La critica della nozione di globalizzazione
neoliberista
In un precedente intervento nel blog di Utopia Rossa
(sulla bozza del primo capitolo di Benicomunismo, qui http://utopiarossa.blogspot.it/2011/11/proposito-de-la-crisi-di-piero.html), ho ampiamente convenuto con
Bernocchi nella critica delle fuorvianti nozioni di globalizzazione,
neoliberismo e «governo unico delle banche», con spunti critici sulla sua
lettura della crisi iniziata nel 2007-2008.
Colgo l’occasione per ribadire che i presupposti analitici
e le implicazioni politiche di un uso coerente della nozione di
globalizzazione, tanto più se caratterizzata come neoliberista, sono molto
diversi da quelli associati al concetto di imperialismo.
La discussione intorno e alle determinazioni storiche
dell’imperialismo è sempre aperta, tuttavia essa comporta l’assunzione di
alcuni concetti correlati:
a) che l’imperialismo non sia solo e principalmente una
determinata politica ma la forma di esistenza storica del capitalismo come sistema mondiale;
b) che il capitalismo sia animato fin dall’inizio dalla
tendenza all’espansione planetaria e a strutturare una economia mondiale che è
più della giustapposizione delle economie nazionali e dei loro scambi (come è
invece, e non a caso, nei discorsi sul «fordismo» e l’epoca «keynesiana»). Le
battaglie politiche nella II Internazionale, già nei primi anni del ‘900, sulle
questioni della «politica mondiale», del colonialismo, del militarismo e della
guerra, e l’elaborazione teorica e politica di Rosa Luxemburg, Trotsky, Lenin,
Bucharin e altri prima e durante la Prima guerra mondiale, testimoniano la
centralità delle contraddizioni della dimensione mondiale nell’analisi e nella
prospettiva strategica del pensiero rivoluzionario;
c) che questo sistema mondiale sia dinamico, presenti
diverse configurazioni storiche che però comportano sempre la riproduzione
interdipendente dell’ineguaglianza dei livelli di sviluppo socioeconomico e della potenza politica, ideologica e
militare (quel che si usava definire sviluppo ineguale e combinato del
capitalismo). Il concetto di imperialismo richiede dunque che si definiscano
storicamente l’articolazione e le contraddizioni tra le particolarità nazionali
e la dinamica complessiva del sistema mondiale;
d) conseguentemente, il nemico non è individuato in una
particolare politica o in un particolare schieramento partitico, ma nella
classe capitalistica e negli Stati che costituiscono il sistema mondiale. E se
il sistema capitalistico è mondiale, il processo di trasformazione rivoluzionaria
dei rapporti sociali deve essere pure inteso come processo mondiale. La
burocrazia «socialista» può usare il termine imperialismo come arma ideologica,
ma la sua posizione è sempre quella dell’autodifesa nazionale e conservatrice della
propria posizione, una prospettiva geopolitica statocentrica.
La nozione di globalizzazione invece non è altro che la
proiezione su scala mondiale del concetto neoclassico del mercato perfettamente
concorrenziale, concepito per mercati particolari e nazionali. Essa combina la
descrizione (almeno come operatività della tendenza) con la prescrizione:
presuppone che livello socioeconomico intermedio o statale-nazionale sia
assorbito e tendenzialmente «sciolto» nell’unico mercato globale integrato,
lasciando come residuo solo il locale e così causando l’obsolescenza delle
politiche economiche e sociali nazionali.
Nella pratica l’orientamento politico non scaturisce
meccanicamente dall’analisi, ma il successo a sinistra della nozione di
globalizzazione neoliberista ritengo risieda proprio nella sua ambiguità: essa
facilita la collaborazione, certo in varie forme (dal voto alla partecipazione
governativa) e a vari livelli (nazionale e/o locale-regionale), con la
«sinistra di governo» o il centrosinistra, in contrapposizione alla cd.
cosiddetta «destra neoliberista»; inoltre, si presta bene a giustificare
argomentazioni complottistiche e orientamenti nazionalisti, contro il potere
dell’oligarchia finanziaria transnazionale, Bruxelles, i vari think tanks, il Fmi ecc. Se l’assunzione
della tesi della globalizzazione è una forma in cui si esprime l’egemonia
intellettuale capitalistica sulla sinistra, la collaborazione col
centrosinistra o le speranze in esso riposte esprimono concretamente l’egemonia
politica della stessa casta partitico-statale dominante sulla sinistra.
