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mercoledì 5 marzo 2014

PER UN’EUROPA ROSSA, di Roberto Massari


L’articolo di Roberto Massari, «Per un’Europa rossa», venne scritto in occasione delle prime elezioni del Parlamento europeo. Da allora sono trascorsi ben 35 anni e l’Europa e il mondo sono, per tanti aspetti, cambiati. È cambiata la carta politica europea: anzi, essa può ancora drammaticamente cambiare, se si guarda a quel che sta accadendo proprio in questi giorni in Ucraina; e nel frattempo gran parte degli Stati del continente hanno aderito sia all’Unione europea sia al sistema monetario unificato. Tuttavia, alcune questioni di fondo, ideali e politiche, non sono mutate: e proprio in occasione di quella prima tornata elettorale emersero con forza.
L’interesse di questo articolo di Massari risiede nella visione storica che propone e nel conseguente orientamento politico strategico, che trascende le singole questioni e le alternative schematiche, del tipo «dentro o fuori l’Unione europea». Già nel 1979, al disegno capitalistico di parziale unificazione politica, da una parte, e dall’altra al nazionalismo antieuropeistico di alcuni partiti di sinistra, anch’esso nei fatti sostenitore di una posizione capitalistica ma arretrata, Massari opponeva la visione di una vera unione politica di tutta l’Europa. Una unificazione, però, che necessariamente deve passare attraverso la lotta sociale continentale contro il capitalismo e le caste politiche dominanti.
In appendice pubblichiamo un secondo articolo di Massari, «Pci ed Europa» del 1978, per dare un'idea di quali fossero le prospettive del Pci sulla questione. 
(m.n.)


PER UN'EUROPA ROSSA, di Roberto Massari
(Pubblicato in La classe, n.23/1979) 


Convocando le elezioni europee, le borghesie nazionali dei singoli paesi del Mec hanno lanciato una sfida all’intero movimento operaio, europeo e mondiale. Alcune organizzazioni del movimento operaio - la maggior parte, in realtà - hanno accettato formalmente questa sfida dichiarandosi disponibili a entrare nella competizione elettorale sul terreno istituzionale del Parlamento europeo; nessuna però delle organizzazioni storiche del movimento operaio ha accettato la sfida nella sostanza, contrapponendo alla prospettiva dell’«unificazione» interimperialistica quella degli Stati uniti socialisti di tutta l’Europa, come primo passo verso la costituzione di una Federazione mondiale delle Repubbliche socialiste di tutti i popoli.
Per noi marxisti rivoluzionari, la questione «europea» si riduce fondamentalmente all’interrogativo: è in grado la borghesia di ciascun paese d’Europa di suicidarsi in quanto classe autonoma a sé stante, di rinunciare al proprio campo d’azione specifico, rappresentato dallo Stato nazionale e inserirsi quindi in uno Stato sovranazionale più vasto, eliminando le leggi della concorrenza interimperialistica al proprio interno?
E nel caso che la borghesia si dimostri incapace storicamente di realizzare un tale salto di qualità, è bene ugualmente che l’Europa dei vecchi Stati nazionali venga distrutta per fare posto a uno Stato sovranazionale unico, le cui modalità di funzionamento (federazioni, fusioni, autonomie ecc.) vengano decise democraticamente da tutti i popoli interessati, sulla base del principio della loro autodeterminazione?
E se quest’ultima soluzione apparisse realmente come la più corrispondente ai bisogni materiali, ideologici e politici dei popoli - e pochi avrebbero il coraggio oggigiorno di negarlo anche se su un piano puramente verbale - varrebbe la pena di fare appello alle classi lavoratrici di tutta l’Europa, le uniche in grado di realizzare un tale scopo, perché l’impongano con la forza della propria lotta ideale e materiale?
