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venerdì 4 aprile 2014

SU BENICOMUNISMO DI PIERO BERNOCCHI (I PARTE), di Michele Nobile


In Benicomunismo di Piero Bernocchi possiamo vedere tre grandi campi aperti alla discussione: la riflessione teorica sulle ragioni interne del fallimento del comunismo novecentesco; la discussione intorno al capitalismo contemporaneo; l’emergere di una nuova prospettiva politica e ideale di democrazia radicale, indicata nel titolo.

Il mio accordo con le tesi del libro è molto ampio, specialmente su quelle che meno sono digeribili per la sinistra italiana. Si vedrà che esistono alcune divergenze d’analisi, anche importanti; ma molto più del computo delle concordanze e delle divergenze quel che conta, ai miei occhi, è la prospettiva d’insieme, la tensione ideale, la direzione verso cui si muove questo lavoro. Nel modo più sintetico, in Benicomunismo è viva e forte  l’aspirazione a liberare l’anticapitalismo dal professionismo politico e dallo statalismo, in uno spirito che può dirsi libertario. L’asse unificante le diverse tematiche del libro ritengo sia quello del rapporto tra etica e politica. Che è poi la condensazione di tutti i problemi e il nodo cruciale veramente fondamentale per il futuro dell’umanità.

La coerenza tra mezzi e fine e la politica come professione
Il primo e fondamentale accordo con Bernocchi è di natura etico-politica: in nessun caso il fine può giustificare l’uso di mezzi non coerenti con esso perché «cattivi mezzi producono cattivi fini, e viceversa» (p. 268). Certamente questo non è il principio sufficiente per costruire una prospettiva anticapitalista ma, altrettanto certamente, esso è il principio basilare e imprescindibile da cui muovere nella direzione giusta. Se applicato con coraggio e rigore all’intero spettro della pratica politica, della riflessione teorica e della ricostruzione storiografica, le sue conseguenze sono enormi, si susseguono a cascata.

Innanzitutto, applicandolo nel campo della politica che aspira a rivoluzionare il mondo, il criterio della congruenza tra mezzi e fine si può formulare in questo modo, assai noto ma concretamente negato, sia nella realtà istituzionale e sociale degli Stati sedicenti socialisti sia nella prassi dei partiti di sinistra nei paesi capitalistici: che la liberazione degli oppressi può essere opera solo degli stessi oppressi, sia nel processo di rivoluzionamento della società capitalistica sia in quello di costruzione di un nuovo ordine sociale. Ne consegue che nessun apparato e nessuna forma di rappresentanza possono sostituirsi all’azione e all’auto-organizzazione delle classi dominate e delle categorie sociali impegnate in questi processi, di rottura e di costruzione. Essi sono distinti ma concatenati: non si tratta solo della successione temporale ma del fatto che la forma e la strutturazione che, fin dall’inizio, assume il movimento di liberazione sociale influisce sull’esito finale.
Concordiamo dunque sul fatto che la tragedia del socialismo è stata l’identificazione della socializzazione con la statalizzazione e del partito con la classe, a sua volta omogeneizzata e mitizzata. Quelle fatali identità erano foriere dell’inversione tra mezzi e fine e dello snaturamento dei contenuti stessi del fine. Da molto tempo la parola comunismo può generare equivoci tremendi, al punto che è legittimo chiedersi quanto il nome sia ancora adeguato alla cosa, sia pur dai contorni sfumati, che si intende designare. E ciò essenzialmente per responsabilità degli stessi comunisti, non del nemico, come gli ingenui o i nostalgici possono credere.
