La tempesta di
bombe preannunciata da Obama e Kerry non c’è stata; Putin ha ottenuto una grande
vittoria diplomatica; della flotta statunitense concentrata davanti alle coste
siriane sono rimaste solo tre navi; gli ispettori dell’Onu lavorano per lo
smantellamento dell’arsenale chimico siriano; la fibrillazione internazionale
pare cessata. Il conflitto armato in Siria, invece, continua alla grande.
Parlare di “guerra
civile” - come ancora fanno i grandi media - non sembra più corretto, essendo ormai
palese che la stragrande maggioranza dei combattenti contro Assad sono
jihadisti stranieri, tra cui europei malamente converti all’Islam. Il conflitto
continua, non se ne vede la fine; per giunta si complica sempre di più e -
restando così le cose - quando finirà sarà solo con la vittoria totale di una
delle parti e il massacro dei vinti. Il fatto che già ora nessuno faccia
soverchi prigionieri, è sintomatico.
Per fornire
un’idea del livello “culturale” dello scontro intraislamico in atto, e del
livello di odio che ne fa parte e lo alimenta, valga l’esempio di due predicatori
- uno sciita e l’altro sunnita - operanti con televisioni e social network in Gran Bretagna. Sullo
schermo TV lo sciita Shaykh Yasser al-Habib
se la prende col Califfo Umar (secondo successore del Profeta) e riverito dai Sunniti,
definendolo usurpatore e pervertito; mentre il predicatore saudita sunnita,
Muhammad al-Arifi - che si dice abbia cinque milioni di seguaci (!) su Twitter
- è ormai specializzato nel mettere in guardia i suoi confratelli circa la
perfidia sciita che porta questi eretici (quindi peggio che infedeli) a rapire
i bambini sunniti, bollirli, spellarli e poi a buttarne i cadaveri così
conciati davanti alle case dei genitori. E la gente, soprattutto la parte più
povera e incolta, purtroppo ci crede; come non si hanno dubbi che in Libano gli
Sciiti abbiano la coda! Demoniaci, quindi. Siffatti “argomenti”, per quanto
appaiano anacronistici e siano un eco ridicolo dei secoli più bui del Medio
Evo, in realtà non vanno sottovalutati, perché è anche per la mentalità da essi
indotta che certa gente ammazza indiscriminatamente e si fa ammazzare, felice
di fare la “volontà divina”.
Le complicazioni e i pericoli del conflitto si proiettano
oltre frontiera
All’inizio
le parti in causa erano due: l’esercito regolare, fedele al governo, e i
ribelli apparentemente inquadrati nell’Esercito Libero Siriano (Els), di cui
peraltro non si è mai saputo molto. Lo schema era semplice, sul piano formale:
un governo tra il fortemente autoritario e il tirannico da un lato, e i ribelli
considerati ai quali media e governi occidentali
dettero subito la patente democratica. Che dubbio c’era su chi parteggiare?
Oggi le
cose appaiono in una luce diversa e più complessa, per almeno due motivi.
Innanzitutto, dopo il blitz jihadista nell’antichissima città
cristiano-ortodossa di Maalula - nelle cui chiese le tombe dei santi locali
erano oggetto di pellegrinaggi sia di sciiti sia di sunniti (oggi è meglio
evitare) - con relative uccisioni di cristiani locali, e dopo la reazione dei
cristiani di Damasco ai funerali delle vittime di Maalula, dove in parecchi si
sono presentati armati, qualche osservatore ha cominciato ad avviare
riflessioni non più in linea con lo schema precedentemente e acriticamente
assunto. Inoltre, all’interno del fronte dei ribelli c’è stato lo scoppio di
una vera e propria guerra fra l’Els e ben tredici formazioni jihadiste (armate da
Arabia Saudita, Qatar, e Turchia) unitesi alla bisogna contro i cosiddetti
“moderati”; sono: Al-Nusra Front, Free of Levant Movement, Tawhid Brigade, Islam
Brigade, Hawks of Levant Brigades, Dawn of Levant Movement, An-Noor Movement, Nureddin
al-Zenki Phalanges, Right Brigade (Homs), Forqan Brigades (Quneitra), Upright as Ordered
Gathering (Aleppo), The Nineteenth
Division, al-Ansar Brigade. Queste formazioni si sono fuse in al-Jaish al-Islam (Esercito dell’Islam).