A questi interrogativi i rivoluzionari rispondono senza esitazioni che 1) la borghesia si è effettivamente dimostrata storicamente incapace di superare il quadro dello Stato nazionale e anzi ha trasformato quest’ultimo nel suo principale strumento di sopravvivenza in quanto classe; 2) che la creazione di uno Stato sovranazionale europeo, come primo passo verso una Federazione mondiale dei popoli, è non solo auspicabile, ma addirittura indispensabile per la sopravvivenza stessa dell’umanità; 3) che solo le classi lavoratrici europee potrebbero realizzare questo primo passo impiegando i metodi di lotta e i criteri di organizzazione sociale che sono loro propri.
In conclusione, ciò significa che i princìpi o le basi nazionaliste della sopravvivenza della borghesia sono incompatibili con quelle della sopravvivenza dell’umanità e che solo se le classi lavoratrici riusciranno a vincere la corsa nel tempo contro la proliferazione degli armamenti atomici nelle mani dell’imperialismo - e contro le tendenze alla guerra tra Stati nazionali che caratterizza storicamente quest’ultimo - potranno salvare l’umanità dalla distruzione e dalla barbarie. Ciò basterebbe da solo a giustificare la necessità della rivoluzione socialista in tutta l’Europa, oltre che nel resto del mondo.
Ma accanto a questo grande e principale motivo storico, i lavoratori ne hanno molti altri che puntano ugualmente verso la necessità di costruire uno Stato sovranazionale socialista, passando sul cadavere delle vecchie classi borghesi che a questo progresso dell’umanità si oppongono.
E allora, anche se queste elezioni «europee» costituiscono un atto puramente formale, nell’ambito di un Parlamento che si distinguerà da quelli nazionali solo per la sua ancor più grande mancanza di potere, che interesse possono avere i lavoratori e i rivoluzionari in particolare a prendere parte a una battaglia istituzionale di pura propaganda capitalistica?
Il problema va affrontato facendo in primo luogo chiarezza sulla natura di questo processo di «unificazione» capitalistica dell’Europa. Va detto innanzitutto che le dichiarazioni e gli appelli all’unificazione da parte di ampi settori delle borghesie europee, in particolare di alcuni dei loro settori più forti e fondamentali, sono tutt’altro che pura vendita di fumo. Le tendenze all’unificazione sono infatti il prodotto di una necessità oggettiva, indotta dallo sviluppo stesso delle forze produttive dal dopoguerra a oggi; uno sviluppo per il quale le frontiere nazionali oggi esistenti costituiscono un ostacolo, analogamente a quanto accadde nel secolo scorso in Germania, quando le frontiere doganali furono abolite con la fondazione della Deutscher Zollverein.
Oggi si pone alla borghesia lo stesso problema, ma su scala molto più vasta e ovviamente in un contesto storico-politico diverso. Il motore essenziale, però, è sempre quello della concorrenza intercapitalistica: concorrenza di mercato innanzitutto con gli Usa e il Giappone, contro i quali i vari settori di capitale nazionale europeo si trovano spesso in posizione di inferiorità, ma anche necessità di valorizzazione su scala più ampia del capitale, in accordo alla maggiore dimensione e produttività dei mezzi di produzione che sono a disposizione dei singoli paesi europei.
Il fatto però che, nonostante queste tendenze oggettive, il processo di unificazione capitalistica si svolga ormai da più di vent’anni senza arrivare a compimento, dimostra la correttezza dell’analisi marxista tradizionale, che nega la possibilità di un ulteriore sviluppo dello Stato borghese oltre le sue frontiere nazionali, nell’ambito di rapporti di produzione capitalistici. Nega cioè la possibilità della formazione di un vero e proprio Stato borghese sovranazionale, nell’epoca di sopravvivenza dell’imperialismo. E infatti, dopo aver assistito per decenni al conflitto permanente tra le forze favorevoli a una maggiore concentrazione delle forze produttive, da un lato (favorevoli quindi a processi di unificazione), e quelle legate alla difesa di interessi più particolari, dall’altro (che ostacolano tali processi), abbiamo visto il processo fermarsi drasticamente con la crisi del 1973. Neppure gli sforzi, spesso spettacolari nella loro messa in scena, tentati da personalità politiche dei vari paesi europei, sono riusciti a cambiare questo dato di fatto. L’ultima prova del resto ci è stata fornita dalla trattativa sullo Sme, come dimostrazione dell’impossibilità per la borghesia di procedere avanti sulla strada di una vera unificazione.