Tuttavia, a differenza di Bernocchi, non ritengo che Marx abbia responsabilità teorica per questa tragedia (altro potrebbe essere il discorso circa la responsabilità, sua ma non solo, della scissione della Prima internazionale tra le anime dette bakunista e marxista, che fu ed è tuttora nefasta nei suoi effetti). Nella critica dell’economia politica Marx fece benissimo a trattare teoricamente l’insieme dei proletari e l’insieme dei capitalisti come aggregati macroeconomici; d’altra parte, nelle sue analisi di situazioni concrete (ad esempio ne Le lotte di classe in Francia e nel 18 Brumaio) mostrò notevole capacità di differenziare le diverse correnti politiche borghesi e di cogliere i limiti d’azione e di coscienza delle classi dominate. La questione cruciale non è tanto quella dei limiti e delle oscillazioni del pensiero di Marx, che ci sono, ma della formazione e diffusione, nell’ultimo quarto del XIX secolo, di una originale rielaborazione del suo pensiero, che passò per ortodossia e che ebbe per «papa» Karl Kautsky. Questo processo di costruzione ideologica  deve spiegarsi con le concrete circostanze e i modi in cui vennero costruiti e funzionarono i partiti e i sindacati operai a cavaliere dei secoli XIX e XX e, in termini più generali, con il modo in cui le organizzazioni del movimento operaio non solo subirono (e subiscono) i molteplici fattori di divisione e di integrazione delle classi dominate nel sistema capitalistico, ma anche li interiorizzarono (e li interiorizzano).
La dicotomica divisione del lavoro tra partito e sindacato e l’assunzione che lo Stato, democratico-borghese o socialista, possa incarnare un presunto interesse generale della società (o dei lavoratori), altro non sono che la cristallizzazione nel movimento operaio della capitalistica differenziazione tra le sfere della politica e dell’economia. Quanto alla tesi che il socialismo consista essenzialmente nella statalizzazione dei mezzi di produzione, essa non è altro che l’opposto speculare della forma sociale capitalistica. Con l’aggravante, però, che se nella seconda il potere economico sopra i lavoratori è frammentato, nel socialismo di Stato esso viene concentrato e moltiplicato in modo totalitario. Ai due punti precedenti è poi connessa la tesi della superiorità del partito sull’organizzazione autonoma del movimento sociale, la cui forma estrema ma logica è la dittatura del partito unico sulla classe.
Il punto cruciale è la genesi e la riproduzione allargata di un ceto sociale di professionisti della politica (in senso ampio, comprendendovi i funzionari sindacali): che non è da intendersi moralisticamente come una malattia degenerativa o come un tradimento personale e ideologico, bensì come fatto socialmente determinato. I pericoli intrinseci alla forma-partito socialista, al professionismo politico e sindacale, alla separazione tra compiti e istituti della lotta politica e della lotta economica, erano stati razionalmente previsti fin dall’inizio del Novecento, sia nell’ambito della sociologia accademica, da Max Weber e da Robert Michels, sia dal giovane Trotsky e da Rosa Luxemburg, e, ovviamente, dell’anarchismo. In sintesi, si tratta del fenomeno sociale della burocratizzazione (qualcosa di diverso dal mero vendersi al padrone). Se Weber e Michels interpretarono la fenomenologia del burocratismo (come prassi) e della burocrazia (come determinato gruppo sociale) degli istituti operai come un destino o una legge della modernità, Luxemburg ne individuò la causa nella tensione obiettiva, da una parte, tra la tendenza dei partiti e dei sindacati socialisti a costruirsi un seguito di massa operando come organi di riforma del capitalismo, così anteponendo, per dirla alla Bernstein, il «movimento» al fine; e, dall’altra, nella fedeltà dogmatica al fine che tende, però, a farne delle sette. Da qui la divaricazione tra la retorica, i simboli, i riti e i miti, che richiamano l’alta finalità in modi anche ossessivi e intolleranti, e una pratica reale che con quel fine non ha più alcun vivo rapporto, essendo il secondo confinato alla definizione di un’identità ideologica che, col tempo, sarà progressivamente erosa, infine svuotata di senso dagli accomodamenti nel sistema.