Ormai è sufficientemente
chiaro che il governo di Assad lotta nella sostanza contro il radicalismo
sunnita, più che contro i sunniti in quanto tali. Gli Alawiti, al potere da
quaranta anni con gli Assad, sono una minoranza etnico-religiosa (il 12% circa),
ma la maggioranza sunnita non è ai livelli egiziani (sono il 60%). Non si può
negare che gli Assad abbiano saputo costruire accorte alleanze ed equilibri: parte
del potere economico è stato lasciato in mani sunnite e le altre minoranze (Curdi,
Cristiani delle varie confessioni e Drusi) sono state spesso protette. L’effettivo
patto sociale durato 40 anni è saltato nella primavera del 2011 allorché alle
manifestazioni sviluppatesi sulla scia degli avvenimenti tunisini ed egiziani, espressive
di malessere sociale per disoccupazione soprattutto giovanile, povertà diffusa
e divario economico crescente fra ceti emergenti o già emersi e parte della
popolazione, il regime ha stupidamente risposto con la repressione armata,
causando la contro-reazione altrettanto armata di parte dei protestatari.
Gli Stati
Uniti attualmente stanno aumentando gli aiuti militari all’Els, ma non sembra
con molto costrutto per la modifica dei rapporti di forza tra i ribelli. La
conclusione è che oggi le formazioni armate radicali d’impronta wahhabita e
salafita sono diventate dominanti nelle zone cosiddette “liberate” della Siria
(dovrebbero essere addirittura il 95%), con l’immaginabile “gioia” della
popolazione locale rimasta lì intrappolata. A complicare di più lo scenario c’è
il fatto che un progresso dei salafiti potrebbe accentuare lo scontro fra essi
e il cosiddetto Islamic State of Iraq and Levant collegato con al-Qaida;
anzi, già nel nord della Siria ci sono stati combattimenti con quest’ultima
fazione. La sanguinosa frantumazione del fronte dei ribelli al momento nuoce all’Arabia
Saudita – che appoggia i salafiti ma è nemica di al-Qaida - ma se dovessero prevalere tra i ribelli le formazioni
radicali salafite e wahhabite, allora potrebbe segnare punti a suo favore
(fatto salvo quanto si dirà in prosieguo). Comunque, l’attuale situazione
indebolisce il fronte anti-Assad, contro cui infatti l’esercito governativo sta
aumentando con successo i suoi attacchi.
Al
momento, sul terreno la situazione bellica è in una fase di stallo, nel senso
che ancora l’esercito governativo non è stato in grado di sferrare un colpo
decisivo ai ribelli. Ma Assad è lungi dall’essere sul punto di subire un
collasso militare che ne causi la caduta. L’esercito regolare controlla i
grandi centri urbani, la fascia costiera e il corridoio Damasco-Aleppo; in
totale una buona parte del territorio nazionale, mentre i ribelli appaiono
insediati a est verso l’Eufrate e a nord. In teoria potrebbero ancora
conquistare grossi centri abitati; tenerli appare ben più difficile, non
disponendo del necessario armamento pesante.
A questo
punto Bashar al-Assad potrebbe modificare l’attuale situazione se riuscisse a
unire un’efficace azione politica alle iniziative belliche delle sue Forze armate, ma non già aspettando le elezioni presidenziali del prossimo anno (che
sicuramente vincerà, a parità di condizioni), bensì facendo leva sulle
divergenze interne al fronte dei ribelli in modo da condurne una parte al
tavolo dei negoziati.
Nelle
guerre in corso in Siria si assiste a mobilitazioni di minoranze etniche e
religiose il cui peso – soprattutto a seconda di chi vinca – non tarderà a
farsi sentire. Va subito registrata la mobilitazione di milizie curde (alquanto
agguerrite) in funzione anti-jihadista, e
quindi di fatto al lato di Assad. Altresì va sottolineata (cosa ancora poco
nota, ma di recente il settimanale tedesco Die
Welt ne ha fatto oggetto di un interessante reportage) la formazione di
milizie cristiane, alcune delle quali si stanno addestrando con le milizie curde.
