtà di una politica di taglio neomercantilista, invece che meramente liberista, che già nel 2008 si poteva ritenere improbabile (non impossibile) un crollo sistemico analogo  a quello del 1929 e prevedere il rinnovarsi di una dura offensiva contro i diritti socioeconomici dei lavoratori e dell’intera cittadinanza, mentre i partiti di destra e di sinistra si alternano al governo o si uniscono in coalizione.

La postdemocrazia e l’obsolescenza del parlamentarismo
Pieno accordo sulla valutazione del grado d’involuzione dei sistemi politici, fino alla «impossibilità di esercitare una vera democrazia all’interno delle istituzioni esistenti» (p. 217), e sul ruolo della Cgil. Il discorso sui partiti tracciato nelle pp. 226-235 corrisponde alla mia ricostruzione dell’involuzione dei regimi liberaldemocratici in Capitalismo e postdemocrazia (Massari editore 2012, di cui è parte anche l’articolo citato prima). L’avvento della postdemocrazia è un fatto internazionale, strutturale e irreversibile, nel quale i partiti dalla ex «sinistra storica» non sono vittime ma agenti a tutti gli effetti: è un regime politico che segna l’obsolescenza del parlamentarismo.
Le radici della postdemocrazia sono strutturali e internazionali, conseguenti proprio dall’espansione dell’intervento statale nei rapporti sociali, qualcosa che spesso è stato fatto passare come conquista delle lotte dei lavoratori e che, in alcuni casi fu proprio questo. Tuttavia, qualsiasi conquista parziale mediante la lotta, pur importante, è destinata ad essere assorbita, neutralizzata, mutilata o rovesciata dallo Stato e/o dal padronato, a meno che non sia che una tappa in un processo di radicalizzazione politica e di mobilitazione sociale che sbocchi nel rovesciamento dei rapporti di potere di classi e delle istituzioni, l’impresa e lo Stato, in cui essi si materializzano. Se con la mente si torna alla discussione intorno al «revisionismo» di fine ‘800, ci si può rendere conto che qui è la differenza tra la prospettiva di un’evoluzione graduale dal capitalismo al socialismo a mezzo di riforme e di pressioni dl basso, da una parte, e le ragioni di una dialettica della radicalizzazione di massa contro le istituzioni del potere di classe.
Un’ottima e preveggente lettura del incipiente fenomeno d’involuzione dei regimi liberaldemocratici la diede Nicos Poulantzas circa 35 anni or sono (L'état, le pouvoir, le socialisme, Puf 1978, trad. ital.  Il potere nella società contemporanea, Editori riuniti 1979). Egli insisteva sull’osmosi tra partiti di governo ed apparato amministrativo-statale, sull’obsolescenza del potere legislativo e sulla sostanziale convergenza programmatica tra i partiti, fino alla formazione di un partito unico e statalizzato di fatto, sia pur in forma di bipartitismo: che è esattamente quel che è successo da allora e che è parte della spiegazione della fine del «keynesismo» di tipo socialdemocratico ma, anche, dell’accentuato neocorporativismo dell’apparato dei grandi sindacati. Un modo in cui ora si esprime lo stesso concetto nella letteratura è quello di postdemocrazia.
Se prese sul serio, le tesi complementari e convergenti dell’obsolescenza del parlamentarismo rispetto alla burocrazia partitico-statale, dell’integrale statalizzazione dei partiti e della loro convergenza programmatica, sono devastanti per l’orientamento elettoralistico e il riformismo parlamentare della sinistra, più o meno rossa o «alternativa». È diventato assolutamente insensato o indice di un irrimediabile opportunismo cercare di collaborare con l’ala di «sinistra» di quello che è di fatto un sistema partitico unificato, un’unica casta partitica dello Stato capitalista.
Di più: diviene inutile anche l’autonoma partecipazione alle elezioni politiche. Nell’odierno regime postdemocratico e nel quadro delle capacità manipolatorie della società dello spettacolo sono cadute le ragioni del tradizionale elettoralismo di sinistra: sia perché non esistono più «partiti operai» su cui far pressione sia perché le campagne elettorali non possono più neanche fungere da occasione di propaganda «rivoluzionaria». Al contrario, la partecipazione elettorale alimenta l’illusione che sia possibile invertire il corso storico postdemocratico per via istituzionale, magari richiamandosi alla Costituzione,  e in pratica avalla la procedura postdemocratica di legittimazione formale della casta partitico-statale.
Comunque la si volti e la si giri, la pretesa di rappresentare i movimenti non è che la foglia di fico attraverso cui si cerca di entrare o rientrare nel gioco del sistema dei partiti in posizione del tutto e a priori subordinata.