Operativamente, la divaricazione tra il fine e i modi della pratica si sostanzia nel timore e nell’arginamento della spontaneità, ovvero di quei processi di mobilitazione sociale di massa che si radicalizzano politicamente nell’esperienza concreta della lotta. Quel che più teme la burocrazia è l’organizzazione della conflittualità sociale in organismi indipendenti, che non costituiscono emanazioni o cinghie di trasmissione della linea del partito. Ciò perché finalità sociale della burocrazia è sempre la salvaguardia e l’espansione del potere dell’apparato nei confronti dei semplici membri del partito e del sindacato, la conquista di una posizione nelle istituzioni e l’acquisizione, per questa via, di uno stabile status sociale. Per questo essa deve sostituire la propria rappresentanza e la propria organizzazione, come mediatrice dei rapporti tra le classi e tra la classe dominata e lo Stato, alla radicalizzazione politica e all’auto-organizzazione dei movimenti sociali. La burocrazia è congenitamente avversa al rischio, sempre presente nell’intensificazione della lotta, puntando invece a ciò che, con falso realismo e vero conservatorismo, essa definisce come «obiettivamente possibile» o il meno peggio. Così la sinistra ha precostituito le condizioni per disastri politici, essendo il nemico di classe abbastanza flessibile da usare la burocrazia social-comunista per neutralizzare le spinte sociali radicali, ma non altrettanto timida e codarda quando giunge il momento di sferrare il colpo decisivo; inoltre, la vocazione statalista della burocrazia comporta che essa sia, in effetti, sempre profondamente nazionalista nei suoi orizzonti.

La specificità della burocrazia e la questione del capitalismo di Stato
È bene ricordare che sia Luxemburg che il giovane Trotsky denunciarono al suo nascere le implicazioni autoritarie e sostituzioniste della concezione leniniana del partito, non a caso un adattamento «rivoluzionario» al quadro autocratico dell’Impero russo dell’idea kautskiana del partito-guida della classe (curioso che quel che è considerato più caratteristico del leninismo sia eredità del centrista archetipico). La polemica anti-leniniana di Luxemburg era coerente con la complessiva battaglia antiburocratica che condusse incessantemente fino alla morte; e quella di Trotsky era quasi contemporanea all’elaborazione degli argomenti che anticipavano la dinamica rivoluzionaria del 1917: un complesso di temi strettamente connessi che forma picchi altissimi, forse i più alti, del pensiero rivoluzionario del XX secolo. Restare ancora al di sotto di quelle elaborazioni all’inizio del XXI secolo è assurdo, irrazionale.
Condivido dunque pienamente la critica del professionismo politico e dello statalismo, ma se considero la burocrazia «socialista» un nemico, a differenza di Bernocchi non ritengo però che il problema interpretativo che essa pone si risolva identificandola con una borghesia dominante in società caratterizzabili come capitalismo di Stato.
Innanzitutto perché, se il capitale di Stato non è solo possibilità logica ma ricorrente realtà concreta, in alcuni paesi molto estesa (almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso), un’intera economia capitalistica statalizzata, in tutte le sue branche e in tutte le sue scale, mi sembra invece una impossibilità storica. Con Pierre Naville si può dire che nei cosiddetti socialismi esistano scambi di valore e sfruttamento del lavoro salariato (quindi con estrazione di plusvalore); tuttavia, la logica della riproduzione allargata e della distribuzione delle risorse in queste formazioni sociali è retta da regole obiettive diverse da quelle esistenti nel capitalismo. L’irrazionalità macroeconomica e microeconomica dei socialismi di Stato è enorme, ma essa si manifesta in modi e forme diverse da quelle capitalistiche, essendo determinate dai meccanismi di comando, amministrazione e competizione all’interno di una gerarchia strutturata per via politica, dentro e attraverso il partito-Stato. A mia conoscenza, la più ricca trattazione storica del rapporto di lavoro salariale In Unione sovietica e delle sue contraddizioni, micro e macroeconomiche, è in due splendidi lavori di Donald Filtzer, che coprono gli anni dal 1953 al 1991 (Soviet workers and de-stalinization e Soviet workers and the collapse of perestroika, Cambridge University Press, 1992 e 1994).