Situazione tutt’altro che scontata, se per esempio si pensa che nel 2011, quando
cioè iniziarono manifestazioni e rivolte, i cristiani di Qamishli (governatorato
di Hassaké), erano favorevoli alla fine del regime e all’avvento della
democrazia rappresentativa da realizzare con i musulmani e le altre minoranze.
L’arrivo dei jihadisti ha cambiato tutto, ed ecco che i cristiani di Siria oggi
stanno con Assad, ovviamente visto come male di gran lunga minore. E oggi
proprio a Qamishli proliferano i check-point
vigilati da miliziani cristiani. Inutile dire che il governatorato di Hassaké -
a cui curdi e cristiani tengono moltissimo - ha anche un grande valore
economico, e si capisce perché sia oggetto delle mire dei jihadisti: è una delle
regioni più ricche della Siria (al confine con la Turchia e l'Iraq) contenendo
il 60% delle riserve di petrolio e gas del Paese.
Il travasarsi
del conflitto siriano oltre le frontiere di quel Paese è per lo più visto alla
luce dell’acuirsi degli attentati sunniti contro gli sciiti in Iraq, Libano e
Pakistan. Questo è vero, ma le cose non si riducono a ciò: nel “brodo di
coltura” del Vicino Oriente sono in fermentazione vari fattori. Innanzitutto
si deve tener presente il successo conseguito in Siria dalle formazioni di Hezbollāh intervenute al fianco
dell’esercito regolare. Naturalmente questa volta l’impresa non ha riscosso
entusiasmo nel milieu musulmano in quanto
tale, bensì solo tra gli Sciiti; ma questo è irrilevante sia per Hezbollāh sia per un osservatore
esterno. A contare è invece il modo in cui le milizie di Hezbollāh si sono forgiate nel conflitto siriano; a contare è il
loro salto di qualità sul piano bellico. Tra i sostenitori si parla di
passaggio dall’essere il miglior movimento
guerrigliero del mondo all’essere diventato un esercito regolare sempre più in
grado di confrontarsi con Israele.
Anche volendo fare la tara sulle esagerazioni
propagandistiche, sta di fatto che non solo non c’è stato il rientro delle
previste (e auspicate) “colonne di feretri” dalla
Siria al Sud del Libano e alla parte sciita di Beirut, ma oggi anche
commentatori israeliani - dopo
le decisive azioni di al-Qusayr, Talkalakh e nella zona di Aleppo - prendono atto (con comprensibile preoccupazione) del salto qualitativo
compiuto dalle milizie di Hezbollāh che le mette in condizione di realizzare complesse
operazioni combinate a livello di battaglione e anche di reggimento. Si
aggiunga che a contatto con l’esercito regolare siriano i miliziani sciiti avrebbero
appreso sul campo un uso più professionale dell’artiglieria leggera e media e
dei mortai, oltre a come gestire le chiamate di sostegno dei pezzi a lunga
gittata o dell’aviazione. Un ragionamento analogo (quand’anche non uguale)
potrebbe farsi per i Pasdaran iraniani e per i miliziani sciiti iracheni
intervenuti in Siria al fianco dei libanesi di Hezbollāh.