La specificità del caso italiano, esemplare della postdemocrazia e della involuzione dei partiti di sinistra
Piero fa bene anche a sottolineare la specificità del caso italiano, in un senso molto diverso da quello corrente nella sinistra. In sintesi, direi che la ciò che caratterizza la politica italiana è di essere, ancora una volta ma perversamente, all’avanguardia: all’avanguardia della postdemocrazia, esemplare nel mostrarne con evidenza i tratti peggiori e involutivi, sia a dstra sia a sinistra.
La ragione paradossale di questo fatto risiede proprio in ciò che un tempo era motivo d’orgoglio per la sinistra: quello d’essere la più forte e la più articolata dei paesi a capitalismo avanzato e, in particolare, d’essere in gran parte una sinistra comunista, considerando insieme il Pci e la ex nuova sinistra. Ebbene, è proprio perché questa sinistra era tanto forte e diffusa, che la sostanziale convergenza programmatica tra i mutanti del Pci e la «destra» evidenzia i tratti caratteristici della postdemocrazia. Bisogna dire che da maggio 1994 a maggio 2001 il centrosinistra governò il paese (senza dimenticare le Regioni) per un arco di tempo dieci volte superiore a quello di Berlusconi e del centrodestra: 2211 giorni contando anche il governo Dini, 1816 senza, contro i 226 giorni del centrodestra; è stata proprio questa ex sinistra, complice i sindacati confederali, a realizzare tutte le più importanti misure di segno neoliberista, dalle privatizzazioni alla precarizzazione del lavoro all’indirizzo della politica sociale e alla repressione dell’immigrazione, riuscendo anche a far la guerra avendo nel governo ministri «comunisti» e verdi.
E questo è l’altro punto dolentissimo. Sulla «sinistra radicale istituzionale» nelle varie configurazioni elettoralistiche, condivido il giudizio di Bernocchi:

«essa non ha mai voluto mettere tra sé e i partiti e sindacati social-liberisti la stessa distanza politica e culturale che ha posto nei confronti della destra berlusconiana, dimostrando non solo la propria subordinazione a tale sinistra di Sistema, ma anche la sua dipendenza cronica dalla presenza istituzionale, che l’ha portata a cercare, senza successo, di restare disperatamente agganciata al carro della sinistra liberista – nel timore di una propria scomparsa/irrilevanza, se stabilmente priva di rappresentanza parlamentare - seguendola in tutte le sue involuzioni dell’ultimo trentennio, fino alla catastrofe del secondo governo Prodi (dopo aver partecipato anche al primo), in cui è stata pesantemente coinvolta nella gestione del sistema e in numerose scelte antipopolari» (p. 26).

Il punto è che la sinistra post-Pci nacque già vecchia e in vent’anni è però riuscita ad assorbire  e tritare nuovi militanti, neutralizzando le possibilità di ricostruire una prospettiva coerentemente anticapitalistica, riuscendo perfino a cooptare nelle istituzioni nuovo personale politico, attraverso svolte e svoltine volte a convertire lo pseudo movimentismo, di cui maestro indiscusso fu e rimane Fausto Bertinotti, in voti e nella continua ricerca dell’accordo col centrosinistra, a livello nazionale e regionale. Una prassi rovinosa, che nella sua mediocrità e nella divaricazione tra i fini ideologici postulati (la «rifondazione del comunismo», un «altro mondo») e la prassi di sostegno di governi imperialisti, ha contribuito, fatte le proporzioni, al regime postdemocratico.
La forte crescita dell’astensione e, a suo modo, anche il voto per il M5S, sono indicativi del fatto che molti milioni di cittadini, anche se pochi degli intellettuali e dei politici di sinistra, hanno deciso di non prestarsi più al rito di legittimazione della casta politica del regime postdemocratico, di rigettare la logica del «meno peggio», di non credere più nelle giravolte per accreditarsi come collegamento tra piazza e Palazzo. Anche i partiti post-Pci sono giustamente percepiti da gran parte dei loro ex elettori come una frazione subordinata, e oramai periferica, della casta politica. È un atteggiamento sano e realistico, che esprime il bisogno di coerenza tra il dire e il fare.

