Nel suo articolo Spettacolo
sportivo e sfruttamento di massa, pubblicato su questo stesso blog, Marco
Piracci, prima di parlare dello sport come mito, come spettacolo, ecc., traccia
un profilo del gioco libero, infantile e adulto, che, in termini generali, è da
me condiviso, sia a livello teorico sia sul piano delle esperienze pratiche
avute lungo gli anni nel mio lavoro ludico-educativo. Manca però nell'articolo di Piracci il carattere essenzialmente sociale e
collettivo del gioco, anche se con enorme protagonismo dell’individualità…
messa in gioco.
Infatti, il gioco non soltanto non è unicamente
individuale, ma lo è, secondo me, in proporzione molto inferiore rispetto alla
sua componente sociale e collettiva. Nell’articolo citato si parla de “il
bambino”, “il ragazzo”, “l’adulto” (singolare), ma i bambini, i ragazzi e
anche gli adulti (plurale), non
agiscono soltanto in quanto individui isolati assurti a paradigma (in questo
caso ludico) di una categoria, bensì in quanto esseri sociali. Nel gioco, “il
lavoro dei bambini”, secondo Maria Montessori, oltre a ricevere le regole e
adattarvisi, loro godono anche - e questo è parte essenziale del gioco - nel
crearle. E se queste regole create dai bambini sono in partenza contaminate
dall’influenza su di loro del sistema sociale, ciò sta a dimostrare che lo
sport c’entra poco o niente.
Sarebbe bastato questo aspetto determinante, cioè
il carattere sociale e collettivo del gioco e il bisogno di regole di tali giochi e di chi li gioca, per far perdere
senso alla netta divisione che Piracci stabilisce in seguito tra gioco libero e
sport. L’impressione che ho avuto è che Piracci non trovi molta differenza tra sport
come pratica e sport come spettacolo, mito, alienazione, commercio, ecc. (cioè
lo sport come parte della “società dello spettacolo”), il che lo porta a
rifiutare lo sport in toto.
«Si
potrebbe allora pensare a una convergenza fra gioco fisico e sport, ma non è
così.», scrive Piracci, e
subito cita Pierre Laguillaumie: «Sportivo
non è colui che corre a piacer suo in una natura libera e selvaggia – questo
libero di fermarsi quando vuole, libero nella direzione, nella velocità, nello
slancio, nella respirazione, è l’immagine della gioia del bambino in un gioco
fisico libero». Fino a lì posso essere d’accordo, il problema è che la
frase successiva (di Marco Piracci) è la seguente: «Lo sport rappresenta invece la
canalizzazione periodica dell’insoddisfazione, del malcontento e
dell’aggressività delle masse, la quale lungi dall’offendere il sistema tende a
consolidarlo attraverso l’identificazione con gli ideali del capitalismo: primi
fra tutti l’individualismo e la concorrenza.» Ma si stava parlando degli
sportivi o delle masse (di pubblico, suppongo)? Allora Totti e il lavoratore precario
(citati da Piracci) sono la stessa cosa soltanto perché quest’ultimo si
identifica con il bravissimo (e miliardario) calciatore?
Beninteso sono il primo a rifiutare concetti come
quello di “avviamento allo sport” e lo sfruttamento psicofisico (e anche
commerciale, naturalmente) di cui sono oggetto i bambini e i ragazzi mediante
lo sport agonistico, partendo anche dal fatto che certi sport si possono fare
in maniera competitiva soltanto entro certi limiti di età. Da diverse
conversazioni avute con bambini di età ed estrazioni sociali molto diverse così
come da questionari somministrati di proposito, nell’ambito di ricerche
effettuate da alcuni allievi miei durante un corso di formazione per ludotecari
e da me stesso tra scolari residenti a Monterotondo (in provincia di Roma) e
nel quartiere periferico di Tor Bella Monaca (Roma) e gli utenti della Ludoteca
Il sottomarino giallo, nello stesso quartiere, emergeva con forza il desiderio
dei bambini di giocare a pallone in un campo da calcio “vero” ma “senza allenatore”. E’ ovvio che si
può correre liberamente e fare tutti i cambiamenti improvvisi di direzione,
velocità, modalità, ecc. individualmente. Ma in un gioco a squadre, questa
libertà non soltanto è molto limitata, ma addirittura viene mal vista, in
quanto comportamento egoistico. Vedere, ad esempio, Messi che parte da metà
campo e fa tutto da solo sbaragliando la difesa avversaria fino ad arrivare a
spingere il pallone in porta è straordinariamente bello da vedere come bellezza
del corpo in movimento e dimostrazione di squisita abilità fisica. E’ anche
augurabile che lo faccia almeno una volta durante una partita. Ma non ha
minimamente paragone con il lavoro di squadra precedente a una sua rete o ai
suoi assist millimetrici ai propri compagni. Ma questo succede anche nelle arti
non individuali, come la musica, il teatro o la danza: anche il più bello
assolo ha bisogno del supporto del gruppo, della sua complicità, della dinamica
dei rapporti musicali e anche umani stabiliti.
In conclusione e come riassunto di questo breve commento, vorrei dire che è augurabile e possibile che lo sport smetta di essere un fatto commerciale e di alienazione di massa, poiché in fondo si tratta “soltanto” di un cambio di sistema. Sarà più difficile invece che non continui a inclinarsi verso il mito poiché mi sembra che la componente epica sia connaturata allo sport, con o senza la società dello spettacolo. Quello che è invece impossibile rifiutare è lo sport in toto, confondendolo con il suo sfruttamento commerciale e ideologico.
In conclusione e come riassunto di questo breve commento, vorrei dire che è augurabile e possibile che lo sport smetta di essere un fatto commerciale e di alienazione di massa, poiché in fondo si tratta “soltanto” di un cambio di sistema. Sarà più difficile invece che non continui a inclinarsi verso il mito poiché mi sembra che la componente epica sia connaturata allo sport, con o senza la società dello spettacolo. Quello che è invece impossibile rifiutare è lo sport in toto, confondendolo con il suo sfruttamento commerciale e ideologico.