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mercoledì 30 ottobre 2013

LA GUERRA IN SIRIA FRA SCIITI E JIHADISMO SUNNITA, di Pier Francesco Zarcone

La tempesta di bombe preannunciata da Obama e Kerry non c’è stata; Putin ha ottenuto una grande vittoria diplomatica; della flotta statunitense concentrata davanti alle coste siriane sono rimaste solo tre navi; gli ispettori dell’Onu lavorano per lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano; la fibrillazione internazionale pare cessata. Il conflitto armato in Siria, invece, continua alla grande.
Parlare di “guerra civile” - come ancora fanno i grandi media - non sembra più corretto, essendo ormai palese che la stragrande maggioranza dei combattenti contro Assad sono jihadisti stranieri, tra cui europei malamente converti all’Islam. Il conflitto continua, non se ne vede la fine; per giunta si complica sempre di più e - restando così le cose - quando finirà sarà solo con la vittoria totale di una delle parti e il massacro dei vinti. Il fatto che già ora nessuno faccia soverchi prigionieri, è sintomatico.
Per fornire un’idea del livello “culturale” dello scontro intraislamico in atto, e del livello di odio che ne fa parte e lo alimenta, valga l’esempio di due predicatori - uno sciita e l’altro sunnita - operanti con televisioni e social network in Gran Bretagna. Sullo schermo TV lo sciita Shaykh Yasser al-Habib se la prende col Califfo Umar (secondo successore del Profeta) e riverito dai Sunniti, definendolo usurpatore e pervertito; mentre il predicatore saudita sunnita, Muhammad al-Arifi - che si dice abbia cinque milioni di seguaci (!) su Twitter - è ormai specializzato nel mettere in guardia i suoi confratelli circa la perfidia sciita che porta questi eretici (quindi peggio che infedeli) a rapire i bambini sunniti, bollirli, spellarli e poi a buttarne i cadaveri così conciati davanti alle case dei genitori. E la gente, soprattutto la parte più povera e incolta, purtroppo ci crede; come non si hanno dubbi che in Libano gli Sciiti abbiano la coda! Demoniaci, quindi. Siffatti “argomenti”, per quanto appaiano anacronistici e siano un eco ridicolo dei secoli più bui del Medio Evo, in realtà non vanno sottovalutati, perché è anche per la mentalità da essi indotta che certa gente ammazza indiscriminatamente e si fa ammazzare, felice di fare la “volontà divina”.

Le complicazioni e i pericoli del conflitto si proiettano oltre frontiera
All’inizio le parti in causa erano due: l’esercito regolare, fedele al governo, e i ribelli apparentemente inquadrati nell’Esercito Libero Siriano (Els), di cui peraltro non si è mai saputo molto. Lo schema era semplice, sul piano formale: un governo tra il fortemente autoritario e il tirannico da un lato, e i ribelli considerati ai quali media e governi occidentali dettero subito la patente democratica. Che dubbio c’era su chi parteggiare?
Oggi le cose appaiono in una luce diversa e più complessa, per almeno due motivi. Innanzitutto, dopo il blitz jihadista nell’antichissima città cristiano-ortodossa di Maalula - nelle cui chiese le tombe dei santi locali erano oggetto di pellegrinaggi sia di sciiti sia di sunniti (oggi è meglio evitare) - con relative uccisioni di cristiani locali, e dopo la reazione dei cristiani di Damasco ai funerali delle vittime di Maalula, dove in parecchi si sono presentati armati, qualche osservatore ha cominciato ad avviare riflessioni non più in linea con lo schema precedentemente e acriticamente assunto. Inoltre, all’interno del fronte dei ribelli c’è stato lo scoppio di una vera e propria guerra fra l’Els e ben tredici formazioni jihadiste (armate da Arabia Saudita, Qatar, e Turchia) unitesi alla bisogna contro i cosiddetti “moderati”; sono: Al-Nusra Front, Free of Levant Movement, Tawhid Brigade, Islam Brigade, Hawks of Levant Brigades, Dawn of Levant Movement, An-Noor Movement, Nureddin al-Zenki Phalanges, Right Brigade (Homs), Forqan Brigades (Quneitra), Upright as Ordered Gathering (Aleppo), The Nineteenth Division, al-Ansar Brigade. Queste formazioni si sono fuse in al-Jaish al-Islam (Esercito dell’Islam).