Eppure, nonostante queste contraddizioni e insuccessi, rimane intatto il valore ideologico della propaganda a favore dell’«unificazione» all’interno del modo di produzione capitalistico: ed è questo valore ideologico che la borghesia non intende rinunciare a sfruttare. E con questo non intendiamo riferirci solo all’evidente tentativo di deviare l’attenzione della crisi della borghesia al livello nazionale per far credere che essa possa avere una soluzione al livello internazionale. Ma di più: con questa «unificazione» europea la borghesia tenta di dimostrare l’utilità della sua esistenza o perlomeno la possibilità di una sua nuova prospettiva. Unendo ciò alla campagna di critica contro i paesi del cosiddetto «socialismo reale», tenta di dimostrare la capacità della democrazia borghese di sviluppare una prospettiva che - meglio di questi paesi «socialisti» - vada oltre lo Stato nazionale di tipo tradizionale. In sostanza, la borghesia cerca di presentarsi come portatrice di una nuova prospettiva di classe borghese ancora piena di vitalità, come classe progressista ancora capace di assolvere a compiti storici.
Questa necessità propagandistica è diventata particolarmente attuale nel momento più alto della crisi nei singoli Stati - oltre che nella Cee - quando la sfiducia crescente delle varie popolazioni europee verso i propri regimi ha raggiunto livelli tali da allarmare seriamente i principali ideologi della borghesia: e questo non solo nella Rft. Per le borghesie europee era impossibile restare con le mani in mano e qualcosa doveva essere fatto per contrastare tali processi; e poiché era impossibile presentare dei progressi reali sulla strada dell’unificazione, l’apparenza e la messa in scena dovevano sostituire la realtà, nel modo diventato ormai essenziale per l’esistenza stessa della borghesia: erano necessarie, quindi, le elezioni - «europee», questa volta.
Che posizione adottare allora da parte dei rivoluzionari, verso una tale messa in scena? Nel momento in cui la borghesia si mette a recitare il suo dramma di menzogne sulle «grandi prospettive della società borghese» è evidente che i rivoluzionari non possono tacere: ciò vale ancor di più se si pensa che la messa in scena si rivolge innanzitutto alla classe operaia, sperando di poterne captare l’attenzione e il consenso. E una tale speranza non è del tutto priva di basi, vista l’esistenza di ben precisi «rappresentanti» della classe operaia come i partiti socialdemocratici e stalinisti, le cui posizioni favoriscono la penetrazione di tale messa in scena tra i lavoratori.
I partiti socialdemocratici, secondo la loro antica tradizione filoimperialistica, si battono per una collaborazione più stretta tra i vari imperialismi nazionali, purché essa non entri in contrasto con gli interessi della borghesia del proprio paese. E i partiti eurocomunisti, che hanno tentato un loro rilancio in chiave nazionalista nel corso di questi anni - tanto da farli apparire ad alcuni come un’alternativa al nazionalismo stalinista di tradizione sovietica - non sono riusciti a trovare il benché minimo accordo tra loro su questioni così importanti come l’atteggiamento verso il Mec e la Nato.
E allora, davanti all’assenza di alternative internazionalistiche nel movimento operaio, e davanti al tentativo della borghesia di fingere di rimettere in discussione il proprio assetto nazionalistico, ai marxisti rivoluzionari non resta che impegnarsi in una campagna propagandistica, a tutti i livelli, che abbia al centro le tre seguenti parole d’ordine:

1. Contro l’Europa del capitale!
Noi rifiutiamo e denunciamo ovviamente la prospettiva di «unificazione» che ci viene proposta - sia pur solo propagandisticamente - dal capitalismo, con tutte le sue prospettive di aumento e raffinamento dello sfruttamento, di repressione e di imbarbarimento della vita sociale. Questa prospettiva di «unificazione» non può essere la nostra, dei lavoratori e degli immigrati sfruttati in ogni angolo d’Europa.