Statalizzazione, benicomunismo e socializzazione
Torno sulla peculiarità strutturale del capitalismo rispetto ad altri modi di produzione: la relativa separazione delle sfere dell’economia e della politica, ovvero lo sdoppiamento e la spersonalizzazione del dominio di classe in due tipi di apparati, entrambi gerarchizzati, l’impresa privata, la cui rete di rapporti costituisce il mercato, e lo Stato. Anziché indebolire il dominio della classe dominante, lo sdoppiamento del potere in due insiemi di apparati ha conferito al capitalismo una capacità espansiva e una flessibilità senza precedenti. Inoltre, nessun sistema sociale prima del capitalismo ha concentrato in modo così spinto i poteri economici, realizzando la gestione diretta, monocratica e «scientifica» del processo di lavoro, dal che deriva lo straordinario sviluppo delle capacità di manipolazione delle forze naturali. E nessun altro modo di produzione ha concentrato e sviluppato in modo così spinto la potenza politica e militare nelle mani di apparati specializzati e «separati» nel quadro della struttura diseguale, per potenza politica ed economica, del sistema internazionale degli Stati. Il dinamismo senza precedenti del capitalismo si esprime in una straordinaria combinazione di progresso e di barbarie, di contraddizioni anch’esse inedite per scala e intensità: nello sviluppo combinato ma fortemente ineguale di un’economia mondiale; nella determinazione di problemi ecologici fino alla scala planetaria; nella costruzione di arsenali nucleari che potrebbero por fine alla civiltà, se non alla storia umana. Ciascuna di queste contraddizioni mondiali costituisce un ottimo motivo per battersi contro il capitalismo.
E, sempre in termini macrostrutturali, si pone il problema di sottrarre i rapporti socioeconomici alla dinamica del mercato e all’imperativo della massimizzazione del profitto, ovvero della ricomposizione dei poteri economici e politici, della democrazia nel suo senso più ampio. Ma in che modo, da parte di chi, in qual misura e in quale direzione può attuarsi questa ricomposizione?  
La tradizionale risposta di sinistra è univoca: si tratta di rafforzare il potere statale relativamente al mercato. Questo rafforzamento dello Stato può prospettarsi secondo due vie, opposte ma per un certo verso complementari: o riformando il capitalismo attraverso l’espansione del sistema parlamentare e del settore pubblico, magari combinato con la «partecipazione» agli utili, la cogestione, un terzo settore cooperativistico o non-profit; oppure rovesciando lo Stato borghese e costruendo una struttura statale che si dice socialista, perché statalizza le attività economiche. Il potere statale, però, così come è gestito nei suoi diversi apparati e livelli gerarchici, è sempre quello di un ceto di professionisti della politica: ragion per cui la concentrazione dei poteri economici e politici in una casta o classe strutturata nel partito-Stato è la forma concentrata dell’alienazione politica, l’esatto contrario del socialismo che consiste nella diffusione-socializzazione del potere.
L’esperienza storica dimostra che se non si verifica l’espansione qualitativa delle più varie forme di esercizio del potere democratico, da quelle assembleari alle delegate secondo i casi, su tutte le scale spaziali e in tutti i campi, se non progredisce l’autogestione dal basso verso l’alto, se non si ampliano le libertà e le loro garanzie, si riproducono l’ineguaglianza sociale, i privilegi derivanti dallo status, lo sperpero irrazionale di vite e di risorse materiali, perfino in dimensioni e con modi peggiori di quanto accada nei paesi capitalistici più avanzati.
La statalizzazione dell’economia modifica i modi di gestione del lavoro sociale, ma non per questo lo rende direttamente sociale: esso è, infatti, diretto da una casta o classe dominante secondo gli interessi dello Stato. La gestione direttamente sociale del lavoro non può essere semplicemente decretata, imposta con la forza in tutti i livelli dell’attività economica e in ogni contesto, né può compiersi entro ristretti confini nazionali.  Inversamente, non la pianificazione statale come tale e dall’alto verso il basso, ma la pianificazione come processo democratico e sperimentale, non la mera statalizzazione della proprietà ma l’autogestione dal basso verso l’alto e la socializzazione della discussione e della decisione politica, con le contraddizioni e i conflitti che implicano la democrazia e il coordinamento internazionale, sono assolutamente indispensabili per orientare la dinamica di trasformazione dei rapporti socioeconomici verso il superamento degli scambi di valore e la gestione direttamente sociale del lavoro. 
La ricomposizione dei poteri economici nella forma della loro socializzazione non è qualcosa per cui attendere tempi migliori, ma un presupposto essenziale della lotta contro le vecchie forme di alienazione soggettiva e oggettiva e la prevenzione del formarsi di nuove forme di dominio.
L’accordo con Bernocchi è completo sulla critica dello statalismo, sulla necessità di una democrazia integrale, sul fatto che questa democrazia non può essere frutto della pacifica evoluzione del capitalismo, sulla consapevolezza che la socializzazione non esclude il conflitto. E questo è l’essenziale.