Ormai è sufficientemente chiaro che il governo di Assad lotta nella sostanza contro il radicalismo sunnita, più che contro i sunniti in quanto tali. Gli Alawiti, al potere da quaranta anni con gli Assad, sono una minoranza etnico-religiosa (il 12% circa), ma la maggioranza sunnita non è ai livelli egiziani (sono il 60%). Non si può negare che gli Assad abbiano saputo costruire accorte alleanze ed equilibri: parte del potere economico è stato lasciato in mani sunnite e le altre minoranze (Curdi, Cristiani delle varie confessioni e Drusi) sono state spesso protette. L’effettivo patto sociale durato 40 anni è saltato nella primavera del 2011 allorché alle manifestazioni sviluppatesi sulla scia degli avvenimenti tunisini ed egiziani, espressive di malessere sociale per disoccupazione soprattutto giovanile, povertà diffusa e divario economico crescente fra ceti emergenti o già emersi e parte della popolazione, il regime ha stupidamente risposto con la repressione armata, causando la contro-reazione altrettanto armata di parte dei protestatari.
Gli Stati Uniti attualmente stanno aumentando gli aiuti militari all’Els, ma non sembra con molto costrutto per la modifica dei rapporti di forza tra i ribelli. La conclusione è che oggi le formazioni armate radicali d’impronta wahhabita e salafita sono diventate dominanti nelle zone cosiddette “liberate” della Siria (dovrebbero essere addirittura il 95%), con l’immaginabile “gioia” della popolazione locale rimasta lì intrappolata. A complicare di più lo scenario c’è il fatto che un progresso dei salafiti potrebbe accentuare lo scontro fra essi e il cosiddetto Islamic State of Iraq and Levant collegato con al-Qaida; anzi, già nel nord della Siria ci sono stati combattimenti con quest’ultima fazione. La sanguinosa frantumazione del fronte dei ribelli al momento nuoce all’Arabia Saudita – che appoggia i salafiti ma è nemica di al-Qaida - ma se dovessero prevalere tra i ribelli le formazioni radicali salafite e wahhabite, allora potrebbe segnare punti a suo favore (fatto salvo quanto si dirà in prosieguo). Comunque, l’attuale situazione indebolisce il fronte anti-Assad, contro cui infatti l’esercito governativo sta aumentando con successo i suoi attacchi.
Al momento, sul terreno la situazione bellica è in una fase di stallo, nel senso che ancora l’esercito governativo non è stato in grado di sferrare un colpo decisivo ai ribelli. Ma Assad è lungi dall’essere sul punto di subire un collasso militare che ne causi la caduta. L’esercito regolare controlla i grandi centri urbani, la fascia costiera e il corridoio Damasco-Aleppo; in totale una buona parte del territorio nazionale, mentre i ribelli appaiono insediati a est verso l’Eufrate e a nord. In teoria potrebbero ancora conquistare grossi centri abitati; tenerli appare ben più difficile, non disponendo del necessario armamento pesante.
A questo punto Bashar al-Assad potrebbe modificare l’attuale situazione se riuscisse a unire un’efficace azione politica alle iniziative belliche delle sue Forze armate, ma non già aspettando le elezioni presidenziali del prossimo anno (che sicuramente vincerà, a parità di condizioni), bensì facendo leva sulle divergenze interne al fronte dei ribelli in modo da condurne una parte al tavolo dei negoziati.
