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giovedì 7 novembre 2013

LA GRANDE BELLEZZA (Paolo Sorrentino, 2013), di Pino Bertelli

Lo schiavo, nell’attimo in cui respinge l’ordine umiliante del suo superiore,
respinge insieme la sua stessa condizione di schiavo.
Il moto di rivolta lo porta più in là del semplice rifiuto.
(Albert Camus)

I. L’equivoco del genio

Il cinema del mercimonio si nutre di esagerazioni che, alla minima analisi, franano nel banale d’autore o nel ridicolo. La grande bellezza di Paolo Sorrentino è una mescolanza di entrambe le cose. Sappiamo bene che negli artisti senza talento, adorati dalla critica velinara (sinistrorsa), coesistono il millantatore e il profeta incompreso. Dietro la grammatica filmica di Sorrentino si scorgono i dettati e i codici che il cinema italiano — dopo il Neorealismo e una certa commedia di costume, sovente graffiante — ha edulcorato nella ricerca del successo da “tappeto rosso”, dove zoccole dello spettacolo ed esteti della genuflessione fanno scena di sé... e pensare che nessuno ancora non sputa sulle loro splendenti miserie.
Si possono stimare soltanto gli artisti che — in ogni campo della comunicazione — superano quel minimo d’insolenza indispensabile per vivere senza padronati e volgono le spalle all’ordine dell’imbecillità. L’equivoco del genio sta tutto qui. Qualsiasi autore che aderisca al tempo dello spettacolare integrato rappresenta una perdizione del bello, del giusto, del buono, perché la santità, la confessione e il peccato rivelati sono le solite forme sulla quali la mancanza di talento si diletta... il cinema, la critica, il pubblico finiscono con l’accettare qualsiasi formula espressiva, qualsiasi futilità elogiativa, qualsiasi visione della nullità, basta che il prodotto filmico sia conforme alla visione di una vita ordinaria che si autoammira nella putrefazione. Il cinema, come ogni forma d’arte, sarebbe intollerabile senza uomini di genio che la negano. A un certo grado di bellezza, ogni verità diventa indecente.

