Bush with Obama mask © Dustin Spagnola |
ARROGANZA E BUGIE
L’aggressione alla Siria è al momento - pare - rimandata a tempo determinato, almeno fino alla riapertura del Congresso statunitense dopo le ferie estive. Così ha deciso il premio Nobel per la Pace 2009 (!) e presidente degli Stati Uniti Barack Hussein Obama. Decisione non autonoma, ma indotta dalla richiesta scritta di 200 congressisti. Una frenata che viene dopo il voto contrario all’attacco da parte della Camera dei Comuni britannica, ma che potrebbe non essere definitiva. Infatti Obama - pur costretto a sospendere per il momento le sue pulsioni belliciste - non ha spiegato cosa accadrebbe in caso di un eventuale decisione del Congresso che facesse il paio con quella britannica. Inoltre è pacifico che se il Congresso desse via libera, Obama si sentirebbe “legittimato” a scatenare l’attacco.
In questa sequenza c’è la reiterazione di una pesantissima anomalia di fondo non più mistificabile, soprattutto da quando è imploso il blocco del “socialismo reale”, e che ovviamente i media nostrani, per lo più acritici portavoce delle posizioni della Casa Bianca, non rimarcano mai. Nella loro arrogante libidine di superpotenza gli Usa, calpestando di continuo la legalità internazionale, hanno riportato e mantengono il mondo nella prepotenza della barbarie. Civiltà con la “C” maiuscola e diritto sono sempre andati in coppia, e quando al diritto si sostituisce la forza bruta - sovente capricciosa - allora anche la civiltà è compromessa. Non è il caso di stupirsi, ma di indignarsi sì. Semmai lo stupore trova spazio quando si assiste alla meraviglia con cui tanti candidi cittadini statunitensi si chiedono come mai ci sia al mondo tanto odio verso gli Stati Uniti. Non disse una volta Karl Rove, consigliere politico del famigerato George W. Bush, «ora noi siamo un Impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà»?
Finché sarà così, l’odio potrà solo estendersi. Come del resto accade oggi nel mondo arabo, dove l’odio verso gli Stati Uniti va dagli islamisti radicali fino ai laici e alle superstiti sinistre.
Nel caso della Siria - il cui turno fa seguito ad Afghanistan, Iraq e Libia - ancora una volta quel che asseriscono gli Stati Uniti vale come prova, e tanto basta perché si faccia a meno dell’unico organo internazionale formalmente legittimato ad autorizzare interventi militari del genere: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Semmai è il Congresso statunitense a prenderne di fatto il posto!
Una considerazione per inciso, indignazione a parte: già la storia è ricca di precedenti dominati dall’illusione di politici e militari circa la brevità temporale e la limitatezza spaziale dei conflitti che si andava a scatenare; ma se si ha presente la costante mistura di approssimazione operativa, di ignoranza dei contesti, di rozza psicologia da film hollywoodiani di serie B, d’incapacità nel prevedere gli scenari possibili - e quindi di venirne fuori - che fa parte del bellicismo statunitense, allora è legittimo che a ogni intervento militare Usa si finisca col tremare.
Ancora una volta le bugie di Washington sono sullo sfondo, e Obama si rivela un poco fantasioso epigono di George W. Bush e Tony Blair con le loro fanfaluche sulle mai trovate “spaventose armi di distruzione di massa” di Saddam Husayn. Per la Siria nessuno ha fornito prove sul fatto che i gas siano stati usati dal regime di Damasco - e le asserzioni degli Stati Uniti prove non sono. Inoltre, stante la loro mancanza, non risulta nemmeno il plausibile movente per il loro uso. Che delle armi chimiche siano state utilizzate sembra essere un dato di fatto, ma non l’attribuzione della responsabilità. In concreto, la mancanza di movente per Assad discende dall’inutilità di usare armi chimiche quando si è già a buon punto per riuscire a vincere la guerra civile, oltretutto sapendo bene che gli Usa avevano fatto minacce esplicite in caso di un loro uso e non vedevano l’ora di attaccare. In assenza di prove, logica politica e logica militare fanno ritenere che nell’uso dei gas Damasco non c’entri. Semmai c’è da chiedersi se in Libia qualcuno controlli - e in che modo - le armi chimiche immagazzinate da Gheddafi. Al riguardo il sospetto è al momento assai forte.
D’altronde non si può non rimarcare la palese buffonata dell’ispezione dei tecnici di quel costoso e inutile organismo chiamato Onu: si sono affacciati per verificare quel che già si sapeva, senza però poter stabilire chi abbia usato i gas. E sintomatica è la mancanza di spazio nei media occidentali per la presentazione - effettuata dalla delegazione russa all’Onu - di foto rilevate dai satelliti russi attestanti che i razzi contenenti i gas sarebbero partiti dalle postazioni dei ribelli; foto collimanti con quelle dei satelliti statunitensi!