Nelle guerre in corso in Siria si assiste a mobilitazioni di minoranze etniche e religiose il cui peso – soprattutto a seconda di chi vinca – non tarderà a farsi sentire. Va subito registrata la mobilitazione di milizie curde (alquanto agguerrite) in funzione anti-jihadista, e quindi di fatto al lato di Assad. Altresì va sottolineata (cosa ancora poco nota, ma di recente il settimanale tedesco Die Welt ne ha fatto oggetto di un interessante reportage) la formazione di milizie cristiane, alcune delle quali si stanno addestrando con le milizie curde. Situazione tutt’altro che scontata, se per esempio si pensa che nel 2011, quando cioè iniziarono manifestazioni e rivolte, i cristiani di Qamishli (governatorato di Hassaké), erano favorevoli alla fine del regime e all’avvento della democrazia rappresentativa da realizzare con i musulmani e le altre minoranze. L’arrivo dei jihadisti ha cambiato tutto, ed ecco che i cristiani di Siria oggi stanno con Assad, ovviamente visto come male di gran lunga minore. E oggi proprio a Qamishli proliferano i check-point vigilati da miliziani cristiani. Inutile dire che il governatorato di Hassaké - a cui curdi e cristiani tengono moltissimo - ha anche un grande valore economico, e si capisce perché sia oggetto delle mire dei jihadisti: è una delle regioni più ricche della Siria (al confine con la Turchia e l'Iraq) contenendo il 60% delle riserve di petrolio e gas del Paese.
Il travasarsi del conflitto siriano oltre le frontiere di quel Paese è per lo più visto alla luce dell’acuirsi degli attentati sunniti contro gli sciiti in Iraq, Libano e Pakistan. Questo è vero, ma le cose non si riducono a ciò: nel “brodo di coltura” del Vicino Oriente sono in fermentazione vari fattori. Innanzitutto si deve tener presente il successo conseguito in Siria dalle formazioni di Hezbollāh intervenute al fianco dell’esercito regolare. Naturalmente questa volta l’impresa non ha riscosso entusiasmo nel milieu musulmano in quanto tale, bensì solo tra gli Sciiti; ma questo è irrilevante sia per Hezbollāh sia per un osservatore esterno. A contare è invece il modo in cui le milizie di Hezbollāh si sono forgiate nel conflitto siriano; a contare è il loro salto di qualità sul piano bellico. Tra i sostenitori si parla di passaggio dall’essere il miglior movimento guerrigliero del mondo all’essere diventato un esercito regolare sempre più in grado di confrontarsi con Israele.
Anche volendo fare la tara sulle esagerazioni propagandistiche, sta di fatto che non solo non c’è stato il rientro delle previste (e auspicate) “colonne di feretri” dalla Siria al Sud del Libano e alla parte sciita di Beirut, ma oggi anche commentatori israeliani - dopo le decisive azioni di al-Qusayr, Talkalakh e nella zona di Aleppo - prendono atto (con comprensibile preoccupazione) del salto qualitativo compiuto dalle milizie di Hezbollāh che le mette in condizione di realizzare complesse operazioni combinate a livello di battaglione e anche di reggimento. Si aggiunga che a contatto con l’esercito regolare siriano i miliziani sciiti avrebbero appreso sul campo un uso più professionale dell’artiglieria leggera e media e dei mortai, oltre a come gestire le chiamate di sostegno dei pezzi a lunga gittata o dell’aviazione. Un ragionamento analogo (quand’anche non uguale) potrebbe farsi per i Pasdaran iraniani e per i miliziani sciiti iracheni intervenuti in Siria al fianco dei libanesi di Hezbollāh.
