L’arte della menzogna
All’inizio
del suo pregevole libro Divide et impera, Paolo Sensini ha posto una frase che riportiamo in quanto utile chiave di apertura del presente articolo:
«Viviamo in un tempo in cui gli eventi che accadono intorno a noi si fanno di giorno in giorno più labili, oscuri e circonfusi da un alone di incomprensibilità. Un tempo in cui, se muniti degli opportuni “mezzi di comunicazione di massa”, si può sostenere ciò che si vuole. Anche le cose apparentemente più inverosimili. Basta solo disporre di un adeguato “volume di fuoco” mediatico e tutto, o quasi, può essere rappresentato nella maniera che più si desidera. (…) Oggi, nello spiegare un evento passato o presente, le argomentazioni generalmente addotte dai media non seguono un filo logico o una ricostruzione fedele di quanto accaduto, ma preferiscono fornire versioni che fanno sempre più leva sull’emotività degli “spettatori”»[1].
Chi
non ricorda le “commoventi” notizie sulla ferocia repressiva di Gheddafi e sull’eroismo
dei ribelli di Misurata, con il conseguente plauso al salvifico intervento
occidentale (che qui su Utopia Rossa abbiamo qualificato subito come
aggressione) proprio mentre i ribelli erano alle corde? E come dimenticare i reportages sulla Siria incentrati sul
numero dei civili morti (in particolare i bambini), tutti imputati all’esercito
regolare? Ora gli stessi media
scoprono che in realtà i ribelli di Misurata erano bande scatenate di radicali
islamici, e si comincia a dire (ma ancora un po’ in sordina) che erano
organizzati, armati e finanziati dalla solita triade imperialista occidentale:
Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. In Siria, soprattutto dopo il primo attacco
di al-Nusra al paese cristiano
ortodosso di Maalula (questione su cui il Vaticano non poteva non intervenire,
a prescindere dalla diversità di confessione delle vittime), non è stato
possibile passare sotto silenzio i crimini commessi dai ribelli locali, e
adesso iniziano a circolare (ma sempre con cautela) notizie sulle inenarrabili
atrocità da loro commesse a carico di uomini, donne e bambini, degne di un
romanzo dell’orrore e nel “perfetto” atroce stile collaudato in Algeria.
Questi
radicali combattenti dell’Islam sono chiamati (dai musulmani che la pensano
diversamente) takfiri, parola che in
arabo dice tutto. In buona sostanza sono gli autoproclamati unici veri
musulmani, contrapposti a tutti gli altri ed educati dai loro “maestri
spirituali” alla legittimazione – come atti religiosamente meritori – degli
omicidi, degli stupri e delle torture a danno di atei (tutti i laici per loro
sono tali), cristiani (infedeli per definizione) e islamici di diverso
orientamento (in quanto considerati cripto-apostati). Continua a essere taciuto
che la maggior parte del popolo siriano sta con Bashar al-Assad, quanto meno
visto come il male di gran lunga minore rispetto alle sicure “delizie” che
deriverebbero dalla vittoria dei ribelli. Altresì aumentano i resoconti di
quanti argomentano che in Siria sarebbero stati proprio i ribelli a usare i
gas. Continuano a essere assenti le notizie sulla situazione militare in terra
siriana; per corollario nulla si sa dai grandi media sull’apporto all’esercito regolare da parte delle milizie
popolari volontarie formatesi per autodifesa. Chi ragiona con la sua testa, ad
ogni modo, capisce bene che senza l’appoggio popolare (in aggiunta ovviamente
agli aiuti militari iraniani, russi e cinesi) il regime di Damasco sarebbe
stato già spazzato via. Infine si comincia a parlare – con giusta
preoccupazione – di un tema già accennato in precedenza sulle pagine di Utopia
Rossa: che succederà al rientro in patria dei reduci jihadisti dalla Siria
(molti sono muniti di cittadinanze europee)? Preoccuparsi ora, però, è tardivo.