Giustamente Bernocchi enfatizza la persistente centralità
dello Stato nei capitalismi più avanzati. Il punto cruciale è che se a partire
dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso sono cambiati il contenuto e
gli strumenti delle politiche economiche e sociali, non si sono invece ridotti in
assoluto i poteri di intervento socioeconomico degli Stati dei paesi
capitalistici avanzati. Così dovrebbe invece essere secondo la formula
liberale, fatta propria dai critici del cd. neoliberismo, per cui più mercato
equivale a meno Stato e viceversa, assimilando per lo più lo Stato
all’interesse generale: come se quello tra Stato e mercato fosse un gioco a
somma zero e non una sinergia tra gli istituti fondamentali del potere nel
capitalismo. Se quella formula fosse vera, allora l’attuale configurazione
mondiale del capitalismo sarebbe potuta entrare in una situazione critica già
da molti lustri e dal 2007-2008 avrebbero dovuto verificarsi una depressione
grave e generale, tipo anni Trenta, e il crollo del cd. neoliberismo e delle
relative espressioni politiche, o mediante profondo rinnovamento dei partiti
dominanti o mediante la loro sostituzione con altri. Al contrario, per quanto
gravi e duramente pagate dai lavoratori, specialmente in alcuni paesi, negli
ultimi decenni le crisi sono rimaste a lungo circoscritte proprio a causa
dell’intervento degli Stati e delle banche centrali. Non siamo negli anni Venti
del secolo scorso. Concordo quindi pienamente con la tesi per cui la politica
economica e sociale dei paesi a capitalismo avanzato sarà pure liberista quando
si tratta di diffondere precarietà e flessibilità nel mercato del lavoro e
nelle aziende o di ridurre la spesa sociale ma, nel suo insieme, è invece
caratterizzabile come neomercantilista: volta a promuovere il capitale interno
nell’economia mondiale.
Ed è proprio tenendo conto della persistente capacità
d’intervento degli Stati centrali e della realtà di una politica di taglio
neomercantilista, invece che meramente liberista, che già nel 2008 si poteva
ritenere improbabile (non impossibile) un crollo sistemico analogo a quello del 1929 e prevedere il
rinnovarsi di una dura offensiva contro i diritti socioeconomici dei lavoratori
e dell’intera cittadinanza, mentre i partiti di destra e di sinistra si
alternano al governo o si uniscono in coalizione.
La postdemocrazia e l’obsolescenza del parlamentarismo
Pieno accordo sulla valutazione del grado d’involuzione
dei sistemi politici, fino alla «impossibilità di esercitare una vera
democrazia all’interno delle istituzioni esistenti» (p. 217), e sul ruolo della
Cgil. Il discorso sui partiti tracciato nelle pp. 226-235 corrisponde alla mia
ricostruzione dell’involuzione dei regimi liberaldemocratici in Capitalismo
e postdemocrazia (Massari editore 2012, di cui è
parte anche l’articolo citato prima). L’avvento della postdemocrazia è un fatto
internazionale, strutturale e irreversibile, nel quale i partiti dalla ex
«sinistra storica» non sono vittime ma agenti a tutti gli effetti: è un regime
politico che segna l’obsolescenza del parlamentarismo.
Le radici della postdemocrazia sono strutturali e
internazionali, conseguenti proprio dall’espansione dell’intervento statale nei
rapporti sociali, qualcosa che spesso è stato fatto passare come conquista
delle lotte dei lavoratori e che, in alcuni casi fu proprio questo. Tuttavia,
qualsiasi conquista parziale mediante la lotta, pur importante, è destinata ad
essere assorbita, neutralizzata, mutilata o rovesciata dallo Stato e/o dal
padronato, a meno che non sia che una tappa in un processo di radicalizzazione
politica e di mobilitazione sociale che sbocchi nel rovesciamento dei rapporti
di potere di classi e delle istituzioni, l’impresa e lo Stato, in cui essi si
materializzano. Se con la mente si torna alla discussione intorno al «revisionismo»
di fine ‘800, ci si può rendere conto che qui è la differenza tra la
prospettiva di un’evoluzione graduale dal capitalismo al socialismo a mezzo di
riforme e di pressioni dl basso, da una parte, e le ragioni di una dialettica
della radicalizzazione di massa contro le istituzioni del potere di classe.