In quel “cortile di casa” che per la Siria è il Libano, inoltre, vanno registrati taluni fenomeni, anch’essi tutt’altro che scontati e significativi. Ci riferiamo al fatto che l’ex generale maronita ed ex primo ministro libanese Michel Aoun sia oggi il leader del Libero Movimento Patriottico Libanese, formazione maronita alleata di Hezbollāh e del vecchio partito sciita Amal nella coalizione detta “dell'8 marzo”; e poi va menzionato il messaggio apparso non molto tempo fa su una pagina Facebook dedicata ai politici libanesi, in cui un gruppo di giovani cristiani ortodossi così si è rivolto a Nasrallah, leader di Hezbollāh:
«Dai vostri fratelli Cristiani che vogliono assistere e aiutare la Resistenza Libanese e l'Esercito Arabo Siriano che ogni giorno lottano e si sacrificano contro i takfiri stranieri. Vostra Eminenza Sayyed Nasrallah, siamo un gruppo di giovani Cristiani che non resiste più nel vedere i nostri correligionari uccisi e torturati in Siria, i nostri Arcivescovi rapiti e offesi, la nostra Storia e la nostra Cultura messe in pericolo da questi estremisti che non rappresentano nulla se non la loro meschinità e crudeltà nascoste sotto una parodia dell'Islam; gli abusi e le enormità di costoro non causano reazioni da parte dell'Occidente “cristiano” o delle gerarchie religiose delle nostre Chiese. Per questo, Vostra Eminenza, vi chiediamo di permettere che le porte della sua organizzazione si aprano e ci venga permesso di unirci agli Eroi che difendendo la Siria, difendono anche i Siriani cristiani; vorremmo poter formare una nostra unità nelle vostre fila, una unità dedicata ai nomi di Issa e Mariam (Gesù e Maria) che unisca i propri sforzi a quelli dei vostri altri seguaci per conseguire prima la necessaria vittoria sui barbari takfiri. Sarebbe un onore per noi aggiungere i nostri martiri, martiri cristiani, a quelli che già si sono immolati per la libertà di al-Qusayr, dove erano presenti molti nostri fratelli».

Complicazioni nel mondo arabo: le frizioni fra Arabia Saudita e Stati Uniti
Giorni fa, ai vertici delle Nazioni Unite si è avuta una clamorosa ripercussione dello scontento di certi settori reazionari del mondo arabo per l’ondivaga e inconcludente politica dell’amministrazione Obama: il 18 ottobre l’Arabia Saudita ha rifiutato di entrare a far parte del Consiglio di Sicurezza al quale era stata eletta come membro non permanente dopo un lungo periodo di lavorio a tale fine; ha così espresso il dispiacere del suo monarca assoluto per il rifiuto statunitense di bombardare la Siria e per il timore che Obama possa inaugurare un nuovo corso nelle relazioni con Teheran. È un chiaro segnale, che fa capire come ormai la posta in gioco nel Vicino Oriente sia una soluzione di lunga durata (ovviamente in termini di egemonia) per il più antico conflitto interno al mondo islamico. Il conflitto siriano in caso di vittoria di Assad, nonché un’eventuale accertamento dei fini non-militari del nucleare iraniano riaprirebbero in termini ben diversi dagli attuali il problema delle oppresse minoranze sciite in Arabia Saudita, Bahrein, con estensione allo Yemen. È comprensibile che tutto ciò crei fibrillazioni capaci di suscitare dissapori anche fra alleati di vecchia data sì, ma portatori - ciascuno - di interessi propri.
La situazione saudita e quella del Bahrein sono del tutto ignote: le maggiori riserve di petrolio saudita sono in zone a maggioranza sciita, e nel Bahrein il monarca e la minoranza sunnita esercitano un potere arbitrario sulla maggioranza sciita. Meno noto è il caso yemenita. Le pesanti infiltrazioni wahhabite in questo Paese - oltre a quelle di al-Qaida - ne fanno un ulteriore campo di battaglia per le due grandi componenti religiose dell’Islam, e chiariscono perché anche l’attuale governo dello Yemen sostenga i teorici “ribelli” Houthi (sciiti, appoggiati dall’Iran) delle province di Sa’adah, al-Jawf e Hajja, guarda caso confinanti con l’Arabia Saudita. Se si considera che il 65% degli iracheni è sciita e che forti comunità sciite sono presenti anche in altri paesi del Golfo Persico (Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti) si comprende l’entità della posta in gioco e dell’inerente polveriera la cui messa in sicurezza è ostacolata dall’insieme di forze storiche in gioco da secoli e secoli. Qui tutti sono nemici di tutti, e se vi è una convergenza su taluni obiettivi, altri ne esistono e in grado di rendere sostanzialmente precarie le predette convergenze, come abbiamo già rilevato.