Intanto
(si direbbe gergalmente “senza saper né leggere né scrivere”) un Paese alquanto
defilato come l’Angola – con scarsità di musulmani autoctoni, ma con presenza
crescente di islamici immigrati dall’Africa Occidentale – ha pensato bene di
organizzarsi in prevenzione: semplicemente il ministero della Giustizia ha
negato la legalizzazione della religione musulmana e più di 60 moschee sono
state chiuse d’autorità. Tuttavia si tratta di un precedente eccessivo che non potrà
essere imitato in Occidente.
Sensini
non è l’unico a parlare di un “obiettivo caos” perseguito dall’imperialismo
statunitense (appoggiato dai soliti alleati); anzi taluni hanno coniato
l’espressione “caos creativo” o “geopolitico” per indicare l’azione imperialista
volta a suscitare – a proprio uso e consumo - frammentazioni politiche,
disunioni intrastatuali e guerre civili in aree strategicamente di rilievo
sotto il profilo delle risorse energetiche e della geopolitica. È accaduto in
Libia con palese successo; ma in Siria, le cose non vanno tanto bene per chi ha
provocato il caos; comunque in entrambi i casi ad avvantaggiarsene sono stati i
gruppi più estremisti del radicalismo islamico: vale a dire i presunti conclamati
“nemici” dell’Occidente (contraddizione formale solo apparente, come diremo in
seguito).
Nel
secolo XIX Rudyard Kipling, a proposito delle manovre di Gran Bretagna a Russia
per l’egemonia in Asia Centrale, parlò di “Grande Gioco”: ebbene, un nuovo
Grande Gioco non da ieri viene sviluppato dagli Stati Uniti dall’Africa del
Nord fino all’Estremo Oriente. Trattarne in un unico articolo non è possibile
per ragioni di spazio, tuttavia il perdurare di queste manovre consente di
diluire la trattazione nel tempo, senza che ciò pregiudichi nulla; semmai
consente di dare contenuto attuale agli scritti. Per cui in questa sede
trattiamo essenzialmente del mondo arabo.
Un
indubbio esperto di propaganda, il dott. Joseph Goebbels nel 1933 definì in
questo modo il segreto della sua attività:
«intridere delle proprie idee l’individuo di cui essa vuole impadronirsi senza che egli si accorga minimamente d’essere imbevuto».
E
sottolineò pure l’essenzialità di fare in modo che il destinatario della
propaganda non percepisca quali ne siano i fini. Al riguardo, oggi come ieri è
fondamentale l’apporto capillare e ripetitivo dei mass media, la loro opera di banalizzazione ad ampio raggio e di
diffusione a livello di luoghi comuni dell’ideario dei “maestri del pensiero” ed
esperti vari al servizio del sistema. Per esempio, ormai lo “scontro di
civiltà” teorizzato da Huntington è – grazie a come i media presentano gli avvenimenti – ben più di un luogo comune, e
non solo per l’uomo della strada senza qualificazioni ulteriori, e
un’indiscriminata islamofobia è sentimento altrettanto diffuso. Il
bombardamento mediatico è tale da non fare accorgere che in realtà lo scontro
in atto è più fra musulmani (ovvero a danno dei musulmani non takfiri) che non fra Islam e civiltà
giudaico-cristiana. Una statistica sull’entità dei morti ammazzati in base alla
loro religione ufficiale sarebbe rivelatrice al di là di qualsiasi discorso.
Dove va a parare il “Grande Gioco” statunitense, con
l’apporto franco-britannico e israeliano
La
spartizione del Vicino e Medio Oriente, a uso e consumo degli interessi
economici e politici delle grandi potenze dell’epoca (Francia e Gran Bretagna)
inizia con il primo dopoguerra mondiale grazie alla sconfitta dell’impero
ottomano. Fu effettuata in base alla situazione dell’epoca, alla forza e alle esigenze
degli spartitori. Comunque, la frantumazione artificiale realizzata – alla fine
l’impero ottomano fu diviso in ben 19 Stati internamente disomogenei - ha posto
le basi per l’avvento di nuove destabilizzazioni in favore dell’imperialismo.