C’è poi un altro particolare per nulla messo in risalto: i famosi video sull’uso dei gas, apparsi immediatamente su YouTube e poi ritrasmessi dalle televisioni del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti. Qui evidentemente c’è qualcosa di strano; questi video dovrebbero documentare un attacco chimico avvenuto il 21 agosto, ma risulterebbero caricati il 20 agosto, vale a dire il giorno prima. Il problema non sta nella data - giacché in teoria il caricamento potrebbe essere avvenuto in un paese con fuso orario diverso da quello siriano - bensì nell’assoluta tempestività della messa in Rete, elemento che il portavoce del ministero degli Esteri russo, Aleksandr Lukasevič, ha considerato dimostrativo di una provocazione preprogrammata. Inoltre alcune immagini di cadaveri allineati erano già state utilizzate come prova di un massacro compiuto da militari egiziani in un accampamento dei Fratelli Musulmani al Cairo. Ancora una volta, forse, si ha ragione a pensar male.
Gli osservatori più smaliziati si aspettavano una mossa statunitense fin da quando la controffensiva dell’esercito regolare siriano si era sviluppata al punto da mettere alle corde i ribelli, essendo sicuro che Washington non avrebbe assistito senza reagire alla vittoria di un alleato dell’Iran contro la massa di jihadisti raccolta da Stati Uniti, Turchia, Qatar e Arabia Saudita - proprio come avevano fatto in Afghanistan contro l’Urss. Tanto più che, nonostante la guerra civile stia distruggendo mezzo paese, il 26 febbraio 2012 il governo di Damasco ha potuto far svolgere un referendum sulla nuova Carta costituzionale con oltre 14 milioni di elettori in circa quattordicimila seggi. Ed è probabile che Assad riesca a terminare il mandato presidenziale e a ricandidarsi il prossimo anno per un’altra tornata. In definitiva il presidente siriano non sta messo male militarmente, dopo le ultime vittorie di un certo rilievo strategico. Le forze regolari hanno retto bene e le poche diserzioni non hanno intaccato né la catena di comando né il morale delle truppe, che sanno di combattere un’aggressione esterna più che una guerra civile (l’80% dei ribelli sono jihadisti stranieri).
MA COSA VANNO CERCANDO GLI USA?
In questo periodo il Vicino Oriente vive uno dei peggiori momenti della sua storia, ma le cose non vanno bene nemmeno per gli interessi imperialisti. L’Iraq - squilibrato e dissestato ad arte dagli Stati Uniti - in preda a una tremenda ondata di terrorismo sunnita, si va progressivamente orientando verso l’Iran; in Afghanistan i Talebani alla fine vinceranno; la Libia è nel caos delle milizie fuori controllo; la Tunisia è scossa dai contrasti politici e dalle manifestazioni di massa pro e contro il governo islamista; il Libano è in fase di destabilizzazione per il contagio della guerra in Siria; l’Egitto non si capisce in che direzione andrà: in quest’ultimo caso non ci riferiamo tanto e solo ai problemi interni, quanto e anche ai rapporti internazionali di quel paese. Giorni fa sono accaduti due fatti - ovviamente ignorati dai media nostrani - a dir poco anomali, se si considera che il golpe del generale al-Sisi ha sfruttato l’impotenza politica statunitense e l’appoggio dell’Arabia Saudita: il primo consiste nella chiusura del canale di Suez al traffico militare statunitense; l’altro è l’invio di ufficiali egiziani in Siria come consiglieri militari e allievi per le tecniche di controinsurrezione. Prima o poi verrà fuori cosa c’è sotto.
Sulla concretissima possibilità che l’aggressione occidentale scateni una reazione a catena tale da sconvolgere tutta la regione si è già detto, e al riguardo esiste una ricca serie di analisi. C’è quindi da chiedersi quale sia l’obiettivo di Washington nell’aver deciso di entrare con una metaforica candela accesa in una polveriera in cui sono già esplosi alcuni scomparti. Disse Clemenceau che «la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari»: per un verso è vero, ma vale anche il contrario, come dimostrano le perplessità con cui i vertici militari statunitensi hanno fornito a Obama il quadro di tutti i possibili scenari di intervento. A prima vista infatti non si capisce dove vada a parare un’aggressione alla Siria: troppo limitata per far cadere Assad ed eccessiva per una dissuasione dall’uso di armi chimiche di cui gli Usa sanno non essere responsabile Assad. E allora?
Forse una delle chiavi dell’enigma la fornisce Israele: rendere stabile l’instabilità della regione. Per questo Israele ha premuto per un intervento mirato e “punitivo” - tale da non provocare il collasso del regime di Damasco - come ha sostenuto Yaakov Amidror, consigliere per la sicurezza nazionale di Benjamin Netanyahu, anche a Washington. La visione israeliana è lucida in merito alla situazione generale e ai rischi che corre per le utilizzazioni statunitensi dei jihadisti in Siria. Israele sa che una vittoria di Assad equivarrebbe a un successo strategico dell’Iran e di tutto l’asse sciita della regione, Hezbollāh in primo luogo. Ma sa anche, e benissimo, cosa vorrebbe dire ritrovarsi con Hezbollāh in Libano, i Fratelli Musulmani con al-Qaida in Siria, i Fratelli Musulmani a Gaza e - qualora al-Sisi non resistesse - anche in Egitto, nonché con un’Arabia Saudita trionfante e il rischio di un cedimento della monarchia in Giordania.