Si tratta di una situazione che mette ancor più in luce la criminalità dell’intervento imperialistico, poiché ogni minimo squilibrio da esso causato crea reazioni a catena alla fin fine negative anche per chi le provoca. Restiamo allo Yemen: se al nord è teatro di dissidenza sciita, al sud invece l’infiltrazione di al-Qaida trova condizioni favorevoli. Al momento il governo yemenita ha l’appoggio degli Stati Uniti, un po’ meno quello dell’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita appoggia in tutto il mondo islamico wahhabiti, salafiti e movimenti filosciiti, tuttavia per la galassia di al-Qaida il suo regime andrebbe rovesciato, e lo stesso auspicherebbe al-Qaida per quello dell’Iran sciita, a sua volta nemico dell’Arabia Saudita.
Alla fine della settimana contrassegnata dal “gran rifiuto saudita” il principe Bandar bin Sultan, in un incontro a Geddah con diplomatici occidentali avrebbe preannunciato - secondo il Wall Street Journal - un “cambiamento di rilievo” nei rapporti con gli Stati Uniti, lasciando intendere che ciò si sarebbe proiettato sugli ultramiliardari contratti per la fornitura di armamenti statunitensi in cambio di condizioni favorevoli per le forniture di greggio. Sulla questione il Segretario di Stato John Kerry ha “fatto il vago”, ma il problema resta.
Infatti sulla questione siriana Stati Uniti e Arabia Saudita puntano a soluzioni diverse: alla fine sembra che a Washington si siano capiti i rischi esistenti, e si stia preferendo una qualche soluzione diplomatico-politica che eviti la frammentazione della Siria, tant’è che finora non hanno inviato armi sofisticate ai ribelli; l’Arabia Saudita, invece, avrebbe voluto un massiccio intervento occidentale considerando che, in mancanza, la vittoria sarebbe nelle mani di Assad, e non ha i problemi statunitensi per il dopoguerra in quanto appoggia gruppi estremisti.
A ciò si aggiunga che l’Arabia Saudita vive con intensità tutta particolare (e del resto motivata dalla geopolitica) il gioco di scacchi in corso per la supremazia nella regione, e il fatto che l’altro giocatore sia l’Iran, sciita, e con un particolare regime che coniuga il Corano con istituzioni politiche di stampo occidentale e una formale democrazia parlamentare; tutte cose che la numerosissima famiglia reale saudita teme come la peste sia per motivi religiosi, sia perché contrastanti con il suo assolutismo monarchico. Del problema delle minoranze sciite esistenti nel regno già si è detto.
E infine sono da tener presenti due fattori: nel citato gioco di scacchi c’è anche la questione del nucleare iraniano, con ciò che esso implica. Di modo che esiste il timore che un eventuale accordo globale fra Stati Uniti e Iran possa avere come conseguenza una minor importanza per la partnership fra Stati Uniti e Arabia Saudita. Infine, ma non da ultimo, a rendere oggi poco affidabile Washington - come avrebbe sostenuto “dietro le quinte” lo stesso re Abd Allah - c’è ancora fresco il precedente dell’Egitto, cioè del modo con cui gli Stati Uniti hanno abbandonato Hosni Mubarak al suo destino, magari dandogli anche una spintarella. Da qui la spontanea domanda: e se accadesse anche nella Penisola arabica?
Rimanendo con i piedi per terra, e pur dovendosi prendere atto di frizioni di una certa consistenza a motivo dei soggiacenti interessi strategici, pensare che dietro l’angolo ci sia la rottura di una tradizionale alleanza (interessata) sarebbe illusorio. Petrolio e al-Qaida sono ancora un collant non privo di attuale efficacia. Comunque, come dicono i britannici, never say never again. Se ancora oggi Stati Uniti e Arabia Saudita hanno bisogno gli uni dell’altra, e viceversa, non si può affatto escludere che un domani (non necessariamente lontano) il bisogno si attenui, e la partnership - se resisterà - muti nella sostanza con diminuzione dell’importanza dell’Arabia Saudita: sullo sfondo, infatti, c’è la questione dal gas di scisto, un controverso progetto su cui però gli Stati Uniti stanno scommettendo per raggiungere l’autosufficienza energetica a medio termine. Se così sarà nella penisola araba, e non solo, inizierà una nuova e complicata pagina di storia.