La situazione seguita alla Seconda guerra mondiale e le lotte di liberazione hanno
determinato il ritiro di Francia e Gran Bretagna dal controllo diretto dei
propri domini e l’avvento degli Stati Uniti come superpotenza imperialista.
Storia nota, di cui è superfluo parlare. I veri disastri sono stati possibili
dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Forse un domani gli storici studieranno
meglio i devastanti effetti mondiali di questo crollo che, oltre a rendere
possibili le politiche antisociali attualmente devastanti l’Europa e non solo,
ha lasciato campo libero alle azioni degli Stati Uniti & Co. per la
concretizzazione di piani da lungo tempo già esistenti nei cassetti delle alte
sfere di Washington. Ovviamente si tratta di piani contro i paesi che mettono
in pericolo gli interessi degli Usa; termine che indica i paesi i cui governi
sono di ostacolo al controllo statunitense delle risorse energetiche altrui,
all’acquiescenza politica verso gli Stati Uniti, alla diffusione degli asseriti
“valori” dell’american way of life.
Uno
dei primi obiettivi presi in considerazione fu proprio la Siria, come risulta
da un rapporto anglo-statunitense del 1957, dal titolo Collision Course for Intervention. Di rilievo è poi stata l’opera
di un personaggio i cui scritti nell’offerta della grande editoria
internazionale – per lo più improntata a quell’orientalismo deprecato
dall’ormai classico libro di Edward Said – sono diventati quasi “d’obbligo” per
il grosso pubblico interessato al mondo islamico: si tratta di Bernard Lewis. Di
questo orientalista e storico famoso – che imputa l’antioccidentalismo diffuso
nel mondo islamico non alle conseguenze dell’imperialismo, bensì solo agli
oscuri meandri dell’Islamismo – non tutti sanno che si tratta di un ex
ufficiale dei servizi segreti britannici da molti anni apprezzata testa d’uovo per
i cosiddetti esperti dei servizi segreti degli Usa e di Gran Bretagna, oltre
che per il brain trust dei neoconservatori.
Di Lewis si possono dire molte cose, ma certo non che sia un cattivo
osservatore dei processi internazionali in corso. Importante è un suo articolo del 1992 scritto
per il periodico Foreign Affairs del Council on Foreign Relations, col titolo «Ripensare il Medio
Oriente», redatto ovviamente alla luce degli interessi esclusivi dell’imperialismo in rapporto agli scenari aperti dalla fine della Guerra
Fredda, e in particolare alla possibilità per Washington di instaurare un suo “Nuovo
Ordine Mondiale”. Lewis capì il ruolo l’estremismo islamico era utilizzabile ai
fini dell’accelerazione di quanto oggi chiamiamo “libanizzazione” nel Vicino e
Medio Oriente; regioni caratterizzate dall’esistenza di Stati tanto recenti
quanto artificiali, senza una società civile capace di essere la base della
politica in assenza di un potere governativo forte, quale che sia, a motivo
della mancanza di una reale identità nazionale. Il punto di arrivo delle
possibilità occidentali per lo sfruttamento di tale situazione è lo
smembramento degli attuali Stati orientali, dal Nord Africa al Pakistan.
A
detto fine l’ideale “formula politica” (rubiamo il termine a Gaetano Mosca) è
la guerra di civiltà contro il pericolo islamico. Come tutte le guerre essa va
condotta con pazienti mosse tattiche basate sui movimenti del nemico; poi
seguono a ruota le azioni militari per aprire la strada alle compagnie
petrolifere e alle grandi centrali finanziarie dell’Occidente. La logica
strategica voleva – come è infatti accaduto – che una delle prime vittime del “Grande
Gioco” imperialista fosse l’Iraq, entità statale del tutto disomogenea, ricca
di petrolio e militarmente ben più forte della Siria (almeno sulla carta). Che
infatti è stata colpita in tempi successivi.