Il film di Sorrentino è in linea con l’agonia di un cinema, quello italiano, specialmente, che si nutre di spazi nobiliari inesistenti... essere parte del mercato vuol dire apparire là dove esso celebra e si compiace dei propri cerimoniali... la mediologia e la sociologia delle immagini mercantili presumono assoggettamenti e ridondanze, e l’identico sapientemente truccato da “evento”, conferma l’infeudamento dell’impero della merce e aderisce alla cultura dell’ostaggio che sostiene. Detto meglio. L’estetica generalizzata del cinema italiano — e Sorrentino è uno dei massimi fautori — è parte dell’estetizzazione della vita politica di un paese che si spegne, dove gli artisti sono disabituati a dire no!, e solo una bandiglia di passatori dell’immagine cinematografica agisce in forza di una sapienza libertaria che li consegna all’indipendenza e conseguentemente al rogo (all’indifferenza che produttori, distributori, critici gettano sulle loro opere). Là dove gli altri vedono la funzione del cinema come altare di libertà concesse, questi costruttori di sogni lavorano alla nudità di storie che riportano sullo schermo l’innocenza liberata del cinema vero.
Ancora. I cenacoli, i salotti, le kermesse del cinema-merce sono organizzati in favore di film designati a fare da cornice ai castelli, peraltro di sabbia, dove i padroni dell’immaginario decidono la domesticazione sociale... all’interno della civiltà dello spettacolo alimentano il culto dell’inutile e del superficiale, e chiedono ai loro vassalli di affilare l’odio, il rancore, il risentimento contro i cacciatori di bellezza che incrinano alla radice le virtù e i valori borghesi, anche della sinistra incline al caviale o che veste Armani... tutta gente devastata dall’insaziabile sete di potere che danza nelle stanze dell’“ideologia dominante. Va detto. Il potere s’impone grazie al consenso (elettorale, dottrinario, politico) sui quali viene esercitato. L’oligarchia della cultura — di destra o sinistra è la medesima cosa — si arroga il diritto di legittimare il dominio sul maggior numero di sudditi, servi, amministrati, e ciò che conta è tenere al giogo della partitocrazia la loro condizione di vittime scarificali ai dividendi della finanza internazionale.
La feticizzazione del cinema (scuole, festival, sovvenzioni statali discriminatorie) è tesa a consolidare la macchina delle illusioni, invece di farla crollare. Il divenire del cinema autentico nella storia è nel divenire libertario che autori senza collare disseminano ovunque loro è possibile e prendono di mira le fortezze/schermi dell’intollerabile. Il cinema autentico diventa resistenza al potere, perché il potere riduce la vita quotidiana a merce soltanto, e non è male tentare di rovesciare — con tutti i mezzi necessari — l’ordine del mondo.
Ci sono critici (invero pochi) che non sono caduti nella trappola estetizzante di La grande bellezza. Ecco come Fabio Canessa ha letto, in punta di stiletto, il film di Sorrentino:
“Dov’è la poesia? Otto e mezzo è il più bel film della storia e Federico Fellini il miglior regista di tutti i tempi. Eppure sono anche i responsabili dei danni maggiori causati al cinema italiano, che ha abbandonato i generi per inseguire il miraggio di ambiziose autobiografie autoriali e ha considerato degradante raccontare storie, preferendo almanaccare riboboli pretenziosi. Ne è un penoso esempio La grande bellezza, il film uscito in questi giorni, in concorso a Cannes: La Dolce Vita del 2000, affrescata da un Paolo Sorrentino che fa il passo più lungo della gamba e capitombola in una Roma felliniana che del modello mantiene i cliché, ma non l’ispirazione e il genio. Se l’alter ego di Fellini era Mastroianni, quello di Sorrentino è Toni Servillo, un attore sopravvalutato: bravissimo a teatro, al cinema commette sempre l’errore di guardarsi recitare, di volersi troppo bene (e qui è ancora più manierato del solito), tanto da non riuscire mai a scrollarsi di dosso l’aura fasulla di chi sta recitando bene. Nel ruolo di un giornalista, si aggira tra feste cafone, spogliarelliste attempate e sante decrepite, nane e cardinali, giraffe e fenicotteri. La parata di grottesche bizzarrie felliniane è al completo. Ma mancano la poesia, la magia, l’ironia, la pietas e la cultura (Fellini poteva contare su uno sceneggiatore come Flaiano, Sorrentino purtroppo conta su Contarello), per cui lo sguardo del regista che vorrebbe smascherare il vuoto pneumatico della inautentica vita contemporanea risulta a sua volta inautentico e gira a vuoto come la società che sferza. Mancano soprattutto la felicità e lo stupore di esistere (infatti si esce dalla sala avviliti) e manca la speranza nel futuro. Così un film deludente (riscattato dall’abilità con cui Sorrentino sa girare e peggiorato da monologhi sentenziosi da libro stampato) diventa un documento prezioso, da proiettare nelle accademie, per misurare i passi da gambero che l’Italia e il suo cinema hanno fatto in mezzo secolo. E per capire che cosa diventa un film di Fellini senza Fellini: un presuntuoso esercizio di stile sfilacciato in frammenti senz’anima, un kitsch gratuito servito freddo da una messinscena artificiosa. Volendo dimostrare che la realtà è brutta e che il cinema la rispecchia, il film di Sorrentino è abbastanza brutto da aver centrato il suo obiettivo”. Tutto vero.
Di là dalla nostra valutazione su Fellini come “il miglior regista di tutti i tempi”, gli preferiamo senz’altro Welles, Buñuel, Vigo, Godard, Pasolini... la lettura di Canessa del film di Sorrentino è coraggiosa, fuori coro, rispetto alla critica compromessa dei giornali a tiratura nazionale... si vede che Canessa conosce il cinema e si chiama fuori dai paludamenti accademici propri a quanti sono a servizio della ragione indotta... andare oltre l’uniformità significa destituire gli altari innalzati alla gloria di un cinema della miseria, passare dal cannibalismo dell’economia politica a un’etica dei saperi dove l’organizzazione della benevolenza è denudata... in ogni forma d’arte la poesia si erge sull’incompiuto e sottolinea che l’abisso tra intelligenza e stupidità sta nel modo di maneggiare l’interrogazione... c’è sempre una giusta definizione all’origine di tutte le disobbedienze e dare fuoco ai palazzi o ballare sulla testa dei re impedisce di annegare nell’idolatria.