Un’ottima e preveggente lettura del incipiente fenomeno
d’involuzione dei regimi liberaldemocratici la diede Nicos Poulantzas circa 35
anni or sono (L'état, le pouvoir, le socialisme, Puf 1978, trad. ital. Il potere nella società
contemporanea,
Editori riuniti 1979). Egli insisteva sull’osmosi tra partiti di governo ed
apparato amministrativo-statale, sull’obsolescenza del potere legislativo e
sulla sostanziale convergenza programmatica tra i partiti, fino alla formazione
di un partito unico e statalizzato di fatto, sia pur in forma di bipartitismo:
che è esattamente quel che è successo da allora e che è parte della spiegazione
della fine del «keynesismo» di tipo socialdemocratico ma, anche, dell’accentuato
neocorporativismo dell’apparato dei grandi sindacati. Un modo in cui ora si
esprime lo stesso concetto nella letteratura è quello di postdemocrazia.
Se prese sul serio, le tesi complementari e convergenti
dell’obsolescenza del parlamentarismo rispetto alla burocrazia
partitico-statale, dell’integrale statalizzazione dei partiti e della loro
convergenza programmatica, sono devastanti per l’orientamento elettoralistico e
il riformismo parlamentare della sinistra, più o meno rossa o «alternativa». È
diventato assolutamente insensato o indice di un irrimediabile opportunismo
cercare di collaborare con l’ala di «sinistra» di quello che è di fatto un
sistema partitico unificato, un’unica casta partitica dello Stato capitalista.
Di più: diviene inutile anche l’autonoma partecipazione
alle elezioni politiche. Nell’odierno regime postdemocratico e nel quadro delle
capacità manipolatorie della società dello spettacolo sono cadute le ragioni
del tradizionale elettoralismo di sinistra: sia perché non esistono più
«partiti operai» su cui far pressione sia perché le campagne elettorali non
possono più neanche fungere da occasione di propaganda «rivoluzionaria». Al
contrario, la partecipazione elettorale alimenta l’illusione che sia possibile
invertire il corso storico postdemocratico per via istituzionale, magari
richiamandosi alla Costituzione, e
in pratica avalla la procedura postdemocratica di legittimazione formale della
casta partitico-statale.
Comunque la si volti e la si giri, la pretesa di
rappresentare i movimenti non è che la foglia di fico attraverso cui si cerca
di entrare o rientrare nel gioco del sistema dei partiti in posizione del tutto
e a priori subordinata.
La specificità del caso italiano, esemplare della
postdemocrazia e della involuzione dei partiti di sinistra
Piero fa bene anche a sottolineare la specificità del caso
italiano, in un senso molto diverso da quello corrente nella sinistra. In
sintesi, direi che la ciò che caratterizza la politica italiana è di essere,
ancora una volta ma perversamente, all’avanguardia: all’avanguardia della
postdemocrazia, esemplare nel mostrarne con evidenza i tratti peggiori e
involutivi, sia a dstra sia a sinistra.
La ragione paradossale di questo fatto risiede proprio in
ciò che un tempo era motivo d’orgoglio per la sinistra: quello d’essere la più
forte e la più articolata dei paesi a capitalismo avanzato e, in particolare,
d’essere in gran parte una sinistra comunista, considerando insieme il Pci e la
ex nuova sinistra. Ebbene, è proprio perché questa sinistra era tanto forte e
diffusa, che la sostanziale convergenza programmatica tra i mutanti del Pci e
la «destra» evidenzia i tratti caratteristici della postdemocrazia. Bisogna
dire che da maggio 1994 a maggio 2001 il
centrosinistra governò il paese (senza dimenticare le Regioni) per un arco di
tempo dieci volte superiore a quello di Berlusconi e del centrodestra: 2211 giorni contando anche il governo Dini, 1816 senza,
contro i 226 giorni del centrodestra; è stata proprio questa ex
sinistra, complice i sindacati confederali, a realizzare tutte le più
importanti misure di segno neoliberista, dalle privatizzazioni alla
precarizzazione del lavoro all’indirizzo della politica sociale e alla
repressione dell’immigrazione, riuscendo anche a far la guerra avendo nel
governo ministri «comunisti» e verdi.