Il
quadro completo degli intendimenti statunitensi è stato tracciato dagli
“specialisti” del Council on Foreign
Relations, forti anche dell’esperienza della disintegrazione jugoslava. Nel
2006 l’Armed Force Journal ha pubblicato un articolo di un
tenente-colonnello statunitense in congedo, Ralph Peters, in cui si propugnava
l’esigenza di ridisegnare globalmente i confini dell’area di cui parliamo:
smembramento dell’Arabia Saudita, dell’Iran e del Pakistan; costituzione di un
Azerbaigian unificato, di un Kurdistan libero, di uno Stato arabo sciita in
Mesopotamia e di un Beluchistan indipendente; perdita di Herat per
l’Afghanistan a vantaggio dell’Iran di cui molti decenni fa era parte. Vale a
dire la previsione di una vera e propria mazzata anche per i maggiori attuali
alleati degli Stati Uniti, Turchia compresa.
Questa
balcanizzazione dell’area non produrrebbe certo entità statali forti, cioè
capaci di sfuggire all’egemonismo statunitense; quindi – in siffatto scenario
teorico (si spera) – Washington acquisirebbe il controllo di una regione enorme
ed energeticamente ricca, oltre a minacciare direttamente la Cina, che con la
sua espansione economica e politica in Africa crea un’indubbia e indesiderata
concorrenza ai locali interessi degli Stati Uniti e, subordinatamente, di Gran
Bretagna e Francia.
È
interessante notare un particolare poco conosciuto, non a caso: i piani di
spartizione del Vicino e Medio Oriente non sono esclusiva dei “classici
dell’imperialismo”: anche Israele ci si dedica da un pezzo. E difatti oggi
Washington e Tel Aviv marciano di concerto. Qui siamo nel campo della
convergenza di interessi. Fin dai primi governi israeliani era chiaro per i
sionisti che l’immaginario arabo (governi a
parte, magari) non avrebbe accettato la
ferita inferta dall’impossessamento di una regione araba da parte di stranieri in
nome di asseriti diritti divini e storici. Alla pragmatica e spregiudicata
lucidità politica di Ben Gurion non sfuggivano i pericoli derivanti dall’essere
lo Stato sionista circondato dagli Stati arabi nati dalla Grande Guerra e
decolonizzati. L’ideale da lui espressamente teorizzato era la frantumazione di
questi Stati in micro entità suscettibili di soggiacere facilmente all’egemonia
di Israele quale indiscussa potenza regionale, con prospettive mondiali grazie
alla lobby sionista a Washington. Con questo presupposto, poi mai abbandonato
dai vertici dello Stato sionista, era implicita la convergenza operativa con
gli Stati Uniti. E così è stato. Come esempio dei contributi israeliani basti
solo ricordare gli ansiosi e ansiogeni rapporti agli Usa circa le armi di
distruzione di massa irachene, risultate poi inesistenti. La convergenza
continua, e in atto è operativa in Siria, a fianco dei radicali islamici.
La
“primavera” araba
Sugli eventi che ricadono sotto questa suggestiva denominazione
si comincia a discutere – al di là delle emozionali superficialità con cui i
grandi media li hanno accompagnati –
sul punto se fossero diretti (come vorrebbe l’apparenza) contro certi regimi
locali, oppure contro i popoli arabi. A favore della prima tesi giocano le
situazioni interne: in concreto i regimi più o meno “laici” (tali alla maniera
araba), che in genere avevano dominato nella fase post-coloniale, avevano
collezionato una serie di fallimenti politici (non avevano saputo resistere a
Israele; non avevano realizzato l’unità araba; socialismo, giustizia sociale e
sviluppo economico erano rimasti vuoti slogan; la corruzione dominava).