Quel che accomuna la storia dei partiti socialdemocratici e comunisti (o, meglio, di matrice staliniana) è l’integrazione nei sistemi partitici e statali, sia pur con tempi e in modi differenti. Con Bernocchi son dunque d’accordo sul risultato finale. Tuttavia, considerare solo il risultato finale non spiega il percorso della burocratizzazione né attrezza adeguatamente a comprendere il modus operandi della burocrazia, le ragioni della sua egemonia sui lavoratori, oppure la tragicommedia della sinistra italiana post-Pci, Rifondazione, Pdci e Verdi.
Il punto è che la burocrazia partitica e sindacale di sinistra, almeno fino a quando si muove nel solco ideologico dell’originale matrice nel movimento operaio, presenta una caratteristica doppiezza. I suoi margini operativi si collocano tra il fine ideologico indicato come socialismo, da realizzare in un futuro indeterminato, e la concreta azione nel presente di mediazione fra le classi antagonistiche, il cui orizzonte è costituito dalla riforma del capitalismo e da un qualche genere di «democrazia progressiva» o «partecipata», di cui è parte integrante l’accesso di detta burocrazia ai governi nazionali e locali dello Stato capitalistico. È la capacità di mantenere questa doppiezza che fonda la credibilità della burocrazia di fronte ai lavoratori e che ne permette l’egemonia sui movimenti di lotta, la riproduzione di un senso d’appartenenza e di un serbatoio di voti.
Ed è questa stessa doppiezza che spiega le oscillazioni circa la tattica tra componenti burocratiche «movimentistiche» e «di sinistra» e quelle più disposte al compromesso immediato e di basso profilo, o la differenziazione tra i presunti puristi della tradizione ideologica e i «revisionisti». Un’analisi approfondita dovrebbe distinguere paesi, momenti storici e partiti; ma, fino ai primi anni Ottanta del secolo scorso, perfino i partiti socialdemocratici erano diversi tra loro.
Se si tiene conto di questo, credo si possa meglio apprezzare in tutta la sua portata storica il fallimento politico del riformismo socialista, rispetto ai fini da esso postulati, e della logica del meno peggio. E, viceversa, si può meglio valutare la mutazione dei partiti di sinistra realizzatasi nelle ultime due decadi del secolo scorso: l’assunzione definitiva, generale e integrale del capitalismo come orizzonte politico, la rinuncia alla sua riforma e a difendere anche gli interessi minimi dei salariati, consapevolmente subordinati alla competitività e all’accumulazione del capitale, la loro completa statalizzazione e il deciso prevalere delle funzioni di governo rispetto a quella della rappresentanza, sia pur limitata, di interessi sociali (con i corollari della impossibilità di esistere senza il finanziamento pubblico e della diffusione della corruzione). È questa mutazione, la convergenza tra partiti di matrice operaia e gli altri, che, a mio parere, costituisce il passaggio decisivo verso regimi politici postdemocratici. Che non sono imposizione dall’estero, da centri di potere transnazionali, ma risultato di una lunga storia, in cui le specificità nazionali si sono combinate con l’interdipendenza continentale e con la riconfigurazione dell’economia mondiale, sfociando nella costruzione di una struttura istituzionale internazionale europea, fin dall’inizio concepita in modo non democratico (si veda a proposito The new old world di Perry Anderson, Verso, London 2011); questa, a sua volta, rafforza e promuove la postdemocrazia.
Da questo punto di vista, proprio per quella che era la forza del Pci e della Cgil, l’Italia è un caso esemplare: dell’avvento della postdemocrazia il Pci, i suoi mutanti e la Cgil sono stati protagonisti determinanti.