In quel “cortile di casa” che per la Siria è il
Libano, inoltre, vanno registrati taluni fenomeni, anch’essi tutt’altro che
scontati e significativi. Ci riferiamo al fatto che l’ex generale maronita ed
ex primo ministro libanese Michel Aoun sia oggi il leader del Libero Movimento Patriottico Libanese, formazione maronita alleata di Hezbollāh e del vecchio partito sciita Amal nella coalizione detta “dell'8 marzo”; e poi va menzionato il messaggio apparso
non molto tempo fa su una pagina Facebook dedicata ai politici libanesi, in cui un gruppo di giovani cristiani ortodossi così si è rivolto a Nasrallah, leader di Hezbollāh:
«Dai vostri fratelli Cristiani che vogliono assistere e aiutare la Resistenza Libanese e l'Esercito Arabo Siriano che ogni giorno lottano e si sacrificano contro i takfiri stranieri. Vostra Eminenza Sayyed Nasrallah, siamo un gruppo di giovani Cristiani che non resiste più nel vedere i nostri correligionari uccisi e torturati in Siria, i nostri Arcivescovi rapiti e offesi, la nostra Storia e la nostra Cultura messe in pericolo da questi estremisti che non rappresentano nulla se non la loro meschinità e crudeltà nascoste sotto una parodia dell'Islam; gli abusi e le enormità di costoro non causano reazioni da parte dell'Occidente “cristiano” o delle gerarchie religiose delle nostre Chiese. Per questo, Vostra Eminenza, vi chiediamo di permettere che le porte della sua organizzazione si aprano e ci venga permesso di unirci agli Eroi che difendendo la Siria, difendono anche i Siriani cristiani; vorremmo poter formare una nostra unità nelle vostre fila, una unità dedicata ai nomi di Issa e Mariam (Gesù e Maria) che unisca i propri sforzi a quelli dei vostri altri seguaci per conseguire prima la necessaria vittoria sui barbari takfiri. Sarebbe un onore per noi aggiungere i nostri martiri, martiri cristiani, a quelli che già si sono immolati per la libertà di al-Qusayr, dove erano presenti molti nostri fratelli».
Complicazioni nel mondo arabo: le frizioni fra Arabia Saudita e Stati Uniti
Giorni fa, ai vertici delle
Nazioni Unite si è avuta una clamorosa ripercussione dello scontento di certi
settori reazionari del mondo arabo per l’ondivaga e inconcludente politica
dell’amministrazione Obama: il 18 ottobre l’Arabia Saudita ha rifiutato di
entrare a far parte del Consiglio di Sicurezza al quale era stata eletta come
membro non permanente dopo un lungo periodo di lavorio a tale fine; ha così espresso
il dispiacere del suo monarca assoluto per il rifiuto statunitense di
bombardare la Siria e per il timore che Obama possa inaugurare un nuovo corso
nelle relazioni con Teheran. È un chiaro segnale, che fa capire come ormai la
posta in gioco nel Vicino Oriente sia una soluzione di lunga durata (ovviamente
in termini di egemonia) per il più antico conflitto interno al mondo islamico.
Il conflitto siriano in caso di vittoria di Assad, nonché un’eventuale
accertamento dei fini non-militari del nucleare iraniano riaprirebbero in
termini ben diversi dagli attuali il problema delle oppresse minoranze sciite
in Arabia Saudita, Bahrein, con estensione allo Yemen. È comprensibile che
tutto ciò crei fibrillazioni capaci di suscitare dissapori anche fra alleati di
vecchia data sì, ma portatori - ciascuno - di interessi propri.
La situazione saudita e quella
del Bahrein sono del tutto ignote: le maggiori riserve di petrolio saudita
sono in zone a maggioranza sciita, e nel Bahrein il monarca e la minoranza
sunnita esercitano un potere arbitrario sulla maggioranza sciita. Meno noto è
il caso yemenita. Le pesanti infiltrazioni wahhabite in questo Paese - oltre a
quelle di al-Qaida - ne fanno un
ulteriore campo di battaglia per le due grandi componenti religiose dell’Islam,
e chiariscono perché anche l’attuale governo dello Yemen sostenga i teorici “ribelli” Houthi (sciiti, appoggiati dall’Iran) delle province di
Sa’adah, al-Jawf e Hajja, guarda caso confinanti con l’Arabia Saudita. Se si
considera che il 65% degli iracheni è sciita e che forti comunità sciite sono
presenti anche in altri paesi del Golfo Persico (Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi
Uniti) si comprende l’entità della posta in gioco e dell’inerente polveriera la
cui messa in sicurezza è ostacolata dall’insieme di forze storiche in gioco da
secoli e secoli. Qui tutti sono nemici di tutti, e se vi è una convergenza su
taluni obiettivi, altri ne esistono e in grado di rendere sostanzialmente
precarie le predette convergenze, come abbiamo già rilevato.