Il quadro, tuttavia, cambia se si considera il ruolo
degli Stati Uniti. Pur se formalmente alleati dei regimi in questione, intanto
“zitti zitti” – utilizzando Cia e Ong – avevano organizzato e finanziato
gruppi di opposizione, e in particolare quelli che in nome della religione si
opponevano a tali regimi. I risultati sono noti, e visibilmente la prima vittima
è data dalle popolazioni coinvolte: in Tunisia e Libia la violenza islamista
dilaga, in Siria c’è una guerra di aggressione; l’Egitto è nel caos ed
economicamente al collasso.
Certo, gli Stati Uniti hanno dato un dimostrazione di
forza, dimostrando la propria formale capacità di intervento; inoltre la
situazione che ne è derivata è tale da lasciare aperta la porta anche a
interventi militari, ovviamente “umanitari”.
Vi è però un elemento di debolezza, che non si
esaurisce nell’ampio spazio lasciato i movimenti islamisti – radicali e non –
ma si sostanzia nel fatto di aver destabilizzato una regione senza aver prima
inciso in altro modo nella sua posizione strategica globale. Inoltre (e taluni osservatori lo hanno rilevato),
ancora una volta dopo il Vietnam, Washington si è affidata ad alleati
subalterni: nella specie, Gran Bretagna, Francia e Turchia.
C’è da chiedersi contro chi si sviluppi questa
politica. Contro la Russia, è fuori discussione; ma non si può escludere che
sia principalmente contro la Cina. In una prospettiva d’insieme si riscontra
che: l’abbattimento di Gheddafi corrisponde all’eliminazione di un punto forte
dell’Unione Africana; la secessione del Sud Sudan avviene contro il governo di
Khartum che ha rapporti strettissimi con la Cina; gli interventi francesi
nelle loro ex colonie riportano in forza l’imperialismo nell’Africa
subsahariana.
La Cina è spazialmente lontana, ma in Africa è
vicinissima, per la sua espansione commerciale, i suoi investimenti e la
politica di concessione di prestiti di gran lunga più convenienti di quelli
occidentali. In più vari economisti (in Italia, Attilio Folliero) prevedono che
– visti gli standard di crescita – tra 5 o 6 anni il Pil cinese sarà superiore
a quello statunitense. A ciò si aggiunga che la Cina (ma anche la Russia),
attraverso organismi regionali integrati, sta incrementando la compensazione
dei propri scambi non più in dollari, ma in valute nazionali. Il che, vista
l’attuale “egemonia del dollaro” non può che far preoccupare gli Stati Uniti. Certo,
la Cina ancora non fa impensierire sul piano militare, ma gli armamenti cinesi
sono in pieno sviluppo, e tanto per premunirsi la Nato (organismo diretto da
Washington) ha pensato bene di costituire un comando militare per l’Africa
(l’Africom).
Al-Qaida: nemico o strumento?
Sulla questione dei rapporti tra Stati Uniti e la
galassia di al-Qaida (molto
probabilmente, ormai, questo nome indica una specie di franchising del terrorismo) sfuggono all’uomo della strada. Questi
si trova fra un Ayman al-Zawahiri (presunto successore di bin Ladin) che invita
a colpire il nemico occidentale nei suoi propri territori, e i continui
all’erta di Washington sulla minaccia terrorista islamica e i conclamati
propositi di guerra a oltranza a questi radicali islamici. La conclusione
dovrebbe essere ovvia, alla luce dell’ordinaria razionalità, magari integrata
da un po’ di etica. Tuttavia poi emergono molti fatti che sconvolgono il quadro
e manifestano una “razionalità” imperialista che si muove su proprie lunghezze
d’onda. E così registriamo la collaborazione operativa tra gli Stati Uniti e al-Qaida & Co. in Libia e in Siria.
Allora?