E questo è l’altro punto dolentissimo. Sulla «sinistra
radicale istituzionale» nelle varie configurazioni elettoralistiche, condivido
il giudizio di Bernocchi:
«essa
non ha mai voluto mettere tra sé e i partiti e sindacati social-liberisti la
stessa distanza politica e culturale che ha posto nei confronti della destra
berlusconiana, dimostrando non solo la propria subordinazione a tale sinistra
di Sistema, ma
anche la sua dipendenza cronica dalla presenza istituzionale, che l’ha portata
a cercare, senza successo, di restare disperatamente agganciata al carro della
sinistra liberista – nel timore di una propria scomparsa/irrilevanza, se
stabilmente priva di rappresentanza parlamentare - seguendola in tutte le sue
involuzioni dell’ultimo trentennio, fino alla catastrofe del secondo governo
Prodi (dopo aver partecipato anche al primo), in cui è stata pesantemente
coinvolta nella gestione del sistema e in numerose scelte antipopolari» (p.
26).
Il punto è che la sinistra post-Pci nacque già vecchia e
in vent’anni è però riuscita ad assorbire
e tritare nuovi militanti, neutralizzando le possibilità di ricostruire
una prospettiva coerentemente anticapitalistica, riuscendo perfino a cooptare
nelle istituzioni nuovo personale politico, attraverso svolte e svoltine volte
a convertire lo pseudo movimentismo, di cui maestro indiscusso fu e rimane
Fausto Bertinotti, in voti e nella continua ricerca dell’accordo col
centrosinistra, a livello nazionale e regionale. Una prassi rovinosa, che nella
sua mediocrità e nella divaricazione tra i fini ideologici postulati (la
«rifondazione del comunismo», un «altro mondo») e la prassi di sostegno di
governi imperialisti, ha contribuito, fatte le proporzioni, al regime
postdemocratico.
La forte crescita dell’astensione e, a suo modo, anche il
voto per il M5S, sono indicativi del fatto che molti milioni di cittadini,
anche se pochi degli intellettuali e dei politici di sinistra, hanno deciso di
non prestarsi più al rito di legittimazione della casta politica del regime
postdemocratico, di rigettare la logica del «meno peggio», di non credere più
nelle giravolte per accreditarsi come collegamento tra piazza e Palazzo. Anche
i partiti post-Pci sono giustamente percepiti da gran parte dei loro ex
elettori come una frazione subordinata, e oramai periferica, della casta
politica. È un atteggiamento sano e realistico, che esprime il bisogno di
coerenza tra il dire e il fare.
Statalizzazione, benicomunismo e socializzazione
Torno sulla peculiarità strutturale del capitalismo
rispetto ad altri modi di produzione: la relativa separazione delle sfere
dell’economia e della politica, ovvero lo sdoppiamento e la spersonalizzazione
del dominio di classe in due tipi di apparati, entrambi gerarchizzati,
l’impresa privata, la cui rete di rapporti costituisce il mercato, e lo Stato.
Anziché indebolire il dominio della classe dominante, lo sdoppiamento del
potere in due insiemi di apparati ha conferito al capitalismo una capacità
espansiva e una flessibilità senza precedenti. Inoltre, nessun sistema sociale
prima del capitalismo ha concentrato in modo così spinto i poteri economici,
realizzando la gestione diretta, monocratica e «scientifica» del processo di
lavoro, dal che deriva lo straordinario sviluppo delle capacità di
manipolazione delle forze naturali. E nessun altro modo di produzione ha
concentrato e sviluppato in modo così spinto la potenza politica e militare
nelle mani di apparati specializzati e «separati» nel quadro della struttura
diseguale, per potenza politica ed economica, del sistema internazionale degli
Stati. Il dinamismo senza precedenti del capitalismo si esprime in una straordinaria
combinazione di progresso e di barbarie, di contraddizioni anch’esse inedite
per scala e intensità: nello sviluppo combinato ma fortemente ineguale di
un’economia mondiale; nella determinazione di problemi ecologici fino alla
scala planetaria; nella costruzione di arsenali nucleari che potrebbero por
fine alla civiltà, se non alla storia umana. Ciascuna di queste contraddizioni
mondiali costituisce un ottimo motivo per battersi contro il capitalismo.
E, sempre in termini macrostrutturali, si pone il problema
di sottrarre i rapporti socioeconomici alla dinamica del mercato e
all’imperativo della massimizzazione del profitto, ovvero della ricomposizione
dei poteri economici e politici, della democrazia nel suo senso più ampio. Ma
in che modo, da parte di chi, in qual misura e in quale direzione può attuarsi
questa ricomposizione?