Si tratta
di una situazione che mette ancor più in luce la criminalità dell’intervento
imperialistico, poiché ogni minimo squilibrio da esso causato crea reazioni a
catena alla fin fine negative anche per chi le provoca. Restiamo allo Yemen: se
al nord è teatro di dissidenza sciita, al sud invece l’infiltrazione di al-Qaida trova condizioni favorevoli. Al
momento il governo yemenita ha l’appoggio degli Stati Uniti, un po’ meno quello
dell’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita appoggia in tutto il mondo islamico wahhabiti,
salafiti e movimenti filosciiti, tuttavia per la galassia di al-Qaida il suo regime andrebbe
rovesciato, e lo stesso auspicherebbe al-Qaida
per quello dell’Iran sciita, a sua volta nemico dell’Arabia Saudita.
Alla fine della settimana contrassegnata dal “gran rifiuto saudita” il principe Bandar bin Sultan, in un incontro a Geddah con diplomatici occidentali avrebbe preannunciato - secondo il Wall Street Journal - un “cambiamento di rilievo” nei rapporti con gli Stati Uniti, lasciando intendere che ciò si sarebbe proiettato sugli ultramiliardari contratti per la fornitura di armamenti statunitensi in cambio di condizioni favorevoli per le forniture di greggio. Sulla questione il Segretario di Stato John Kerry ha “fatto il vago”, ma il problema resta.
Infatti
sulla questione siriana Stati Uniti e Arabia Saudita puntano a soluzioni
diverse: alla fine sembra che a Washington si siano capiti i rischi esistenti, e si stia preferendo una qualche
soluzione diplomatico-politica che eviti la frammentazione della Siria, tant’è
che finora non hanno inviato armi sofisticate ai ribelli; l’Arabia Saudita,
invece, avrebbe voluto un massiccio intervento occidentale considerando che, in
mancanza, la vittoria sarebbe nelle mani di Assad, e non ha i problemi
statunitensi per il dopoguerra in quanto appoggia gruppi estremisti.
A ciò si
aggiunga che l’Arabia Saudita vive con intensità tutta particolare (e del resto
motivata dalla geopolitica) il gioco di scacchi in corso per la supremazia
nella regione, e il fatto che l’altro giocatore sia l’Iran, sciita, e con un
particolare regime che coniuga il Corano con istituzioni politiche di stampo
occidentale e una formale democrazia parlamentare; tutte cose che la
numerosissima famiglia reale saudita teme come la peste sia per motivi
religiosi, sia perché contrastanti con il suo assolutismo monarchico. Del
problema delle minoranze sciite esistenti nel regno già si è detto.
E infine sono
da tener presenti due fattori: nel citato gioco di scacchi c’è anche la
questione del nucleare iraniano, con ciò che esso implica. Di modo che esiste
il timore che un eventuale accordo globale fra Stati Uniti e Iran possa avere
come conseguenza una minor importanza per la partnership fra Stati Uniti e Arabia Saudita. Infine, ma non da
ultimo, a rendere oggi poco affidabile Washington - come avrebbe sostenuto
“dietro le quinte” lo stesso re Abd Allah - c’è ancora fresco il precedente dell’Egitto,
cioè del modo con cui gli Stati Uniti hanno abbandonato Hosni Mubarak al suo
destino, magari dandogli anche una spintarella. Da qui la spontanea domanda: e
se accadesse anche nella Penisola arabica?
Rimanendo
con i piedi per terra, e pur dovendosi prendere atto di frizioni di una certa
consistenza a motivo dei soggiacenti interessi strategici, pensare che dietro
l’angolo ci sia la rottura di una tradizionale alleanza (interessata) sarebbe illusorio.
Petrolio e al-Qaida sono ancora un
collant non privo di attuale efficacia. Comunque, come dicono i britannici, never say never again. Se ancora oggi
Stati Uniti e Arabia Saudita hanno bisogno gli uni dell’altra, e viceversa, non
si può affatto escludere che un domani (non necessariamente lontano) il bisogno
si attenui, e la partnership - se resisterà - muti nella sostanza con
diminuzione dell’importanza dell’Arabia Saudita: sullo sfondo, infatti, c’è la
questione dal gas di scisto, un controverso progetto su cui però gli Stati
Uniti stanno scommettendo per raggiungere l’autosufficienza energetica a medio
termine. Se così sarà nella penisola araba, e non solo, inizierà una nuova e
complicata pagina di storia.