Nessuno mette in dubbio che causare il maggior male
possibile a Usa e Occidente in genere faccia parte dei progetti di al-Qaida, ma ciò non ne toglie
l’oggettiva utilità contingente per l’imperialismo. E l’incalcolabile numero
vittime già collezionate dal radicalismo jihadista, e quelle che seguiranno? Ma
quando mai l’imperialismo si è curato delle perdite di vite umane proprie e
altrui nel perseguimento dei suoi interessi! È ovvio che l’installarsi dei
jihadisti al governo di un territorio qualsiasi sarebbe fonte di grossi
problemi in primo luogo per gli Usa; tuttavia, gli attuali mezzi a disposizione
dei servizi di intelligence – se
usati appieno – consentirebbero di parare molte iniziative, e comunque se le
cose assumessero una brutta china nulla vieterebbe di riportare quell’ipotetico
paese all’età della pietra (espressione già usata dagli imperialisti
statunitensi). I problemi sarebbero tutti a carico delle popolazioni; ma qui
torniamo alla considerazione precedente.
Uno degli persistenti luoghi comuni dice che l’appoggio
statunitense alla resistenza islamica in Afghanistan sarebbe avvenuta per
aiutare la popolazione locale contro l’invasione sovietica. Un’ulteriore
menzogna. In realtà questo appoggio precedette l’invasione sovietica con il
deliberato proposito di provocarla. E Mosca cadde nel tranello. Le prime truppe
sovietiche entrarono in Afghanistan il 24 dicembre del 1979, ma è datata 3
luglio 1979 la decisione di Jimmy Carter di inviare aiuti militari ai ribelli
contro il regime comunista di Kabul.
Nel corso del tempo il radicalismo islamico (al-Qaida compresa) ha assunto varie
connotazioni a seconda dei particolari interessi statunitensi: combattenti per
la libertà in Afghanistan, Bosnia, Cecenia; poi terroristi arcinemici; di nuovo
combattenti per la libertà in Libia e Siria. Qual è la logica? Fedeli alla
lezione di Hegel, una logica ci deve essere – altrimenti si dovrebbe parlare di
epidemia di pazzia ai vertici di Washington – e va cercata. Per trovarla si
deve abbandonare la palude delle contraddizioni, porsi ab origine nell’angolo si visuale dell’imperialismo e domandarsi se
gli convenga o no l’esistenza di Stati arabi laici e nazionalisti, a
prescindere dall’essere progressisti o dittature in fase di stasi. La sicura
risposta è no. Infatti nei confronti di questi Stati l’atteggiamento di fondo
statunitense è sempre stato o ostile o sostanzialmente diffidente, e
finalizzato all’appoggio a Israele. L’eventualità che un governo laico potesse
far accostare il proprio paese alla modernità, o addirittura farvelo entrare, è
sempre stata decisamente negativa per gli Usa; mentre le estreme condizioni di
arretratezza e sottosviluppo derivanti da vittorie locali degli estremisti
islamici sarebbero una manna. Senza contare gli enormi
introiti ricavabili dal complesso militare-industriale degli Stati Uniti sia
con le forniture militari al pur pericoloso strumento islamista sia (e a
maggior ragione) con la produzione a cui verrebbe chiamato in caso di guerra
contro di esso. L’alleanza con le ultrareazionarie monarchie della penisola
araba rientra nella stessa logica. Come pure gli elegiaci rapporti di fatto oggi
esistenti fra queste e Israele.
Quali possibili contrappesi?
Le
operazioni di destabilizzazione sono sempre ad alto rischio per chi le subisce:
immaginiamo le possibili conseguenze di un ipotetico deciso impegno
statunitense in favore degli Uiguri musulmani della Cina. Ma ci sono destabilizzazioni
che si risolvono senza necessità di interventi sul campo da parte del
destabilizzante, e altre che invece li rendono indispensabili. I sogni
imperialisti e balcanizzatori di Lewis e Peters implicano entrambi i casi, e
questo ne rende non sempre agevole la concretizzazione. Innanzi tutto ci sono i
problemi finanziari, da cui non è immune nemmeno l’amministrazione statunitense.