Rompere radicalmente, anche psicologicamente, con l’eredità dei sedicenti socialismi reali
Per chi si dice comunista, la cartina di tornasole rivelatrice dell’assimilazione o meno del principio secondo cui i mezzi devono essere adeguati al fine è, a mio parere, questa: si è in grado o no di trarre le logiche conclusioni dal fatto che nel solo biennio del Grande terrore il regime staliniano massacrò almeno 780 mila persone, a cui si devono aggiungere le deportazioni, i morti, le sofferenze e il lavoro schiavistico di milioni di esseri umani imprigionati nell’arcipelago Gulag, esempio macroscopico di regressione storica e di civiltà? Si è disposti o no ad ammettere, psicologicamente e intellettualmente, e a indagarne fino in fondo le ragioni, che, fino allo scatenamento della logica genocida del nazismo durante la guerra, nessuno massacrò i suoi concittadini più di Stalin, neanche Hitler?
Ritengo che le rispettive radici dello stalinismo e del nazismo affondassero in processi storici molto diversi, che gli orrori dello stalinismo furono figli degeneri di una rivoluzione sociale e non di una società capitalistica in una particolare situazione storica, come invece il fascismo e il nazismo. Si può, si deve discutere, della genesi e del funzionamento del sistema sovietico; si deve discutere se i socialismi reali fossero una forma di capitalismo di Stato, di collettivismo burocratico, di Stato operaio degenerato, o un qualche tipo di formazione sociale nuova e instabile ecc. Tuttavia, la vera linea di demarcazione è di natura etico-politica. Occorre essere assolutamente limpidi e radicali nel giudizio, riconoscere lo stalinismo e le sue varianti (tra cui il maoismo) per quello che furono o per quel che ancora oggi sono: dei nemici della liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dall’oppressione, diversi dal capitalismo (per chi scrive) ma almeno pari al capitalismo nelle sue peggiori e oppressive espressioni politiche. È chiaro che un giudizio così severo si estende oltre i periodi più drammatici di ingegneria sociale e le personalità feroci, investe l’intera storia dello Stato detto socialista in tutti i campi, richiede la ricerca critica anche intorno ai suoi tempi «eroici», non permette illusioni sulla riformabilità di questo genere di potere statale (si ricordino le illusioni su Gorbaciov) né nostalgici piagnistei sulla sua ingloriosa autodistruzione (le cui linee fondamentali, errate solo nei tempi, erano state previste da Trotsky mezzo secolo prima). Altra cosa è la lotta contro gli effetti della restaurazione del capitalismo (o del capitalismo nella sua forma «occidentale»).
Sul lungo periodo, a poco vale denunciare le nefandezze dell’imperialismo e nulla vale compilare libri neri del capitalismo se non si è capaci di dire la semplice verità su quel che furono (e sono) i cosiddetti socialismi reali. Il negazionismo o anche solo la sottovalutazione degli orrori sovietici o della Cina maoista (e di altri «socialismi») sono intollerabili ed è del tutto inaccettabile l’argomento, giustamente criticato da Bernocchi all’inizio del libro, per cui «non si può gettar via il bambino insieme all’acqua sporca». No, il «bambino» va «gettato» perché ha prodotto una montagna di escrementi che hanno sporcato, forse irrimediabilmente, lo stesso termine comunismo.
Se non si riesce in questo, allora sarà ben difficile procedere nel riesame razionale dei miti, dei metodi e degli orientamenti politici che discendono dal cosiddetto comunismo novecentesco. Attraverso mutamenti della forma e dl linguaggio essi sono ancora operanti.

Un esempio di cecità etica e strategica: la politica internazionale dei socialismi reali e «l’unità della sinistra»
Una forma diffusa di giustificazionismo dei regimi dei socialismi reali è l’assunzione, specie per l’Urss, che essi abbiano svolto una funzione storicamente progressiva come validi contrappesi all’imperialismo nell’arena geopolitica. Si finisce così col confondere la lotta contro l’imperialismo e il militarismo capitalistici con il sostegno politico delle caste dominanti dette socialiste (se non di dittature nazionaliste), altrettanto militaristiche ed oppressive (per quanto non capaci, lor malgrado, della stessa forza espansiva del capitalismo). La tesi può coesistere anche con la presa di distanza dal regime staliniano o, almeno, dai suoi aspetti più feroci. In questo caso siamo in presenza di una variante della più tradizionale «teoria realistica» delle relazioni internazionali, per cui la politica interna è separata da quella internazionale. Non è però così. Sia la politica interna che quella internazionale di tutte le burocrazie sono soggette a tremende inversioni ma, pur nelle oscillazioni, c’è una sostanziale solidarietà negli orientamenti dentro e fuori i confini.
