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lunedì 29 aprile 2013

IL CARATTERE ESSENZIALMENTE SOCIALE E COLLETTIVO DEL GIOCO, di Enzo Valls

Nel suo articolo Spettacolo sportivo e sfruttamento di massa, pubblicato su questo stesso blog, Marco Piracci, prima di parlare dello sport come mito, come spettacolo, ecc., traccia un profilo del gioco libero, infantile e adulto, che, in termini generali, è da me condiviso, sia a livello teorico sia sul piano delle esperienze pratiche avute lungo gli anni nel mio lavoro ludico-educativo. Manca però nell'articolo di Piracci il carattere essenzialmente sociale e collettivo del gioco, anche se con enorme protagonismo dell’individualità… messa in gioco.
Infatti, il gioco non soltanto non è unicamente individuale, ma lo è, secondo me, in proporzione molto inferiore rispetto alla sua componente sociale e collettiva. Nell’articolo citato si parla de “il bambino”, “il ragazzo”, “l’adulto” (singolare), ma i bambini, i ragazzi e anche gli adulti (plurale), non agiscono soltanto in quanto individui isolati assurti a paradigma (in questo caso ludico) di una categoria, bensì in quanto esseri sociali. Nel gioco, “il lavoro dei bambini”, secondo Maria Montessori, oltre a ricevere le regole e adattarvisi, loro godono anche - e questo è parte essenziale del gioco - nel crearle. E se queste regole create dai bambini sono in partenza contaminate dall’influenza su di loro del sistema sociale, ciò sta a dimostrare che lo sport c’entra poco o niente.
Sarebbe bastato questo aspetto determinante, cioè il carattere sociale e collettivo del gioco e il bisogno di regole di tali giochi e di chi li gioca, per far perdere senso alla netta divisione che Piracci stabilisce in seguito tra gioco libero e sport. L’impressione che ho avuto è che Piracci non trovi molta differenza tra sport come pratica e sport come spettacolo, mito, alienazione, commercio, ecc. (cioè lo sport come parte della “società dello spettacolo”), il che lo porta a rifiutare lo sport in toto.

«Si potrebbe allora pensare a una convergenza fra gioco fisico e sport, ma non è così.», scrive Piracci, e subito cita Pierre Laguillaumie: «Sportivo non è colui che corre a piacer suo in una natura libera e selvaggia – questo libero di fermarsi quando vuole, libero nella direzione, nella velocità, nello slancio, nella respirazione, è l’immagine della gioia del bambino in un gioco fisico libero». Fino a lì posso essere d’accordo, il problema è che la frase successiva (di Marco Piracci) è la seguente: «Lo sport  rappresenta invece la canalizzazione periodica dell’insoddisfazione, del malcontento e dell’aggressività delle masse, la quale lungi dall’offendere il sistema tende a consolidarlo attraverso l’identificazione con gli ideali del capitalismo: primi fra tutti l’individualismo e la concorrenza.» Ma si stava parlando degli sportivi o delle masse (di pubblico, suppongo)? Allora Totti e il lavoratore precario (citati da Piracci) sono la stessa cosa soltanto perché quest’ultimo si identifica con il bravissimo (e miliardario)  calciatore?
Beninteso sono il primo a rifiutare concetti come quello di “avviamento allo sport” e lo sfruttamento psicofisico (e anche commerciale, naturalmente) di cui sono oggetto i bambini e i ragazzi mediante lo sport agonistico, partendo anche dal fatto che certi sport si possono fare in maniera competitiva soltanto entro certi limiti di età. Da diverse conversazioni avute con bambini di età ed estrazioni sociali molto diverse così come da questionari somministrati di proposito, nell’ambito di ricerche effettuate da alcuni allievi miei durante un corso di formazione per ludotecari e da me stesso tra scolari residenti a Monterotondo (in provincia di Roma) e nel quartiere periferico di Tor Bella Monaca (Roma) e gli utenti della Ludoteca Il sottomarino giallo, nello stesso quartiere, emergeva con forza il desiderio dei bambini di giocare a pallone in un campo da calcio  “vero” ma “senza allenatore”. E’ ovvio che si può correre liberamente e fare tutti i cambiamenti improvvisi di direzione, velocità, modalità, ecc. individualmente. Ma in un gioco a squadre, questa libertà non soltanto è molto limitata, ma addirittura viene mal vista, in quanto comportamento egoistico. Vedere, ad esempio, Messi che parte da metà campo e fa tutto da solo sbaragliando la difesa avversaria fino ad arrivare a spingere il pallone in porta è straordinariamente bello da vedere come bellezza del corpo in movimento e dimostrazione di squisita abilità fisica. E’ anche augurabile che lo faccia almeno una volta durante una partita. Ma non ha minimamente paragone con il lavoro di squadra precedente a una sua rete o ai suoi assist millimetrici ai propri compagni. Ma questo succede anche nelle arti non individuali, come la musica, il teatro o la danza: anche il più bello assolo ha bisogno del supporto del gruppo, della sua complicità, della dinamica dei rapporti musicali e anche umani stabiliti.
  In conclusione e come riassunto di questo breve commento, vorrei dire che è augurabile e possibile che lo sport smetta di essere un fatto commerciale e di alienazione di massa, poiché in fondo si tratta “soltanto” di un cambio di sistema. Sarà più difficile invece che non continui a inclinarsi verso il mito poiché mi sembra che la componente epica sia connaturata allo sport, con o senza la società dello spettacolo. Quello che è invece impossibile rifiutare è lo sport in toto, confondendolo con il suo sfruttamento commerciale e ideologico.

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