Stati Uniti e Israele
Il 1° gennaio dell’anno scorso il quotidiano israeliano Jerusalem Post ha pubblicato un articolo contenente un’analisi a tutt’oggi in buona parte valida:
«[…] non vi è nulla di nuovo nel conflitto fra musulmani sunniti e musulmani sciiti, ma è una novità che tale conflitto sia diventata una delle caratteristiche a livello regionale in tempi moderni. In fondo, finché imperavano regimi di stile laico che predicavano identità arabe nazionaliste onnicomprensive, le differenze fra comunità religiose restavano in secondo piano. Ma una volta che si sono affermati regimi islamisti, la teologia è tornata centrale, come secoli fa. Ma non si fraintenda la situazione: quella in atto è fondamentalmente una lotta per il potere politico e per le ricchezze. Quando stati o movimenti sunniti e sciiti si combattono, si comportano come soggetti politici dotati di obiettivi, tattiche e strategie. La forza e l’influenza crescenti del regime islamista iraniano hanno posto gli islamisti arabi sunniti di fronte a un grosso problema. In linea generale non amavano l’Iran perché era persiano e sciita, però rappresentava l’unico regime islamista sulla scena. È così che la palestinese Hamas, organizzazione araba islamista sunnita, è diventata un cliente sottomesso all’Iran. La guerra Iran-Iraq (degli anni ’80) rifletteva questi antagonismi, in modo particolarmente evidente nella propaganda irachena. Peraltro il regime iracheno era comunque in grado di tenere sotto controllo la sua maggioranza sciita. Successivamente la rimozione di Saddam Hussein ad opera di una forza internazionale guidata dagli Stati Uniti ha scoperchiato la questione dei rapporti fra comunità all’interno dell’Iraq. Gli sciiti iracheni sopravanzano i loro vicini sunniti con un rapporto di tre a uno, per cui sono destinati a vincere automaticamente qualunque elezione, specie se i curdi iracheni si chiamano fuori, preferendo quello che è, di fatto se non di diritto, il loro stato nel nord dell’Iraq. Nonostante la presenza di elementi antiamericani e di al-Qaida, l’insurrezione sunnita in Iraq è stata essenzialmente un estremo tentativo da parte dei sunniti di recuperare il potere. Il tentativo è fallito e adesso, pur continuando le violenze, i sunniti porranno l’enfasi principale sul negoziare la divisione del potere meno peggio possibile. Anche in Libano gli sciiti hanno trionfato, guidati da Hezbollāh e aiutati da Siria e Iran.
Ma tutto questo avveniva prima dell’anno 2011. La “primavera araba” è stata invece una faccenda quasi interamente sunnita: per alcuni versi l’equivalente sunnita della rivoluzione iraniana del 1979. Solo nel Bahrain, dove erano oppressi, gli sciiti sono passati all’offensiva. Quelle in Egitto, Tunisia e Libia sono state tutte insurrezioni sunnite contro governi arabi sunniti. […] In questo quadro, uno dei fattori in gioco è la persistente indisponibilità della maggioranza degli stati arabi ad accogliere fra i propri ranghi l’Iraq governato dagli sciiti. L’Iraq non diventerà un satellite dell’Iran. Certamente si sente più a proprio agio in un blocco sciita, ma probabilmente continuerà a starsene relativamente distante dagli affari regionali. […] Possono questi blocchi unirsi efficacemente fra loro contro Stati Uniti, occidente e Israele? Per dirla in una sola parola: no. Le loro lotte per il potere regionale e per il controllo di singoli stati (Bahrein, Libano, Siria e, in misura minore, Iraq) li terranno impegnati nei conflitti. Persino l’unanimismo anti-israeliano verrà sfruttato da ciascuno per i propri interessi.