Un diffuso mito giustificazionista è quello basato sul ruolo dell’Armata rossa nella liberazione dell’Europa dal nazismo. A questo proposito, dovrebbe bastare ricordare che, se è vero che fu l’Unione sovietica a sopportare l’urto maggiore delle armate naziste dopo il giugno 1941 e poi a liberare da esse gran parte dell’Europa, tuttavia fu il patto tra Hitler e Stalin (per interposti ministri) nel 1939 che segnò l’inizio alla Seconda guerra mondiale: ad esso seguì immediatamente l’invasione e la spartizione della Polonia di comune accordo tra la Germania nazista e l’Unione sovietica. Se si vuol ragionare in modo geopoliticamente o strategicamente onesto, allora non dovrebbe essere difficile comprendere che l’alleanza di fatto fra i due totalitarismi fu quanto permise a Hitler di conquistare quasi tutta l’Europa continentale, essendosi assicurato il confine orientale e venendo pure rifornito di materie prime essenziali per la guerra dall’Unione sovietica, fino all’ultimissimo momento prima di rivolgersi contro di essa. La solidarietà con le atroci sofferenze dei popoli sovietici sotto il tallone nazista non può far passare in secondo piano il fatto che l’Armata rossa fosse strumento al servizio del totalitarismo sovietico e che esso si sia imposto con la forza nell’Europa centrale e orientale. Le rivolte dei lavoratori e le conseguenti repressioni in Germania orientale, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, sono lì a testimoniarlo.
Questo è solo un esempio, ma storicamente e psicologicamente importante, per illustrare un concetto più generale: la politica estera sovietica e degli altri «socialismi» ha sempre avuto (ed ha) natura nazionalista e conservatrice. Essa ha sempre mirato a salvaguardare la riproduzione della casta dominante, utilizzando a questo scopo le lotte di liberazione e il sostegno a regimi nazionalisti (perfino anticomunisti in politica interna) come pedine per contrattare i termini della coesistenza col capitalismo come sistema mondiale e l’accordo con questo o quello Stato imperialista, si trattasse delle potenze liberali, della Germania nazista, degli Stati Uniti d’America. E gli «aiuti» internazionali sono sempre stati dei frutti avvelenati, come fu, ad esempio, nei casi dei repubblicani in Spagna e di Cuba.
Se quel che precede non basta, faccio notare che la costruzione e il mantenimento di arsenali nucleari è la forma estrema di attentato all’esistenza dell’umanità: dunque, la sola minaccia del possibile uso dell’arma nucleare contro i popoli dei paesi capitalistici avanzati è sufficiente a far piazza pulita del sedicente internazionalismo proletario, essendo la forma assoluta dell’inversione tra i mezzi e il fine (presunto) del progresso dell’umanità. Karl Kautsky fu detto rinnegato per molto, ma molto meno. 

Sotto la formula dell’«unità della sinistra», della gauche plurielle e simili è ancor viva, in mutata forma e linguaggio, una diretta eredità della politica estera staliniana, forse per i più inconsapevole ma pure molto concreta, visto che continua a influire praticamente nella politica italiana (e non solo): quella dei fronti uniti o popolari contro la destra, più o meno fascista, connessa al mitico obiettivo della «unità della sinistra» per scopi elettorali e governativi. Questa linea era ed è percepita come la versione «buona» della politica (estera) sovietica, una svolta feconda dopo quella settaria dei primissimi anni Trenta, che equiparava socialdemocrazia e fascismo (e che agevolò l’ascesa del nazismo). Allora si trattava di cercare l’alleanza con le potenze liberali per bilanciare il riarmo e l’espansione della Germania nazista, fino all’improvviso ribaltone del 1939. Ebbene, il nocciolo del frontismo non è l’espansione della lotta di classe intorno a specifici obiettivi unificanti ma, al contrario, la subordinazione dei movimenti di lotta e della volontà di cambiamento all’alleanza con i partiti e la borghesia «progressisti», secondo la logica dei due tempi e, quindi, della rinuncia di fatto a costruire una prospettiva anticapitalistica. Perché l’operazione vada a buon fine occorre che la purezza del fine sia garantita da un riferimento esterno (l’Urss, o altro caso esemplare), dai miti e dai riti della tradizione, dal carisma del capo.