Stati Uniti e Israele
Il 1°
gennaio dell’anno scorso il quotidiano israeliano Jerusalem Post ha pubblicato un articolo contenente un’analisi a tutt’oggi in buona parte valida:
«[…] non vi è nulla di nuovo nel conflitto fra musulmani sunniti e musulmani sciiti, ma è una novità che tale conflitto sia diventata una delle caratteristiche a livello regionale in tempi moderni. In fondo, finché imperavano regimi di stile laico che predicavano identità arabe nazionaliste onnicomprensive, le differenze fra comunità religiose restavano in secondo piano. Ma una volta che si sono affermati regimi islamisti, la teologia è tornata centrale, come secoli fa. Ma non si fraintenda la situazione: quella in atto è fondamentalmente una lotta per il potere politico e per le ricchezze. Quando stati o movimenti sunniti e sciiti si combattono, si comportano come soggetti politici dotati di obiettivi, tattiche e strategie. La forza e l’influenza crescenti del regime islamista iraniano hanno posto gli islamisti arabi sunniti di fronte a un grosso problema. In linea generale non amavano l’Iran perché era persiano e sciita, però rappresentava l’unico regime islamista sulla scena. È così che la palestinese Hamas, organizzazione araba islamista sunnita, è diventata un cliente sottomesso all’Iran. La guerra Iran-Iraq (degli anni ’80) rifletteva questi antagonismi, in modo particolarmente evidente nella propaganda irachena. Peraltro il regime iracheno era comunque in grado di tenere sotto controllo la sua maggioranza sciita. Successivamente la rimozione di Saddam Hussein ad opera di una forza internazionale guidata dagli Stati Uniti ha scoperchiato la questione dei rapporti fra comunità all’interno dell’Iraq. Gli sciiti iracheni sopravanzano i loro vicini sunniti con un rapporto di tre a uno, per cui sono destinati a vincere automaticamente qualunque elezione, specie se i curdi iracheni si chiamano fuori, preferendo quello che è, di fatto se non di diritto, il loro stato nel nord dell’Iraq. Nonostante la presenza di elementi antiamericani e di al-Qaida, l’insurrezione sunnita in Iraq è stata essenzialmente un estremo tentativo da parte dei sunniti di recuperare il potere. Il tentativo è fallito e adesso, pur continuando le violenze, i sunniti porranno l’enfasi principale sul negoziare la divisione del potere meno peggio possibile. Anche in Libano gli sciiti hanno trionfato, guidati da Hezbollāh e aiutati da Siria e Iran.
Ma tutto questo avveniva prima dell’anno 2011. La “primavera araba” è stata invece una faccenda quasi interamente sunnita: per alcuni versi l’equivalente sunnita della rivoluzione iraniana del 1979. Solo nel Bahrain, dove erano oppressi, gli sciiti sono passati all’offensiva. Quelle in Egitto, Tunisia e Libia sono state tutte insurrezioni sunnite contro governi arabi sunniti. […] In questo quadro, uno dei fattori in gioco è la persistente indisponibilità della maggioranza degli stati arabi ad accogliere fra i propri ranghi l’Iraq governato dagli sciiti. L’Iraq non diventerà un satellite dell’Iran. Certamente si sente più a proprio agio in un blocco sciita, ma probabilmente continuerà a starsene relativamente distante dagli affari regionali. […] Possono questi blocchi unirsi efficacemente fra loro contro Stati Uniti, occidente e Israele? Per dirla in una sola parola: no. Le loro lotte per il potere regionale e per il controllo di singoli stati (Bahrein, Libano, Siria e, in misura minore, Iraq) li terranno impegnati nei conflitti. Persino l’unanimismo anti-israeliano verrà sfruttato da ciascuno per i propri interessi.