Obama, in un periodo di restrizioni economiche ha deciso di tagliare la spesa
militare e di ritirarsi da scenari bellici incontrollabili sia dal punto di
vista militare che politico per concentrarsi sullo scenario del Pacifico.
I
progetti imperialisti devono confrontarsi anche con una realtà globale che –
per il numero dei giocatori (a piccolo o ampio raggio) – è addirittura multipolare
in un’area dall’enorme vastità. Ciascuno fa spregiudicatamente il suo gioco e
le contingenti intese sono dettate – è ovvio – da interessi specifici a prescindere dalle ideologie, politiche e religiose. Al nuovo “Grande Gioco”,
oltre agli Usa, partecipano – ben al di là delle proprie frontiere e con gradi
variabili di autonomia – Russia, Cina, Iran, Turchia, Arabia Saudita, monarchie
del Golfo, Pakistan, India.
Se
nel Vicino Oriente gli Stati Uniti (e alleati) hanno destabilizzato appieno Iraq,
Libia e Siria, e lasciato cadere i loro tradizionali partner in Egitto e
Tunisia, tuttavia la mancata vittoria in Siria e le gesta dei radicali islamici
non solo hanno portato all’intervento esterno sciita e all’impegno russo e
cinese, ma altresì hanno avviato nei settori islamici anti-imperialisti prese
di distanza dai jihadisti disposti a farsi aiutare dall’Occidente. Sotto questo
profilo è interessante la recente presa di posizione dello storico leader di Hamas Mahmud Zahar
(sunnita) ai microfoni di al-Manar, emittente
libanese di Hezbollāh. In buona
sostanza Zahar ha avuto il coraggio di additare la “nudità del re”, condannando
decisamente le cosiddette “primavere arabe” considerandole teste d’ariete che
hanno favorito elementi settari, takfiri e
wahabbiti (leggasi Arabia Saudita) e indebolito le nazioni nel mirino degli
Stati Uniti, così facendo il gioco dell’imperialismo.
I
possibili contrappesi – piaccia o no – sono la Russia e la Cina. Nel Vicino
Oriente soprattutto la Russia, che con Putin (anche qui piaccia o no) ha
superato la fase di rassegnazione al declino che aveva caratterizzato la
presidenza di Yeltsin ed è impegnato (politicamente e militarmente) a un
recupero di potenza. E nel Vicino Oriente la Russia – forte anche del fatto di
aver evitato l’aggressione alla Siria – sta agendo a tutto campo, cercando di
ritessere una rete di alleanze e di amicizie. In primo luogo in Egitto, che
resta il più importante centro del mondo arabo.
I
rapporti del Cairo con gli Stati Uniti attualmente sono più che freddi, il
governo egiziano ha accusato gli Usa di essere dalla parte della Fratellanza
Musulmana, e qui la Russia opera per inserirsi, col palese intento di fare da
contrappeso a Washington. Pare con un certo successo, inizialmente nel campo
degli armamenti. Gli Stati
Uniti di recente hanno congelato una notevole parte considerevole degli aiuti
annuali (1,5 miliardi di dollari); a ciò hanno fatto seguito la sospensione
della consegna di quattro jet da combattimento F-16 e dall’annullamento delle
esercitazioni militari biennali Usa-Egitto. I colloqui svoltisi a novembre fra i ministri degli Esteri e della
Difesa russi – Sergej Lavrov e Sergej Shojgu – con al-Sisi al Cairo, oltre a
vertere sull’insieme dei rapporti fra i due paesi anno affrontato il tema della
cooperazione tecnico-militare, e l’Egitto ha chiesto di poter acquistare dalla
Russia aerei da combattimento, sistemi di difesa aerea e missili anticarro,
sistemi di difesa missilistici terra-aria a breve raggio e a medio raggio Buk-M2,
Tor-M2 e Pantsir-S1, nonché 24 caccia MiG-29M2.