Per lo stesso motivo, però, le speranze in un’evoluzione in senso moderato sono ridotte al minimo. In una regione dove regimi e movimenti fanno a gara nel dimostrare la loro combattività e la fedeltà ad una interpretazione estremista dell’islam, nessuno vorrà mostrarsi disposto a fare la pace con Israele. E i regimi collaboreranno con gli stati Uniti solo se saranno convinti che l’America può e vuole proteggerli: una speranza piuttosto vana con un’amministrazione Obama ansiosa di farsi amici fra gli islamisti.
C’è poi un altro aspetto da sottolineare in questa rivalità fra sunniti e sciiti, in questo formarsi di blocchi, nella loro competizione in fatto di combattività e nello scontro per il controllo di singoli stati. Ed è che la regione continuerà a mietere vite umane, dissipando sangue, tempo e risorse nella battaglia politica, giacché la lusinga dell’ideologia e del potere, anziché il pragmatismo e la produttività economica, continua a predominare anche dopo che sono caduti i vecchi regimi».
Indubbiamente la riaccensione di uno scontro nato agli albori dell’Islam, e apparentemente sopito, si deve alla rivoluzione islamica iraniana, che per un verso ha fatto risvegliare le altre comunità sciite sparse nel mondo arabo, ma per un altro verso ha scosso le comunità sunnite. Questo effetto è stato in buona parte trascurato dai governi occidentali, profondi ignoranti delle articolazioni e della complessità del mondo islamico, da sempre più preoccupati a difendere o ripartirsi zone di influenza (soprattutto se petrolifere), incapaci di rendersi conto che - per ragioni storiche e culturali - il virus del radicalismo islamico non poteva provenire dall’area sciita, della quale peraltro poco e nulla sapevano e sanno.
Oggi nel Vicino Oriente si è realizzata una polarizzazione netta e conflittuale fra blocco a egemonia sunnita (Arabia Saudita, Emirati del Golfo, Giordania, Turchia; per il momento l’Egitto è in una sorta di limbo) e blocco sciita (Iran, Iraq, Siria, Libano, con adepti nella penisola araba), rispettivamente appoggiati da Stati Uniti e Russia. Tuttavia questo appoggio statunitense in astratto non si spiega né sotto il profilo della convenienza strategica, né in termini di coerenza con la lotta al radicalismo jihadista, né con la possibile riottosità degli attuali alleati, giacché verso gli Stati del blocco sunnita - Turchia a parte - Washington disporrebbe comunque di strumenti di ricatto, e quindi di riduzione della loro autonomia operativa.
Qualcosa si chiarisce, invece, se si mette nel conto il ruolo di Israele, con le sue immediate esigenze regionali e la sua inimicizia militante e militare con Hezbollāh e l’Iran. In ragione dell’esistenza di una potente lobby elettorale sionista negli Stati Uniti, si può presumere che la scelta di fondo antisciita e filosunnita dipenda da ciò. In termini pragmatici, invece, agli Stati Uniti converrebbe di più normalizzare i rapporti con Teheran, magari previo negoziato ad ampio raggio; e da qui potrebbero derivare anche risultati positivi per la crisi siriana, acquisendo “punti” rispetto alla diplomazia di Putin, finora rivelatasi di ben maggiore efficacia. Un simile scenario piace poco a Israele, ai sionisti nel mondo e ai loro amici. La posizione antiraniana di Israele è netta e senza sfumature. Resa ancor più dura dal fatto che finora Israele ha subìto la sua unica sconfitta militare a opera di Hezbollāh. Quindi, fra il dover fare e il fare si pongono difficoltà per la manifesta impotenza degli Stati Uniti a smarcarsi da Israele.
Al momento, per quanto si sia arrivati al limite, in teoria ancora si potrebbe operare per fermare il conflitto siriano, ma certamente senza conferenze ginevrine dalla dubbia rappresentatività. Poiché Lady Ashton e il resto dell’Ue non sanno che fare, e nulla fanno, l’iniziativa dovrebbe provenire da Obama, che purtroppo non è uno statista audace. Vale a dire, prima di dar luogo al balletto dei negoziati sarebbe opportuno preparare loro il terreno, il che potrebbe con una classica “giravolta” di Washington: costringere l’Els - magari col taglio dei rifornimenti - a cessare la lotta armata, staccarsi dal resto dell’insorgenza e aprire trattative con Assad che coinvolgano la Russia e attori regionali sunniti e sciiti, puntando a formule di garanzia che tranquillizzino tutte le parti in causa (gli estremisti, comunque, non li tranquillizza nessuno).