Per lo stesso motivo, però, le speranze in un’evoluzione in senso moderato sono ridotte al minimo. In una regione dove regimi e movimenti fanno a gara nel dimostrare la loro combattività e la fedeltà ad una interpretazione estremista dell’islam, nessuno vorrà mostrarsi disposto a fare la pace con Israele. E i regimi collaboreranno con gli stati Uniti solo se saranno convinti che l’America può e vuole proteggerli: una speranza piuttosto vana con un’amministrazione Obama ansiosa di farsi amici fra gli islamisti.
C’è poi un altro aspetto da sottolineare in questa rivalità fra sunniti e sciiti, in questo formarsi di blocchi, nella loro competizione in fatto di combattività e nello scontro per il controllo di singoli stati. Ed è che la regione continuerà a mietere vite umane, dissipando sangue, tempo e risorse nella battaglia politica, giacché la lusinga dell’ideologia e del potere, anziché il pragmatismo e la produttività economica, continua a predominare anche dopo che sono caduti i vecchi regimi».
Indubbiamente la riaccensione di uno scontro nato agli albori
dell’Islam, e apparentemente sopito, si deve alla rivoluzione islamica
iraniana, che per un verso ha fatto risvegliare le altre comunità sciite sparse
nel mondo arabo, ma per un altro verso ha scosso le comunità sunnite. Questo
effetto è stato in buona parte trascurato dai governi occidentali, profondi
ignoranti delle articolazioni e della complessità del mondo islamico, da sempre
più preoccupati a difendere o ripartirsi zone di influenza (soprattutto se
petrolifere), incapaci di rendersi conto che - per ragioni storiche e culturali
- il virus del radicalismo islamico non
poteva provenire dall’area sciita, della quale peraltro poco e nulla sapevano e
sanno.
Oggi nel
Vicino Oriente si è realizzata una polarizzazione netta e conflittuale fra
blocco a egemonia sunnita (Arabia Saudita, Emirati del Golfo, Giordania,
Turchia; per il momento l’Egitto è in una sorta di limbo) e blocco sciita
(Iran, Iraq, Siria, Libano, con adepti nella penisola araba), rispettivamente
appoggiati da Stati Uniti e Russia. Tuttavia questo appoggio statunitense in
astratto non si spiega né sotto il profilo della convenienza strategica, né in
termini di coerenza con la lotta al radicalismo jihadista, né con la possibile
riottosità degli attuali alleati, giacché verso gli Stati del blocco sunnita -
Turchia a parte - Washington disporrebbe comunque di strumenti di ricatto, e
quindi di riduzione della loro autonomia operativa.
Qualcosa
si chiarisce, invece, se si mette nel conto il ruolo di Israele, con le sue
immediate esigenze regionali e la sua inimicizia militante e militare con Hezbollāh e l’Iran. In ragione
dell’esistenza di una potente lobby elettorale sionista negli Stati Uniti, si
può presumere che la scelta di fondo antisciita e filosunnita dipenda da ciò.
In termini pragmatici, invece, agli Stati Uniti converrebbe di più normalizzare
i rapporti con Teheran, magari previo negoziato ad ampio raggio; e da qui potrebbero
derivare anche risultati positivi per la crisi siriana, acquisendo “punti”
rispetto alla diplomazia di Putin, finora rivelatasi di ben maggiore efficacia.
Un simile scenario piace poco a Israele, ai sionisti nel mondo e ai loro amici.
La posizione antiraniana di Israele è netta e senza sfumature. Resa ancor più
dura dal fatto che finora Israele ha subìto la sua unica sconfitta militare a
opera di Hezbollāh. Quindi, fra il
dover fare e il fare si pongono difficoltà per la manifesta impotenza degli
Stati Uniti a smarcarsi da Israele.
Al
momento, per quanto si sia arrivati al limite, in teoria ancora si potrebbe
operare per fermare il conflitto siriano, ma certamente senza conferenze
ginevrine dalla dubbia rappresentatività. Poiché Lady Ashton e il resto dell’Ue
non sanno che fare, e nulla fanno, l’iniziativa dovrebbe provenire da Obama,
che purtroppo non è uno statista audace. Vale a dire, prima di dar luogo al
balletto dei negoziati sarebbe opportuno preparare loro il terreno, il che
potrebbe con una classica “giravolta” di Washington: costringere l’Els - magari
col taglio dei rifornimenti - a cessare la lotta armata, staccarsi dal resto
dell’insorgenza e aprire trattative con Assad che coinvolgano la Russia e
attori regionali sunniti e sciiti, puntando a formule di garanzia che
tranquillizzino tutte le parti in causa (gli estremisti, comunque, non li
tranquillizza nessuno).