SCENARI MILITARI E POLITICI
Ammettiamo pure che Obama voglia effettuare solo dei raid punitivi: qui il problema non riguarda l’efficacia o meno della pretesa punizione, ma i possibili scenari militari conseguenti. Si potrebbe immaginare uno scenario problematico se il governo siriano si prendesse i bombardamenti senza reagire: una “bella figura” per Obama e una mortificazione per la Siria; per cui è difficile che le cose vadano in questo modo. È più probabile pensare a una reazione siriana, che in teoria è possibile.
Innanzitutto i sistemi di comando e controllo siriani non dipendono dai computer, e questo è un elemento di vantaggio. Inoltre le Forze armate siriane sono in grado di colpire obiettivi navali fino a 300 km di distanza grazie al sistema missilistico russo K-300P Bastion-P (SSC-5 in codice Nato) per la difesa costiera, che è montato su veicoli mobili. Dispongono inoltre di 650 lanciamissili fissi SA-2 (S-200 Angara), SA-3 (2K12 Kub) e SA-5 (S-200), 200 lanciamissili mobili SA-6, SA-11 (Buk) e SA-22 (Pantsir-S1), e 4.000 cannoni antiaerei. Per la difesa a bassa quota ci sono i moderni missili russi SA-22 Greyhound (96K6 Pantsir-S1E) e Buk-M2. Sono invece obsoleti i sistemi di alta quota - SA-2 Guideline (CP-75 Dvina/S-75M Volga) e SA-3 Goa (S-125 Neva/S-125M Pechora) - ma ancora abbastanza operativi.
Quel che non si sa è se la Russia abbia o no consegnato il nuovo sistema di difesa aerea S-300. Si sa solo che già nel novembre 2011 erano arrivati in Siria i tecnici russi per l’addestramento dei siriani all’uso delle batterie di missili S-300.
Una reazione siriana all’attacco mostrerà l’efficacia di tutto questo armamentario; ma se l’esito dovesse essere positivo e gli Usa subissero perdite di aerei e navi (con relativi equipaggi), allora sarebbe ragionevole prevedere uno scenario similare a quello del luglio/agosto 1914, una volta scaduto l’ultimatum austro-ungarico alla Serbia: la reazione a catena. Questo significherebbe (anche per l’inevitabile crescita di prestigio di Assad) un incremento dell’azione militare statunitense, un intervento iraniano e di Hezbollāh - all’occorrenza coinvolgendo Israele - e un attacco turco al Kurdistan siriano (Rojava), con tutto quel che segue; sempre sperando che una qualche bomba statunitense non colpisca una delle navi da guerra russe che affollano il porto siriano di Tartus…
L’ipotesi in questione - è appena il caso di dirlo - non metterebbe certo fine alla vera e propria guerra civile siriana, anzi. Ne potrebbe altresì derivare ciò che molti temono per le ulteriormente catastrofiche e sanguinose conseguenze: la disgregazione dello Stato unitario siriano, che squilibrerebbe tutta la regione e darebbe luogo a una guerra di tutti contro tutti ancor più virulenta, ammesso che sia possibile.
GLI INTERESSI STATUNITENSI HANNO SEMPRE LO STESSO NOME: GAS
Per vari motivi rendere stabile l’instabilità del Vicino Oriente, senza vinti né vincitori, potrebbe convenire anche agli Stati Uniti, che in questa fase di transizione sembrano non sapere quale via intraprendere. Esiste tuttavia anche un’altra motivazione sia per aver armato i ribelli che per l’attuale aggressione diretta alla Siria; motivazione che ha il solito cognome - risorse energetiche - e lo specifico nome di progetto del gasdotto Pars (Islamic Pipeline): una grandiosa opera da circa 10 miliardi di dollari destinata a portare gas dall’Iran al Mediterraneo orientale, passando per Iraq e Siria. Grazie ad esso Iran e Russia potrebbero fornire all’Unione europea più del 40% del gas necessario per un periodo dai 100 ai 120 anni. Ne deriva un quadro di maggiore integrazione economica ed energetica fra Europa continentale e Russia, e di aumento dell’influenza politica sia di Mosca che di Teheran, cosa che ovviamente gli Usa non possono che contrastare.
Esiste infine un’altra ragione: bombardare la Siria perché l’Iran intenda, nella prospettiva delle conseguenze a cui si va incontro superando le linee rosse tracciate dagli Stati Uniti, che in questo caso riguardano l’annosa questione del progetto nucleare iraniano.
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