Alternative positive non se ne vedono. Quindi il conflitto potrebbe proseguire con la rielezione di Assad alla presidenza nel 2014, coinvolgere ancor di più Libano e Iraq (che già sono coinvolti) fino a dare luogo a una deflagrazione regionale dall’effetto “aspirante” dalla Turchia, all’Arabia Saudita e all’Iran. Con l’incognita devastante del dove interverrebbe Israele. Ci sarebbero - inevitabile - un acuirsi del settarismo a 360° e l’estrema difficoltà a contenere il radicalismo jihadista. In un tale contesto non è escludibile a priori che comunque possa venir fuori un “pacificatore”, oggi non individuabile, ma in questa ipotesi il problema sarebbe relativo alla sua connotazione e alle possibilità offertegli dalla situazione. Cioè a dire, potrà indicare e indicherà soluzioni all’insegna del moderatismo, oppure potrà indicare e indicherà soluzioni radicali, suscettibili di innescare un’altra guerra? E che ne sarebbe della Siria: ancora Stato unitario, o frammentazione in due, tre o quattro staterelli omogenei sul piano etnico-religioso?
Se ci si basa sul concreto, si deve ammettere che l’unico possibile esito per il conflitto consiste proprio nel realizzare una spaccatura definitiva nel fronte dei ribelli, con l’isolamento delle componenti radicali (ultramaggioritarie, però) e il concentrarsi dello sforzo bellico su di esse grazie anche ai massicci armamenti russi, contemporaneamente patteggiando con gli oppositori “ragionevoli” spazi di democrazia meno formali degli attuali. E quindi puntare all’annientamento sul campo dei radicali islamici. Questo ragionamento appare cinico, e in effetti lo è; tuttavia si basa sui precisi e recenti precedenti storici: il rientro nei paesi d’origine dei jihadisti attualmente operanti in Siria vorrebbe dire - così come è accaduto con il rientro in patria dei reduci dall’Afghanistan - la destabilizzazione di pressoché tutti i paesi islamici, nonché il terrorismo di riflusso dei jihadisti europei nel vecchio continente.
In teoria non si potrebbe neppure escludere un’intesa di maggior spessore realizzata fra Russia e Stati Uniti; non si vede, però, come essi potrebbero poi imporne il rispetto agli attori regionali interessati. Il problema è che nel guazzabuglio siriano anche attori teoricamente e apparentemente dalla stessa parte della barricata in realtà sono portatori, ciascuno, di interessi propri e in conflitto fra loro. Si pensi all’Arabia Saudita. Nemica di al-Qaida e attiva appoggiante dei gruppi jihadisti, deve però fare i conti con le formazioni rientranti nella galassia della Fratellanza Musulmana (di cui è diventata nemica, e in Egitto appoggia al-Sisi) e sostenuti economicamente e militarmente dal Qatar.
Molti analisti sostengono che il locum per la soluzione della crisi siriana non stia in Siria, ma fuori. Se si tiene conto della complessità e delle implicazioni del conflitto siriano, si dovrebbe dare loro ragione senza esitare. Tuttavia questa tesi ha una falla, sia pur sempre in teoria: non tiene conto della possibilità che fuori dalla Siria non riesca a provenire alcuna soluzione. Allora, nel quadro del mero scenario siriano, e prescindendo da interventi militari statunitensi, sarebbe Bashar al-Assad a disporre delle carte migliori, sia per la superiorità negli armamenti, sia (piaccia o no) per l’appoggio di buona parte della società civile siriana, sia per i contrasti interni al fronte dei ribelli (che potrebbe anche riuscire a sfruttare).

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