Alternative
positive non se ne vedono. Quindi il conflitto potrebbe proseguire con la
rielezione di Assad alla presidenza nel 2014, coinvolgere ancor di più
Libano e Iraq (che già sono coinvolti) fino a dare luogo a una deflagrazione
regionale dall’effetto “aspirante” dalla Turchia, all’Arabia Saudita e
all’Iran. Con l’incognita devastante del dove interverrebbe Israele. Ci sarebbero
- inevitabile - un acuirsi del settarismo a 360° e l’estrema difficoltà a
contenere il radicalismo jihadista. In un tale contesto non è escludibile a priori che comunque possa venir fuori un
“pacificatore”, oggi non individuabile, ma in questa ipotesi il problema
sarebbe relativo alla sua connotazione e alle possibilità offertegli dalla
situazione. Cioè a dire, potrà indicare e indicherà soluzioni all’insegna del moderatismo, oppure potrà indicare e indicherà
soluzioni radicali, suscettibili di innescare un’altra guerra? E che ne sarebbe della
Siria: ancora Stato unitario, o frammentazione in due, tre o quattro staterelli
omogenei sul piano etnico-religioso?
Se ci si basa sul concreto, si deve
ammettere che l’unico possibile esito per il conflitto consiste proprio nel
realizzare una spaccatura definitiva nel fronte dei ribelli, con l’isolamento
delle componenti radicali (ultramaggioritarie, però) e il concentrarsi dello
sforzo bellico su di esse grazie anche ai massicci armamenti russi,
contemporaneamente patteggiando con gli oppositori “ragionevoli” spazi di
democrazia meno formali degli attuali. E quindi puntare all’annientamento sul
campo dei radicali islamici. Questo ragionamento appare cinico, e in effetti lo è; tuttavia
si basa sui precisi e recenti precedenti storici: il rientro nei paesi
d’origine dei jihadisti attualmente operanti in Siria
vorrebbe dire - così come è accaduto con il rientro in patria dei reduci
dall’Afghanistan - la destabilizzazione di pressoché tutti i paesi islamici,
nonché il terrorismo di riflusso dei jihadisti europei nel vecchio continente.
In teoria non si potrebbe neppure
escludere un’intesa di maggior spessore realizzata fra Russia e Stati Uniti;
non si vede, però, come essi potrebbero poi imporne il rispetto agli attori regionali
interessati. Il problema è che nel guazzabuglio siriano anche attori teoricamente
e apparentemente dalla stessa parte della barricata in realtà sono portatori,
ciascuno, di interessi propri e in conflitto
fra loro. Si pensi all’Arabia Saudita. Nemica di al-Qaida e attiva appoggiante
dei gruppi jihadisti, deve però fare i conti con le formazioni rientranti nella
galassia della Fratellanza Musulmana (di cui è diventata nemica, e in Egitto
appoggia al-Sisi) e sostenuti economicamente e militarmente dal Qatar.
Molti analisti sostengono che il locum per la soluzione della crisi
siriana non stia in Siria, ma fuori. Se si tiene conto della complessità e
delle implicazioni del conflitto siriano, si dovrebbe dare loro ragione senza
esitare. Tuttavia questa tesi ha una falla, sia pur sempre in teoria: non tiene conto della possibilità che fuori dalla Siria non riesca a provenire alcuna
soluzione. Allora, nel quadro del mero scenario siriano, e prescindendo da
interventi militari statunitensi, sarebbe Bashar al-Assad a disporre delle
carte migliori, sia per la superiorità negli armamenti, sia (piaccia o no) per
l’appoggio di buona parte della società civile siriana, sia per i contrasti
interni al fronte dei ribelli (che potrebbe anche riuscire a sfruttare).
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