Ma se denunciamo e lottiamo contro l’Europa del capitale, ciò non significa che prendiamo posizione all’interno dello scontro borghese tra chi dichiara di volere un’unificazione capitalistica e chi la respinge, né sui vari modi proposti per realizzare tale obiettivo. Ciò che esiste dell’attuale processo di «unificazione» si svolge sotto controllo capitalistico, si basa sulla necessità di valorizzazione del capitale su una scala più ampia, è in sostanza un processo tutto interno alla società borghese: e quindi, prendere posizione per l’una o l’altra delle parti in causa significherebbe assumersi la responsabilità e propagandare delle illusioni verso settori specifici di borghesia. Non entriamo nel merito quindi delle varie proposte di unificazione borghese, perché esterne alla nostra logica di «unificazione» di classe e perché non crediamo che esista alcuna possibilità di realizzare una tale riforma del sistema.

2. Contro il nazionalsciovinismo!
Settori numerosi delle forze politiche che  in Europa fanno riferimento alla classe operaia hanno preso esplicitamente posizione contro l’entrata della Grecia, la Spagna e il Portogallo nel Mec e quindi contro l’estensione di tale organismo. Una posizione questa purtroppo gravissima, perché non solo ha abbandonato la necessaria neutralità che il movimento operaio deve mantenere nei confronti dello scontro interborghese sul processo di «unificazione», ma si è addirittura schierata nella sostanza con i settori più arretrati della borghesia di ciascun paese, assumendo così, più o meno consapevolmente, la difesa del vecchio Stato nazionale come alternativa preferibile all’ampliamento del Mec. È questa tra l’altro una posizione molto incoerente perché - allo stesso titolo per il quale si vogliono tenere fuori le economie borghesi della Spagna, la Grecia e il Portogallo dal Mec - si dovrebbe chiedere anche lo scioglimento di quest’ultimo, l’uscita dell’Italia, la Francia ecc., dando così poi veramente la prova che le uniche correnti progressiste si troverebbero oggi all’interno del fronte borghese!
Vista l’influenza significativa che queste posizioni nazionalscioviniste hanno in settori del movimento operaio (il Pcf, settori laburisti, oltre a correnti minori come il Segretariato unificato), dobbiamo legare indissolubilmente la nostra lotta contro l’Europa del capitale alla lotta contro il nazionalsciovinismo, con la consapevolezza che solo in questo modo l’opposizione all’Europa del capitale acquista un valore progressivo e non reazionario.

3. Per gli Stati Uniti socialisti di tutta l’Europa!
L’enfasi è sull’aggettivo «tutta». A noi infatti non interessa minimamente che cosa la borghesia intenda per «Europa», la «sua» Europa. I suoi progetti possono al massimo costituire per noi delle basi di partenza, ma non esprimono certo il quadro della nostra politica. L’Europa per noi significa un’entità geografica, storica e politica precisa che include gli Stati capitalistici occidentali e gli Stati operai burocratizzati del blocco sovietico: questa è la base reale della costruzione della futura Federazione unitaria degli Stati socialisti d’Europa. Il processo rivoluzionario nei paesi capitalistici che solo potrà realizzare l’unificazione di questi paesi, non potrà fermarsi alle frontiere del Comecon, ma le scavalcherà distruggendo per via rivoluzionaria le attuali strutture del potere, quelle della burocrazia stalinista, nazionalista dell’Europa dell’Est.
Si pensi a questo riguardo all’effetto che in entrambi i versanti dell’Europa ebbero i movimenti di rivolta del ‘68 e come la stessa borghesia occidentale finì con l’accettare l’invasione sovietica della Cecoslovacchia come male minore di fronte ai rischi di combinazione delle varie spinte in un unico grande processo rivoluzionario.