Tuttavia, sono perplesso sull’uso del termine benicomunismo e su alcune sue implicazioni che, a mio parere, non giovano alla causa comune.
Bernocchi definisce il benicomunismo come «una sorta di grande e innovativo nuovo Welfare globale, associato a nuovi diritti sociali universali e ad un “capitale” collettivo universale» (p. 216). Tuttavia, se l’estensione dei diritti sociali è ovviamente imprescindibile, la struttura e la dinamica di un processo di transizione non si risolvono nello Stato sociale. Non solo per quanto già detto sul potere della burocrazia statale ma per la stessa sostanza sociale, la dinamica, la vitalità del processo di transizione.
Intendo dire che fino a quando la capacità di lavorare sarà una merce, fino a quando esisterà il lavoro salariato, esisteranno anche le merci, i vincoli e le pressioni derivanti dagli scambi di valore, sui mercati del lavoro e dei beni e dei servizi. Un sistema universale di diritti sociali può progredire solo insieme all’elaborazione di un sistema di valutazione e soddisfazione dei bisogni sociali e di produzione di valori d’uso che sostituisca gli scambi di valore, quindi anche il salario. In definitiva, l’esito della lotta contro la mercificazione universale e per l’estensione e l’approfondimento dei diritti sociali dipende dalla lotta contro gli scambi di valore e per il superamento del lavoro salariato, la vera «merce numero uno». Questo concetto, qui appena abbozzato, implica però una serie di problemi strutturali, a riguardo dei rapporti tra differenti forme di proprietà; del raccordo tra le diverse scale e ambiti della decisione politica; dei rapporti tra l’autogestione microeconomica e la politica macroeconomica; dei rapporti con l’estero capitalista e con altri paesi in transizione (sorvolando su sprechi e distorsioni derivanti dalla pressione del nemico; sia per motivi politici che economici il dinamismo di un processo di transizione dipende dalla sua estensione internazionale).
Si tratta di un campo di discussione pertinente il rapporto sociale di produzione come totalità (che implica e in parte supera la dicotomia tra produzione e consumo, lavoro-lavoratori/non lavoro-non lavoratori, nonché tra la sfera dei rapporti economici e quella dei rapporti politici).
Ora, ritengo che l’enfasi sui «beni comuni» e sul welfare possa ridurre l’insieme dei problemi inerenti a una società di transizione e alla demercificazione e generare confusione, potendo essere intesa come lotta contro il cosiddetto neoliberismo (nozione che Bernocchi giustamente critica) piuttosto che contro il capitalismo (questo a prescindere dalla giustezza dalla lotta alle privatizzazioni). È chiaro che il discorso di Bernocchi non resta entro tali limiti; anzi direi che l’obiettivo è proprio superarne la ristrettezza. Però la definizione non giova all’obiettivo.
Inoltre, metodologicamente sono contrario all’invenzione di neologismi quando non sia strettamente necessario.
Bernocchi sa benissimo, essendosene occupato in libri sull’Urss, la Polonia di Solidarność e la Ddr (Le "riforme" in URSS, La Salamandra, 1977; Capire Danzica, Edizioni Quotidiano dei lavoratori, 1980; Oltre il muro di Berlino. Le ragioni della rivolta in Germania Est, Erre Emme 1990), che la discussione sui rapporti tra piano e mercato, tra democrazia politica e socialismo, ha una storia lunga e che non mancano punti di riferimento positivi, sia teoricamente sia come esperienze storiche di massa. Tra queste cito quelle autogestionarie e del movimento libertario in Spagna durante la guerra civile, prima che venissero soffocate dallo statalismo di marca borghese e stalinista che, insieme alla rivoluzione, uccise pure la possibilità di vincere la ribellione franchista; e quella di Solidarność, che mi pare dimenticata ma che resta a noi la più vicina, non solo nel tempo, e, ritengo, il livello più alto raggiunto da un movimento di massa dei lavoratori nel secondo dopoguerra, sia quanto a mobilitazione sia per le prospettive delineate al suo interno. I problemi e le linee essenziali del benicomunismo sono già stati ampiamente trattati e descritti nella discussione internazionale su modelli di società di transizione alternativi a quelli totalitari, variamente caratterizzati come forme di democrazia socialista, socialismo democratico o autogestionario, comunismo libertario e via dicendo.
Il punto mi è confermato proprio dalla giusta critica del benecomunismo al singolare per le sue implicazioni totalizzanti, omogeneizzanti, moralistiche, e dalla precisazione per cui «i beni comuni sono tutto ciò che la larga maggioranza della popolazione di un paese considera tali». Benissimo, anche perché per «beni comuni» nel senso rigoroso dell’espressione dovrebbero intendersi solo quei beni effettivamente indivisibili. E però così si dissolve la specificità del benicomunismo: quel che si indica nel libro altro non è che il contenuto, democraticamente determinato, di un processo di socializzazione socioeconomica che va oltre la gestione pubblica o comunitaria dei «beni comuni». Non c’è bisogno di un neologismo. Pur minoritaria nella storia del pensiero rivoluzionario del XX secolo, esiste una corrente libertaria e autogestionaria, sia in campo marxista che anarcocomunista, da riprendere criticamente: almeno dal punto di vista intellettuale non è che si debba iniziare da zero.
Comunque, quel che conta veramente è intendersi sulla sostanza, sviluppare la ricerca, farla vivere coerentemente nella pratica.


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