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sabato 21 dicembre 2013

L'ECOMUSEO DELL'AGRO PONTINO, di Antonio Saccoccio

Una rivoluzione culturale attraverso lo sviluppo delle comunità locali

La rivoluzione culturale respingerà i concetti di 
cultura dominante e cultura universale 
Hugues de Varine

Si è concluso da pochi giorni il workshop nazionale organizzato dall’Ecomuseo dell’Agro Pontino in cui si è discusso dei nuovi modelli di sviluppo comunitario emergenti nelle pratiche ecomuseali. È stato il comune di Norma (LT)  a ospitare dal 13 al 15 dicembre le giornate di studi e dibattiti. Difficilmente poteva essere scelto un luogo migliore per rilanciare la sfida ecomuseale nel nostro Paese. “Il balcone dei Lepini” – così è chiamata Norma per la sua invidiabile posizione da cui domina l’intero Agro Pontino – costituisce un valido esempio di resistenza al modello economico, sociale e culturale dominante. Sono appena quattromila gli abitanti, ma l’associazionismo è vivissimo, uomini e donne mantengono ancora vitale il senso della comunità, i saperi e i mestieri non sono ancora scomparsi sotto la falce del turbocapitalismo. E l’amministrazione comunale collabora attivamente con l’Ecomuseo dell’Agro Pontino per la valorizzazione del patrimonio locale, materiale e immateriale. Com’è accaduto per l’organizzazione del workshop appena concluso.