Oggi, pur non avendo la possibilità concreta di fare contemporaneamente una propaganda di massa nei paesi dell’Est a favore degli Stati uniti socialisti d’Europa (e quindi per la rivoluzione politica in questi Stati a dittatura burocratica), denunciamo ugualmente la prospettiva di «unificazione» borghese, tutta interna ai paesi del blocco imperialistico.
Basterebbe già solo questo aspetto a dimostrare la superiorità del nostro internazionalismo proletario sull’«internazionalismo» della borghesia europeista! E allora, se con queste elezioni la borghesia ha messo in discussione la prospettiva europea, accettiamo la sfida, senza alcuna paura o senso di inferiorità!
Solo il movimento operaio europeo, armato di un programma rivoluzionario, può garantire la realizzazione della prospettiva europeista che la borghesia ha dimostrato da più di un secolo di non essere in grado di assolvere.



APPENDICE
PCI ED EUROPA,  di Roberto Massari

(Pubblicato in La classe, n. 20/1978)


L’8 e il 9 novembre il Pci ha organizzato un convegno sull’Europa, in vista delle elezioni europee, ma con il fine preciso di avviare un primo scambio di idee e di divergenze tra i suoi principali esponenti, onde evitare sorprese nel corso del Comitato centrale che meno di un mese dopo sarebbe stato convocato sullo stesso tema. La differenza principale tra le due iniziative, così vicine nel tempo e così inspiegabilmente uguali, va ricercata in primo luogo nella lista dei relatori: Pajetta, Galluzzi, Viezzi, Segre, Jotti (il «centro» berlingueriano) a novembre - il solo Amendola accolto da malumori e critiche, a dicembre. Ma ancor più inspiegabile, per chi non è addentro nei meandri della «diplomazia» stalinista, sembrerebbe il fatto che di entrambe le iniziative, dell’estensione delle divergenze e delle indicazioni concrete contrastanti emerse, non si trovi traccia nel Progetto di tesi per il XV Congresso del Pci. Si vedano in particolare le tesi 30-32 e 35-36.
Eppure la questione è spinosa, enormi le divergenze e via via crescente il ritmo del loro approfondimento, a partire perlomeno dalla Conferenza dei partiti comunisti europei di Karlovy Vary, dell’aprile 1967. Anche questa è stata stranamente dimenticata nelle due riunioni citate, in particolare nella relazione al Cc di Amendola, che pure è partito nella sua ricostruzione storica dell’europeismo dalla civiltà greco-romana fino all’oggi, rivendicando con orgoglio anche la «difesa del continente dalle pressioni esterne (mongoli, turchi, arabi)», oltre alla più concreta, ma non meno grave, «espansione militare, economica, culturale» contro «l’immobilismo delle altre civiltà fondate su modi ripetitivi di produzione e sulla negazione della funzione dell’individuo».
Già queste scarne citazioni della relazione di Amendola, ingenuamente intrise di razzismo, eurocentrismo alla Montanelli e crassa ignoranza storica, basterebbero da sole a dare una prima idea dei contenuti reazionari e anticomunisti con cui il Pci guarda alla prospettiva europea. Ma non è questo il nodo della questione. A noi devono interessare le forme politiche concrete che l’anticomunismo viscerale di Amendola o il più accorto gioco della diplomazia estera berlingueriana (Segre e Pajetta), assumono via via nello scacchiere europeo. E per questo abbiamo richiamato Karlovy Vary.
Perché di lì nascono le divergenze, a partire dal momento in cui un’assise stalinista internazionale ratificò ufficialmente la fine delle vecchie contrapposizioni frontali tra le due realtà principali del continente europeo (quella imperialistica e quella burocratica), ponendo così fine all’intangibilità degli equilibri tra i due blocchi ereditata dall’epoca della guerra fredda. A partire da allora (e ancor prima, dalla conferenza di Bucarest) acquistava piena ufficialità nel movimento stalinista la linea, come si disse, della contemporanea «liquidazione delle organizzazione militari, sia del Patto atlantico che del Patto di Varsavia».