Una manifestazione di questa vecchia logica frontista nella sinistra italiana è stata la trasformazione del berlusconismo in male assoluto, passando sopra il fatto che, in tutti gli campi, il grosso dell’innovazione cosiddetta neoliberista in Italia fu compiuta dal centrosinistra, con cui la sinistra post-Pci ha collaborato per anni, al livello del governo nazionale e dei governi regionali, e con cui una parte ancora collabora mentre l’altra vorrebbe poter collaborare, se soltanto l’interlocutore gli riconoscesse una qualche residua utilità e gli concedesse la possibilità di far ricorso al solito linguaggio tortuoso e sconclusionato pieno di aspettative, «percorsi condivisi», «senso di responsabilità», ponti con la piazza, fumose promesse.
Concludo il punto dicendo che il riesame critico di quel che furono le Internazionali (la Terza in particolare) e delle particolari posizioni della politica estera sovietica e cinese può insegnare molto su quel che non deve essere l’internazionalismo, sia nella forma organizzativa che nei contenuti. È superata e improponibile l’idea di Internazionale come super-partito che detta la linea a sezioni nazionali; al contrario, occorre pensare a una Internazionale dei movimenti basata su un pochi, essenziali principi anticapitalistici e antiburocratici, non centralistica (questo è il senso che come Utopia rossa attribuiamo a una possibile Quinta internazionale). Qualcosa che, nella forma, non è lontano dall’esperienza del Forum mondiale altermondialista di cui discute Bernocchi nel libro; un caso la cui analisi andrebbe approfondita ma che, comunque, è significativo di una tendenza al superamento delle forme tradizionali dell’elaborazione e della prassi anticapitalistica.

Il bolscevismo, la forma partito e lo statalismo
Da quanto precede si può intendere la ragione dell’accordo di fondo con la critica che Bernocchi rivolge alla filosofia della storia centrata sul mito del Proletariato quale soggetto omogeneo, teologicamente destinato alla missione di redimere l’umanità eppure e nello stesso tempo destinatario della missione evangelizzatrice e di guida spirituale del Partito.
Infatti, se la riduzione a unità della complessità, segmentazione e contraddittorietà della classe dei salariati costituisce una figura mitologica, essa si risolve nel concreto nella pretesa del Partito di essere riconosciuto dai credenti come l’imprescindibile mediatore della Rivelazione, l’unico legittimo titolare della Fede e della sua mondana amministrazione. Sicché la moderna incarnazione dello Spirito esercita le sue funzioni ecclesiastico-statali in nome e per conto del Proletariato, novello gregge, e se necessario, come sempre è, sopra di esso.
Il referente della parabola è evidentemente il bolscevismo. Penso che tra il bolscevismo al potere nei primi anni sovietici e il regime staliniano esista una differenza di qualità; tuttavia, non si può affatto ricondurre la spiegazione dello stalinismo, come nella dogmatica trotskista, alle condizioni sociali e all’isolamento internazionale della rivoluzione russa. Conosco bene l’argomento, avendolo condiviso per alcuni anni, e al quale riconosco parte della verità. Parte, ma non tutta la verità né la parte decisiva per l’orientamento politico e ideale. Non a caso, il riferimento alle condizioni obiettive può essere ripreso da alcuni nostalgici della vecchia Urss e di Togliatti, perché esso può alimentare un certo senso di inevitabilità dello stalinismo che arriva a confondersi con il giustificazionismo. Quel che difetta a questa prospettiva (e che indebolì la posizione di Trotsky, che pure nei confronti di Stalin ebbe ragione su tutto) è proprio il coraggio di riconoscere, in tutto il suo rilievo, una logica latente nel bolscevismo quale forma estrema di esaltazione della funzione dirigente del partito.