Veniamo quindi ai lavori del seminario. La giornata del sabato è stata dedicata alle relazioni di direttori e coordinatori di vari ecomusei italiani e di altri professionisti attenti alla realtà ecomuseale. Il mio intervento, in qualità di direttore dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino, è stato diretto a precisare la linea che seguiamo nelle nostre azioni sul territorio. La teoria e la pratica ecomuseale internazionale, sin dalle origini, non sono mai state precisate rigidamente, la Nuova Museologia ha inteso sfuggire alle procedure consolidate del mondo museale, mantenendo un orizzonte di ricerca sempre fluido e vivace. Ogni ecomuseo, quindi, ha il compito di trovare la propria strada, tentando di capire quali siano le vie migliori per lo sviluppo comunitario locale. Questo perché ogni ecomuseo ha i propri operatori dotati di una specifica formazione, ogni ecomuseo nasce su un territorio sempre diverso con cui deve fare i conti, ogni ecomuseo ha le proprie comunità con caratteristiche ben differenziate. E allora ci sono ecomusei che sembrano veri e propri musei del territorio (quasi musei etnografici), altri che lavorano partendo dalle risorse umane delle comunità locali, altri ancora in cui la comunità è addirittura proprietaria dell’ecomuseo (accade in America Latina, non in Italia). Noi dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino abbiamo voluto dare un’impostazione decisamente politica alle nostre attività. Si sta parlando di politiche culturali, di politica in senso lato, non certamente partitico. E questo ci viene riconosciuto anche dagli osservatori esterni, come è accaduto durante il workshop di Norma quando diversi relatori hanno sottolineato l’impostazione politica della mia relazione. Torniamo quindi a quanto ho proposto nel mio intervento. Tre le parole chiave: consapevolezza, continuità e autonomia. E due proposte: una nuova idea di museo e una nuova pedagogia. Ho voluto sottolineare che sin dalle origini Hugues de Varine, il fondatore riconosciuto della teoria ecomuseale (siamo agli inizi degli anni Settanta), avesse sostenuto la necessità di una partecipazione della comunità non solo attiva, ma anche consapevole. Il problema è stato (e il discorso potrebbe applicarsi non solo alla visione ecomuseale, ma a gran parte delle idee nate tra la fine degli anni ’60 e il principio dei ‘70) quello di aver in seguito puntato quasi esclusivamente sull’attivismo e assai meno sulla consapevolezza. Intendiamoci, l’attivismo è necessario, perché se non si prende in mano il proprio destino nulla potrà mai cambiare, ma una maggior consapevolezza è indispensabile. Gli esiti di un attivismo comunitario improvvisato non portano a nessun cambiamento, e offrono per di più una facile arma a chi vuol mantenere intatti i meccanismi di controllo e addomesticamento della popolazione, riducendola a massa amorfa e indistinta. In pratica, fino a quando la popolazione resterà massa inerte e non diventerà una viva comunità, una comunità consapevole, nessun attivismo produrrà risultati significativi e duraturi. Per intenderci, un esempio di attivismo non sempre consapevole è offerto da alcuni movimenti di rivolta popolare nati recentemente, in cui spesso, anche se ingenuamente e in buona fede, si sottovaluta l’importanza della conoscenza ai fini del buon esito politico. Tornado agli ecomusei, c’è il rischio che l’attivismo diventi puramente retorico e non sostanziale, un rischio evidenziato durante il workshop anche da Roberta Tucci, antropologa ed etnomusicologa, ora all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – MiBACT.
E qui arriviamo al secondo punto della questione, che è poi il nodo centrale: le politiche educative. Ci sono due motivi - è sempre de Varine a parlare - per cui la popolazione non è consapevole: «per l’educazione che riceviamo secondo criteri accademici ed estetici, per la nostra società dei consumi che ci inculca idee di valore commerciale e ci propone modelli estranei alla nostra cultura viva». Qui il passaggio è fondamentale, perché le colpe vengono equamente ripartite tra la società dei consumi e l’educazione accademica. Personalmente, mi occupo da anni di pedagogia libertaria e credo che questo sia il punto chiave per ogni futura politica culturale. Sono arrivato a credere che chi non parte da questo punto, in realtà non vuol cambiare nulla: sta solo facendo finta di cambiare. Non si potrà mai avere una comunità consapevole e autonoma fino a quando l’educazione che riceviamo resterà omologante, passivizzante, autoritaria. Se educhiamo i giovani all’obbedienza e al dogmatismo non possiamo poi pretendere di avere adulti autonomi, dinamici e inclini alla critica e al pluralismo. E poiché l’ecomuseo ha come principale presupposto quello che la comunità sia attenta e capace di valorizzare il proprio patrimonio ambientale e culturale, materiale e non, non potrà darsi ecomuseo, cioè un nuovo modello di sviluppo, senza una vera e propria rivoluzione culturale, una pedagogia dell’autonomia coordinata con una nuova museologia. Ho citato anche Paulo Freire, che non a caso distingueva chiaramente tra educazione depositaria ed educazione liberatoria. Si tratta, per le comunità locali, di recuperare quella continuità tra la condizione passata e il presente che unicamente può generare la consapevolezza delle potenzialità di opporsi al sistema che globalmente sta stritolando ogni capacità di pensare ad un modo differente di organizzare l’esistenza. Si tratta di creare una rete costituita da differenti “mondi locali”, comunità che riescono a gestire consapevolmente e attivamente il proprio territorio e a porsi in contatto con comunità simili in tutto il mondo. Questo è il fine della costituzione di una rete ecomuseale nazionale e mondiale (rete in parte già attiva con il nome, appunto, di Mondi Locali), tema anche questo discusso e rilanciato a Norma.
Sono quindi intervenuti direttori e coordinatori di vari ecomusei italiani, tra cui Nerina Baldi (Direttore Ecomuseo delle Valli di Argenta), Guido Donati (Coordinatore Ecomuseo della Judicaria - Rete Ecomuseale Trentino), Maurizio Tondolo (Direttore Ecomuseo delle Acque del Gemonese), Sandra Becucci (Fondazione Musei Senesi), Simone Bucri (Ecomuseo del Litorale Romano), Alberto Castori (Presidente Ecomuseo della Teverina), oltre al presidente di O.N.D.A. (Organizzazione Nuova Difesa Ambientale) Angelo Valerio, che ha curato con me l’evento e che da ormai un decennio porta avanti con indefessa dedizione il processo legato all’Ecomuseo dell’Agro Pontino. Importante anche l’intervento di Marco Geronimi Stoll, pubblicitario disertore della Rete Smarketing Altreconomia nonché interessante figura di libero pensatore.
Alle due giornate hanno partecipato non solo operatori ecomuseali, ma anche – e questo  è un segnale da non sottovalutare - gran parte dell’amministrazione comunale di Norma (il Sindaco Sergio Mancini, il Delegato all'Urbanistica Mauro Ferrarese, l’Assessore al Bilancio e allo Sviluppo economico Bruno Guarnacci e l’Assessore al Turismo Andrea Dell'Omo), diverse associazioni culturali della stessa cittadina (Norbensis, Domusculta, Gruppo Archeologico Norba, Il sentiero luminoso, Segrete storie italiane) e membri delle altre comunità pontine e lepine (Sermoneta, Sabaudia, Borgo Flora, Tor Tre Ponti, Cisterna, Bella Farnia). Le comunità, sono queste le vere protagoniste degli ecomusei: e allora fondamentali sono stati gli interventi di Felice Calvani, Fabio Massimo Filippi, Pino Riva, Giuseppe Onorati, Umberto Rieti, Tiziano Filippi, Agostina Iacomini, Rino Garlant, Vincenzo Pinti, Flavio Pietrantoni, perché sono costoro che, ognuno con il proprio sapere e mestiere, valorizzano quotidianamente il patrimonio locale nei campi più diversificati: architettura, archeologia, cultura dell’alimentazione, danze, musica, studi sul dialetto, agricoltura, letteratura, teatro, ricamo.
L’Ecomuseo dell’Agro Pontino si caratterizza come paesaggio delle acque e della bonifica, un paesaggio in cui natura e tecnica convivono da sempre (non a caso abbiamo recentemente parlato di “futurnaturismo”). Dalle colline di Norma (e dell’antica Norba) quel paesaggio appare in tutta la sua straordinaria ricchezza, anche negli aspetti di degrado. Un paesaggio che, con i canali, i fiumi, i laghi costieri (zona protetta Ramsar), le idrovore, il giardino di Ninfa e il parco naturale di Pantanello, è ancora troppo poco noto agli stessi pontini, come hanno evidenziato i risultati di un questionario elaborato recentemente dallo stesso Ecomuseo dell’Agro Pontino e come ha sottolineato, sempre durante il workshop, Stefano Salbitani, ex direttore generale del Consorzio di bonifica. Una sfida, quella dell’ecomuseo, che per molti ha il sapore di utopia. Eppure, in molte parti del mondo (e anche qui in Italia) quell’utopia si è già tradotta in conquiste reali e radicali.

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