La tradizionale risposta di sinistra è univoca: si tratta
di rafforzare il potere statale relativamente al mercato. Questo rafforzamento dello
Stato può prospettarsi secondo due vie, opposte ma per un certo verso
complementari: o riformando il capitalismo attraverso l’espansione del sistema
parlamentare e del settore pubblico, magari combinato con la «partecipazione»
agli utili, la cogestione, un terzo settore cooperativistico o non-profit;
oppure rovesciando lo Stato borghese e costruendo una struttura statale che si
dice socialista, perché statalizza le attività economiche. Il potere statale,
però, così come è gestito nei suoi diversi apparati e livelli gerarchici, è
sempre quello di un ceto di professionisti della politica: ragion per cui la
concentrazione dei poteri economici e politici in una casta o classe
strutturata nel partito-Stato è la forma concentrata dell’alienazione
politica, l’esatto contrario del socialismo che consiste nella
diffusione-socializzazione del potere.
L’esperienza storica dimostra che se non si verifica l’espansione
qualitativa delle più varie forme di esercizio del potere democratico, da
quelle assembleari alle delegate secondo i casi, su tutte le scale spaziali e
in tutti i campi, se non progredisce l’autogestione dal basso verso l’alto, se
non si ampliano le libertà e le loro garanzie, si riproducono l’ineguaglianza
sociale, i privilegi derivanti dallo status, lo sperpero irrazionale di vite e
di risorse materiali, perfino in dimensioni e con modi peggiori di quanto
accada nei paesi capitalistici più avanzati.
La statalizzazione dell’economia modifica i modi di
gestione del lavoro sociale, ma non per questo lo rende direttamente sociale: esso è, infatti, diretto
da una casta o classe dominante secondo gli interessi dello Stato. La gestione
direttamente sociale del lavoro non può essere semplicemente decretata, imposta
con la forza in tutti i livelli dell’attività economica e in ogni contesto, né
può compiersi entro ristretti confini nazionali. Inversamente, non la pianificazione statale come tale e
dall’alto verso il basso, ma la pianificazione come processo democratico e
sperimentale, non la mera statalizzazione della proprietà ma l’autogestione dal
basso verso l’alto e la socializzazione della discussione e della decisione
politica, con le contraddizioni e i conflitti che implicano la democrazia e il
coordinamento internazionale, sono assolutamente indispensabili per orientare
la dinamica di trasformazione dei rapporti socioeconomici verso il superamento
degli scambi di valore e la gestione direttamente sociale del lavoro.
La ricomposizione dei poteri economici nella forma della
loro socializzazione non è qualcosa per cui attendere tempi migliori, ma un
presupposto essenziale della lotta contro le vecchie forme di alienazione
soggettiva e oggettiva e la prevenzione del formarsi di nuove forme di dominio.
L’accordo con Bernocchi è completo sulla critica dello
statalismo, sulla necessità di una democrazia integrale, sul fatto che questa
democrazia non può essere frutto della pacifica evoluzione del capitalismo,
sulla consapevolezza che la socializzazione non esclude il conflitto. E questo
è l’essenziale.
Tuttavia, sono perplesso sull’uso del termine
benicomunismo e su alcune sue implicazioni che, a mio parere, non giovano alla
causa comune.
Bernocchi definisce il benicomunismo come «una sorta di
grande e innovativo nuovo Welfare globale, associato a nuovi diritti sociali universali e ad un “capitale” collettivo
universale» (p.
216). Tuttavia, se l’estensione dei diritti sociali è ovviamente
imprescindibile, la struttura e la dinamica di un processo di transizione non si risolvono nello
Stato sociale. Non solo per quanto già detto sul potere della burocrazia
statale ma per la stessa sostanza sociale, la dinamica, la vitalità del
processo di transizione.
Intendo dire che fino a quando la capacità di lavorare
sarà una merce, fino a quando esisterà il lavoro salariato, esisteranno anche
le merci, i vincoli e le pressioni derivanti dagli scambi di valore, sui
mercati del lavoro e dei beni e dei servizi. Un sistema universale di diritti
sociali può progredire solo insieme all’elaborazione di un sistema di
valutazione e soddisfazione dei bisogni sociali e di produzione di valori d’uso
che sostituisca gli scambi di valore, quindi anche il salario. In definitiva,
l’esito della lotta contro la mercificazione universale e per l’estensione e
l’approfondimento dei diritti sociali dipende dalla lotta contro gli scambi di
valore e per il superamento del lavoro salariato, la vera «merce numero uno».