Storiograficamente si tratta di individuare quelle scelte soggettive fatte dal bolscevismo al potere che in nome della salvezza della rivoluzione iniziarono a storpiarla dall’interno, contribuendo a consolidare il burocratismo come prassi e un gruppo sociale dominante, la burocrazia che gestiva il partito e il nuovo Stato; e non mi riferisco solo a quelle decisioni prese durante la guerra civile, ma anche alla subordinazione dei comitati di fabbrica al nuovo Consiglio supremo dell’economia nazionale (il Vesencha), alla logica centralizzatrice, dall’alto sopra il basso, affermatasi tra il dicembre 1917 e i primi mesi del 1918 (su questo si veda Le teorie dell'autogestione di Roberto Massari, Jaca Book, Milano, 1974). Idealmente e politicamente si tratta di assimilare fino in fondo la lezione per cui non tutti i mezzi sono coerenti col fine, che nulla può giustificare la sostituzione del partito e dello Stato all’esperienza e alla gestione dal basso.

In definitiva, allo scadere del secolo la lezione che viene dalla storia dei partiti socialdemocratici e comunisti (e dei sindacati collegati), nonché dei regimi detti socialisti, è che i partiti sono l’ambiente in cui si sviluppa il burocratismo e si forma e si esercita il potere della burocrazia come ceto sociale di professionisti della politica. Il potere della burocrazia «socialista» e sindacale nasce fuori dello Stato, in forza della sua posizione organizzatrice e ideologica nei confronti delle classi dominate; ma proprio perché apparato distinto da queste classi e con interessi propri, esso tende irresistibilmente ad accrescere il proprio potere e a consolidare ed estendere i propri privilegi facendosi Stato: totalitario, sulla base di una rottura con il capitalismo, oppure integrandosi nel sistema politico dello Stato capitalistico, sempre in nome e per conto dell’interesse dei cittadini-lavoratori, sempre sopra le loro spalle e, purtroppo, anche sulla loro pelle.
L’inevitabile conclusione è che la forma-partito sarà pure una delle condizioni della democrazia, che comporta la piena libertà d’organizzazione, ma è pure forma che opera per sostituire il proprio potere e la propria rappresentanza (istituzionale e sindacale) all’organizzazione dal basso; nei sistemi politici capitalistici la forma-partito opera perché la dinamica dei movimenti rimanga entro parametri che garantiscano la riproduzione, l’espansione e il successo istituzionale del ceto dei professionisti o degli aspiranti tali quindi, in definitiva, per la riproduzione dello Stato capitalistico. Quale che fosse l’ideologia o la particolare conformazione organizzativa («leggera» o «pesante», «centralismo democratico» o meno) la forma-partito è stata causa del rovesciamento del rapporto tra mezzi e fine e della cristallizzazione organizzata di questa inversione.
Occorre liberarsi del tutto dal feticismo del partito, l’equivalente socialista del capitalistico feticismo della merce. Il feticismo del partito è pure e logicamente associato al feticismo dello Stato, che è la sua meta: che sia lo Stato della Costituzione liberaldemocratica o lo Stato detto socialista o popolare, invariabilmente guidato a vita da un capo più o meno grigio o carismatico.
Non è più questione di riformare la forma-partito, di inventarsi nuovi aggettivi o articolazioni organizzative con la «società civile» o i «movimenti». Questi tentativi d’ingegneria politica a tavolino si rivelano sempre effimeri, deludenti, mistificazioni e operazioni di basso cabotaggio la cui finalità è irrimediabilmente sempre la stessa: arrivare alle prossime elezioni sperando di spuntare il maggior numero di eletti, già politici di professione più o meno mescolati a sangue fresco che rinnovi l’immagine del ceto nella società dello spettacolo. 


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