Per l’Urss e gli altri partiti stalinisti al potere, quella formula non implicava nessuna variazione di sostanza, dal momento che davanti all’evidente non-scioglibilità della Nato, anche il Patto di Varsavia continuava a mantenere la sua vigenza (anzi, poco più di un anno dopo, ciò veniva dimostrato con l’invasione della Cecoslovacchia). Ma per il Pci e chi al potere non ci sarebbe arrivato in breve tempo, la formula lasciava margini di manovra relativamente ampi sulla via della ricerca di un accordo nazionale con la propria borghesia imperialistica. È noto che il Pci è il partito che si è spinto più avanti di tutti su questa strada.
Troppo avanti e con troppo pochi risultati tangibili. A ogni nuovo attrito della «distensione» e dell’equilibrio tripolare, a ogni passo in avanti delle truppe dell’area sovietica (cui corrisponde puntualmente un’analoga iniziativa dell’oltranzismo atlantico), il fragile equilibrio nazionale tra Dc e Pci viene rimesso in discussione, minacciato, ridimensionato, protraendo nel tempo la non-entrata del Pci nel governo italiano. Di qui la vocazione «europeistica», vale a dire la ricerca di soluzioni extranazionali che risolvano alla radice i mali che impediscono una duratura integrazione del Pci nell’apparato statale, al contrario invece di come è stato fatto e continua a essere possibile per i socialdemocratici. Non si tratta di una vera fede «europeistica», quindi, ma semplicemente di un tentativo di aggiramento dell’ostacolo, per la realizzazione delle classiche mire nazionalistiche dello stalinismo.
Di qui le divergenze, puramente tattiche, ma non per questo meno profonde, riguardo ai margini di contrattabilità della dipendenza sovietica, con aperture governative su scala nazionale; o, su un piano più generale, sull’estensione reale delle interpretazioni possibili della formula «superamento contemporaneo dei blocchi». Nella stampa quotidiana di partito, in alcune dichiarazioni di Berlinguer, nella filosofia di Pecchioli, questo «superamento» acquista normalmente il carattere di uno schieramento aperto con la Nato, inteso come blocco militare in cui già ci si trova nell’attesa del futuro «superamento».
Nelle posizioni veramente ufficiali, invece, come quelle esposte periodicamente alle conferenze convocate dai sovietici, esso viene presentato come un non-schieramento privilegiato con il Patto di Varsavia, o perlomeno come un non-schieramento-acritico, ma da valutare volta per volta. D’accordo con il Patto di Varsavia per la politica praticata in Africa o per la condanna della bomba al neutrone, oggi solo americana; disaccordo invece per l’invasione della Cecoslovacchia o per i toni da guerra fredda ancora utilizzati nella stampa sovietica per definire il ruolo dei socialdemocratici al governo nella Rft, ieri in Portogallo, e via discorrendo.
Ma il testo votato a Karlovy Vary, non si intitolava forse «Per la pace e la sicurezza europea?», dovrebbero ricordare gli stalinisti nostrani. E non implica ciò la ricerca di formule politiche e militari che possano effettivamente garantire tale sicurezza, costituendo una «terza forza» politico-militare che si erga autonoma e indipendente sia nei confronti della Nato, sia del Patto di Varsavia?
No, rispondono i sovietici che ben sanno, per loro stessa esperienza, che una simile «terza forza» sarebbe necessariamente un alleato ulteriore dell’imperialismo americano in tutte le questioni di fondo e in tutte le ipotesi di scontro aperto, pur differenziandosene marginalmente nei problemi di ordinaria amministrazione. E i sovietici non possono certo farsi tranquillizzare da giri di parole, come il seguente, contenuto nella relazione di Sergio Segre al convegno sull’Europa: «Contribuire alla costruzione di un nuovo rapporto con gli Usa che eviti la dipendenza così come la concorrenza conflittuale aprioristica».