II. La grande bellezza

Il film di Sorrentino, La grande bellezza, è già stato fatto nel 1960, si chiama La dolce vita, il regista è Federico Fellini. Non è nemmeno il suo film migliore, sicuramente il più visto nel mondo della sua opera. Sorrentino non fabbrica un remake, un rifacimento del terzo millennio... si adopera a confezionare un prodotto di basso profilo che viene spacciato dalla produzione, dai commentatori televisivi, dalle schede di accompagnamento... come qualcosa d’importante, qualcuno l’incensa come “capolavoro”. Vero niente. Il regista napoletano muove la macchina da presa (sovente a vuoto) su una Roma che conosce poco e fa delle passeggiate notturne del suo attore feticcio, Toni Servillo (sempre sovra le righe attoriali), una sorta di spot pubblicitario di una metropoli quasi deserta, quasi fosse un palcoscenico teatrale dove si muovono personaggi goffi, abbrutiti, falsi, da reality televisivo. Le sregolatezze, le dismisure, le cadute esistenziali sono letterarie, una specie di formulario estetico nel quale nessuno sembra credere a quello che fa e ciò che fa riflette un totale mancanza di idee, dove l’indecenza del falso abbonda nel mascherato, nel conforme dove ciascuno è modello di qualcosa di già visto e qui citato fuori luogo. Pensiamo alla surrealtà felliniana, quanto alla realtà tragica di Mamma Roma, dove Pasolini racconta che c’è sempre qualcuno che preferisce l’ingiustizia dell’ordine istituito alla giustizia della propria madre. La grande bellezza non è nemmeno paragonabile all’affresco felliniano che anticipava la società spettacolare degli anni sessanta, annunciata meglio dalla filmografia di Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio e perfino dalla protocritica della quotidianità di Pietro Germi, Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Francesco Rosi. Per difendere la bellezza, i greci presero le armi, Albert Camus, diceva. La bellezza, come la libertà, non si concede, ci si prende.
Il film di Sorrentino è un coacervo di storielle così pedanti da far rimpiangere perfino certi siparietti di Alberto Sordi, con i quali il comico romano riusciva a demitizzare morali e ingiunzioni della società dell’apparenza. Sorrentino sembra prendersi sul serio. Sfoggia inquadrature ricercate e si abbandona a visioni sinistre (che sfociano nell’horror da B-movie) spalmate lungo l’intero film... le allegorie non mancano (la giraffa) e nemmeno piccole mostrificazioni (la nana che governa un giornale o Serena Grandi, elefantesca, che esce da una “torta” di cartone)... il cartolinesco giganteggia ovunque, anche negli interni, l’attenzione all’arredamento è preponderante e l’attorialità sbriciolata fino all’inconsistenza fanno di questo film una baracconata invedibile.
La storia. Jep Gambardella (Toni Servillo) è un giornalista di costume, critico teatrale, opinionista (la sobrietà interpretativa di Marcello Mastroianni in La dolce vita mostra che nel cinema meno “mossette” si fa meglio si configura il ritratto del personaggio, come Humphrey Bogart, Jean Gabin o Erich von Stroheim insegnano)... gli piace vivere di notte tra feste e camminate nelle strade “buone” della città eterna... abita in una casa di fronte al Colosseo... è autore di un solo libro, citato con dovizia di particolari, “L’apparato umano”. È il principe della mondanità romana... il cantore supremo del nulla, tuttavia molto considerato da drammaturghi falliti (Carlo verdone), scrittrici di sinistra, spogliarelliste, donne di mezza età, cardinali rincoglioniti e condivide