In Iraq la Russia è diventata il secondo
fornitore di armamenti, anche perché il governo locale – diversamente da quanto accade in relazione agli Stati Uniti – non ha di che preoccuparsi sul versante di Mosca, non avendo la Russia interesse alcuno alla cooperazione militare con i curdi iracheni. Certo, è triste che la ripresa di collaborazione in questa fase verta sulle armi, ma tant’è. La situazione regionale è tale che più armi si hanno, meglio si dorme.
Sostanziosi accordi in campo militare si stanno
sviluppando anche con la Giordania; quindi al di fuori dalle tradizionali aree
di influenza dell’Unione Sovietica. Ma qui si va anche oltre al commercio
militare: per raggiungere l’indipendenza energetica riguardo all’elettricità (la
Giordania importa il 97% del proprio fabbisogno, con un costo pari al quinto
del Pil) a ottobre la Giordania ha annunciato la scelta dell’azienda statale
russa Rosatom per trattare la costruzione di due centrali nucleari da
1000 megawatt (MW) nei pressi di Qusayr Amra (circa 60 chilometri a nordest di
Amman, ai margini del deserto) entro il 2022. L’accordo finale con i russi
dovrebbe avvenire nel 2015. Con tale accordo la Giordania diventerebbe il terzo
paese arabo a volere il nucleare civile (dopo gli Emirati Arabi Uniti e
l’Egitto), e c’è da scommettere senza rischio che in questi casi gli Stati
Uniti non faranno storie (qualche dubbio – a seconda di come si evolveranno i
rapporti – può forse sollevarsi per l’Egitto).
Finora
gli Stati Uniti non hanno avuto remore a far sentire la loro pesante mano
militare. Ma dopo l’Afghanistan e l’Iraq alcune cose sono cambiate.
Intendiamoci, la capacità statunitense di deterrenza non è finita ma, pur non trattandosi
affatto di una tigre di carta, gli Stati Uniti hanno una forza imbattibile solo
per eserciti regolari in guerra convenzionale. Laddove può concentrare i suoi
mezzi contro nemici visibili non è possibile vincerli; ma il discorso cambia
nelle cosiddette guerre asimmetriche, quando cioè il nemico è senza volto e
morde e fugge, come hanno dimostrato Vietnam, Iraq e Afghanistan. È quando i
militari statunitensi devono impegnarsi in operazioni di polizia alla ricerca
di un nemico mobile e invisibile in ambiente ostile che il potenziale bellico
Usa diventa inefficace. Oggi la rifocalizzazione dell’impegno Usa si basa su un
concetto fondamentale esposto da Berry Posen: Command of the Commons. Con questo termine si intende la capacità di controllare gli spazi comuni, cioè
oceani, spazio aereo, spazio siderale e cyberspazio. Il controllo
conferisce un vantaggio competitivo fondamentale agli Usa: la possibilità di
negare ad altri stati l’accesso a tale spazio e la possibilità di proiettare le
proprie forze ovunque nel globo ed in tal modo esercitare la deterrenza estesa.
Ciò che dimostra queste tesi è il potenziamento delle forze aeree, navali e
informatiche, tutti mezzi che possono contrastare la libertà di movimento. Ma
anche lo sviluppo di nuovi droni per colpire a distanza il nemico e non
dispiegare le truppe è un segno estremamente importante del cambiamento della
strategia americana. Una strategia che permette tattiche militari flessibili e
veloci basate sui cosiddetti hubs, cioè i nodi di una rete di controllo di networks di comunicazione, suscettibili di diventare basi di partenza degli attacchi.
Tuttavia
la guerra elettronica non è monopolio degli imperialisti, e quando ancora si
conservano vecchie tecnologie a esse si può ricorrere per i casi di emergenza,
come di recente è accaduto all’esercito regolare siriano, colpito da attacchi
elettronici o degli Stati Uniti o di Israele e di entrambi.
[1] Paolo
Sensini, Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente, Mimesis, Milano/Udine 2013, p. 9.
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