Ancor meno possono farsi tranquillizzare dai pressanti appelli, presenti in tutti gli interventi di maggior rilievo, a ricercare «utili possibilità di scambio tra la Cee e i paesi in via di sviluppo» (G. Amendola), vale a dire a un’ulteriore penetrazione dei principali imperialismi europei nelle economie dei paesi dipendenti, dove la concorrenza politica tra Usa e Urss è già abbastanza aspra, per non dover richiedere l’intervento di nuovi famelici aspiranti alla spartizione della torta.
«La classe operaia deve prendere la direzione di una coerente politica di austerità diretta ad attuare trasformazioni che avranno un significato democratico socialista», ha detto Amendola, indicando il possibile terreno programmatico comune dei partiti comunisti, socialisti, cristiano-democratici e liberali che, secondo il nostro, dovranno garantire dopo le elezioni il clima unitario per la conduzione politica della «nuova Europa».
Ma ancora una volta, dietro formule così scopertamente e ingenuamente antioperaie, qual è l’oggetto del contendere che ha spinto, per esempio, Pajetta e Napolitano a intervenire duramente al Cc contro la relazione di Amendola?
Napolitano ha addirittura detto, usando un linguaggio non usuale nella burocrazia stalinista: «Non può considerarsi come pacificamente acquisita l’impostazione di Amendola, nei suoi aspetti ideologici e culturali, come pure nei suoi contenuti concreti». Secondo Napolitano, invece, si deve riacquistare respiro strategico per l’intera operazione «eurocomunista», che non annacqui i contenuti specifici dell’organizzazione e della tradizione «comunista», identificandosi puramente e semplicemente con gli ideali di Cattaneo o Giorgio La Malfa, ponendosi così letteralmente in balìa dell’eurosocialismo, dell’euro-Dc, dell’euroliberalismo, conservando come unico avversario l’eurodestra di Almirante. Occorre andare a tutto ciò, ma con una forza dietro, con uno schieramento preciso e conservando quei contatti extraeuropei che costituiscono ancor oggi un elemento di forza del Pci: «no all’eurocentrismo», hanno detto Napolitano e tutto lo staff berlingueriano che conta, intendendo con ciò una preferenza per l’attuale diplomazia estera del Pci: filoamericana in Usa e filosovietica in Urss e filosocialdemocratica in Rft, filodemocristiana in Italia, filocinese in Cina e filoguerriglierista in Nicaragua, o in paesi ancora piccoli e lontani. Nazionale e internazionalista, rivoluzionaria e conservatrice.
È poi arrivata la notizia della non-adesione italiana allo Sme, su cui soprattutto Amendola contava, per avvalorare la propria tesi sull’esistenza di basi oggettive per un’integrazione politica europea fondata sull’effettiva omogeneità di intenti degli imperialismi che domineranno il prossimo Parlamento europeo.
Un duro colpo per i sogni amendoliani di creazione di un polo imperialistico europeo, alternativo agli Usa, ma per ora una conferma per il resto della direzione comunista che la politica si fa su basi nazionali, ognuno a fianco del proprio imperialismo, aggrappati al cadavere fetido della propria borghesia nazionale che puzza, è vero, ma cui perlomeno ci si è abituati.
Per l’ «eurocomunismo» e per il Pci queste prossime elezioni europee avranno un ruolo secondario, quindi di pura propaganda nazionale. È il bene della nazione che lo richiede: alle Botteghe oscure continuerà a sventolare il tricolore e non ancora la bandiera a stelle e strisce degli Stati uniti imperialisti d’Europa.
A Mosca sono più che soddisfatti. Non a Pechino, invece, dove il tema del rafforzamento dell’Europa imperialistica è stato una costante degli ultimi dieci anni.
Gli operai, invece, troppo preoccupati a lottare contro l’«austerità» italiana, non possono ancora prendere sul serio l’ipotesi di un’«austerità» europea. Chi sarebbero gli Andreotti e i Berlinguer di turno? Che rapporto ci sarebbe tra le due «austerità»? Quale combattere per prima? Può un Parlamento, sia pure europeo, compiere miracoli antioperai di tal fatta?
Nelle condizioni in cui versa oggi il sistema capitalistico, la risposta evidentemente è no.



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