la sua solitudine con la serva di colore. C’è Ramona (Sabrina Ferilli, una mummia senza bende) che affascina Jep ma preferisce la sua compagnia che farci l’amore, la espone fuori luogo e quanto basta ad infatuare i devoti del nudo gratuito. Le chiacchere e i sermoni si sprecano. Sorrentino vorrebbe descrivere la decadenza della borghesia capitolina (forse) che dispiega i suoi deliri sulle terrazze di Roma, ma ciò che ne esce dal suo film è il pittoresco e, in fondo, l’assoluzione di una casta che la notte si ubriaca e il giorno fustiga, reprime, sfrutta gli esclusi per mantenere i propri privilegi (ma questo Sorrentino non lo dice). Se This Must Be the Place (2011) era orrendo, qui perfino Sean Penn recita come un attore da parrocchia, La grande bellezza è ancor peggio. La cartografia di un’epoca si misura dalla disaffezione alla politica, religione, economia che produce e si afferma solo grazie agli emarginati che provoca. La velata critica alla chiesa di Sorrentino è da fumetto, si parla di piatti culinari invece che di implicazioni criminali con i trafficanti d’armi... la chiesa tollera anche il dissenso, soltanto a patto che poi i dissennati si mostrino servili e vigliacchi... c’è sempre un papa al principio e alla fine di ogni genocidio dell’intelligenza... la scienza delle lacrime non teme immoralità.
Il cast di Sorrentino è nutrito... le esibizioni di Servillo, Verdone, Ferilli, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Franco Graziosi, Serena Grandi... sono poco più che patetiche macchiette da avanspettacolo e si resta basiti (non troppo) della loro inconsistenza attoriale. Il soggetto (Sorrentino) è una scopiazzata felliniana di nessuna rilevanza e la sceneggiatura (Sorrentino, Umberto Contarello) è, a dire poco, confusa, quanto stesa come una sceneggiata napoletana. La scenografia e i costumi (Daniela Ciancio, Stefania Cella) è roba da soap-opera. Il montaggio (Cristiano Travagioli) allunga gli intrecci sequenziali nel cineromanzo e insieme alla musica (Lele Marchitelli) ammorba il film fino alla noia o all’uscita dal cinema. In qualche modo la fotografia (Luca Bigazzi) riesce a figurare una Roma a volte vedibile, ma non impedisce il naufragio del film.
La grande bellezza figura la fisionomia di un fallimento, quello della pretenziosità sulla quale il regista ha fondato il culto di se stesso, più ancora è un casellario di nozioni cinematografiche dove si santificano i funerali del cinema che vale e tutto si degrada in ripetizioni inutili, in un cattivo edonismo che è il pretesto per giustificare scenari o esercizi di stile dove la bellezza e la giustizia sono calpestate nel fervore di diventare santi, martiri o eroi di un mondo di celluloide (o digitale) che non merita essere difeso, ma aiutato a crollare. I film dell’immaginario liberato sono più lievi delle ali degli angeli ribelli e nel cimitero della macchina/cinema riposano i princìpi e le formule... non c’è alcun bisogno di credere nel cinema per sostenere le menzogne e i tradimenti di un’epoca dove la politica, la religione, la finanza, la cultura giustiziano ogni forma di democrazia partecipata, ogni misfatto è dimostrabile ad ogni farsa elettorale e anche nell’ossario della sinistra la stoltezza regna ma non governa a fianco degli impoveriti... un popolo muore quando non ha più la forza di inventare nuove insubordinazioni. Anche il (questo) cinema è da distruggere.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 29 volte maggio 2013

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