Questo concetto, qui appena abbozzato, implica però una serie di problemi
strutturali, a riguardo dei rapporti tra differenti forme di proprietà; del
raccordo tra le diverse scale e ambiti della decisione politica; dei rapporti
tra l’autogestione microeconomica e la politica macroeconomica; dei rapporti
con l’estero capitalista e con altri paesi in transizione (sorvolando su
sprechi e distorsioni derivanti dalla pressione del nemico; sia per motivi
politici che economici il dinamismo di un processo di transizione dipende dalla
sua estensione internazionale).
Si tratta di un campo di discussione pertinente il
rapporto sociale di produzione come totalità (che implica e in parte supera la
dicotomia tra produzione e consumo, lavoro-lavoratori/non lavoro-non
lavoratori, nonché tra la sfera dei rapporti economici e quella dei rapporti
politici).
Ora, ritengo che l’enfasi sui «beni comuni» e sul welfare
possa ridurre l’insieme dei problemi inerenti a una società di transizione e
alla demercificazione e generare confusione, potendo essere intesa come lotta
contro il cosiddetto neoliberismo (nozione che Bernocchi giustamente critica)
piuttosto che contro il capitalismo (questo a prescindere dalla giustezza dalla
lotta alle privatizzazioni). È chiaro che il discorso di Bernocchi non resta entro
tali limiti; anzi direi che l’obiettivo è proprio superarne la ristrettezza.
Però la definizione non giova all’obiettivo.
Inoltre, metodologicamente sono contrario all’invenzione
di neologismi quando non sia strettamente necessario.
Bernocchi sa benissimo, essendosene occupato
in libri sull’Urss, la Polonia di Solidarność e la Ddr (Le
"riforme" in URSS, La Salamandra, 1977; Capire Danzica, Edizioni Quotidiano
dei lavoratori, 1980; Oltre il muro di Berlino. Le ragioni della rivolta in
Germania Est, Erre Emme 1990), che la discussione sui rapporti tra piano e
mercato, tra democrazia politica e socialismo, ha una storia lunga e che non
mancano punti di riferimento positivi, sia teoricamente sia come esperienze
storiche di massa. Tra queste cito quelle autogestionarie e del movimento
libertario in Spagna durante la guerra civile, prima che venissero soffocate
dallo statalismo di marca borghese e stalinista che, insieme alla rivoluzione,
uccise pure la possibilità di vincere la ribellione franchista; e quella di Solidarność,
che mi pare dimenticata ma che resta a noi la più vicina, non solo nel tempo,
e, ritengo, il livello più alto raggiunto da un movimento di massa dei
lavoratori nel secondo dopoguerra, sia quanto a mobilitazione sia per le
prospettive delineate al suo interno. I problemi e le linee essenziali del
benicomunismo sono già stati ampiamente trattati e descritti nella discussione
internazionale su modelli di società di transizione alternativi a quelli
totalitari, variamente caratterizzati come forme di democrazia socialista,
socialismo democratico o autogestionario, comunismo libertario e via dicendo.
Il punto mi è confermato proprio dalla giusta critica del benecomunismo al singolare per le sue
implicazioni totalizzanti, omogeneizzanti, moralistiche, e dalla precisazione
per cui «i beni comuni sono tutto ciò che la larga maggioranza della
popolazione di un paese considera tali». Benissimo, anche perché per «beni comuni» nel senso
rigoroso dell’espressione dovrebbero intendersi solo quei beni effettivamente
indivisibili. E però così si dissolve la specificità del benicomunismo: quel che si indica nel
libro altro non è che il contenuto, democraticamente determinato, di un
processo di socializzazione socioeconomica che va oltre la gestione pubblica o
comunitaria dei «beni comuni». Non c’è bisogno di un neologismo. Pur
minoritaria nella storia del pensiero rivoluzionario del XX secolo, esiste una
corrente libertaria e autogestionaria, sia in campo marxista che
anarcocomunista, da riprendere criticamente: almeno dal punto di vista
intellettuale non è che si debba iniziare da zero.
Comunque, quel che conta veramente è intendersi sulla
sostanza, sviluppare la ricerca, farla vivere coerentemente nella pratica.
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