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giovedì 24 gennaio 2013

RIFLETTENDO SULL'AGGRESSIONE AL MALI, di Roberto Massari e Pier Francesco Zarcone


LETTERA DI MASSARI A ZARCONE SULL’AGGRESSIONE AL MALI

Caro Zarco, riguardo al tuo articolo sui francesi in Mali, devo dirti che non ho potuto fare a meno di intitolare un tuo paragrafo con la parola "aggressione", che invece non è mai comparsa all'interno del testo - con cui, però, si lasciava capire che di aggressione si tratta, ma senza dirlo esplicitamente.
Ne ho dedotto che in ultima analisi consideri anche tu l'intervento francese in Mali come un’aggressione, ma ti eri semplicemente dimenticato di dirlo.

Che poi tale aggressione sia "comprensibile" in termini economici, politici e fors'anche militari - vedremo nei prossimi giorni - nulla toglie al suo carattere d'intrusione di una vecchia potenza afrocolonialistica nella vita di una vecchia ex colonia afrocoloniale, caduta dalla padella nella brace e dalla brace direttamente sui tizzoni ardenti.
Francamente, se uno mi fermasse per la strada e mi chiedesse. "Ma insomma, tu che critichi sempre queste aggressioni, che cosa proporresti di fare davanti all'espansione del jidasmo?". Gli risponderei: "Caro mio, al punto in cui siamo arrivati non c'è più molto che si possa fare: a macchia di leopardo il problema è destinato a protrarsi indefinitamente, oggi e ieri in Africa, oggi e ieri in Medio Oriente, prima o poi anche nel Centro e Sudest asiatico (e non solo Filippine o Indonesia) .
L'imperialismo affronta ormai da decenni questo problema con gli interventi militari e non viene a capo di nulla. Quindi per lo meno questo è chiaro: che gli interventi militari non funzionano nemmeno sotto questo profilo e tendono a far crescere il problema. Forse se provasse a investire le risorse che spreca per le spese militari nello sviluppo sociale e culturale di questi stessi paesi otterrebbe dei risultati migliori. Ma per farlo dovrebbe suicidarsi in quanto imperialismo. Quindi il serpente si morde la coda. Conclusione che mi pare deducibile anche dalla sostanza del tuo articolo, al di là delle parole con cui lo dici.
Insomma, che gli piaccia o no, l'imperialismo continua ad aver bisogno di queste aggressioni per la propria dinamica interna. A lui non serve il jidaismo: gli serve l'aggressione. Ma senza jidaismo non ci sarebbe aggressione (forse). Quindi necessità che il jidaismo esista, ma che allo stesso tempo non prevalga militarmente. Un autentico vicolo cieco.
Infine, considerazione inter nos da non sottovalutare: l'opinione occidentale è indubbiamente favorevole a questo intervento e lo è per tante ragioni, non tutte riconducibili a interessi corporativi o reazionari (basti pensare alla questione delle donne, alla libertà religiosa, nonché a quella degli ostaggi in Algeria). Sarebbe un errore considerare questa aggressione alla stessa stregua di quelle degli Usa in Vietnam (ma già in Iraq...). Lo sfaldamento del fronte pacifista antiaggressione lo si era visto già all'epoca dell'aggressione all'Afghanistan, cioè al regime fanatico e precapitalistico dei Talebani (i 110 Forchettoni rossi italiani che votarono a favore di quell’intervento non furono un incidente di percorso); poi lo si vide in Libia (cioè nell'aggressione alla dittatura feroce di Gheddafi, un regime capitalistico condannabile da tutti i punti di vista). Ora lo si vede in Mali. E nessuno recrimina per le stragi di islamisti fatte dal governo algerino alcuni anni fa  onde non accettare la sconfitta elettorale all'interno del proprio sistema parlamentare. La nostra cattiva coscienza collettiva ha semplicemente rimosso quella storia sanguinosa, antidemocratica ma apparentemente "politicamente corretta".
Quindi attenzione anche al rischio di settarismo da parte mia e nostra nell'utilizzo dei termini. Di aggressione si tratta, ma non tutte le aggressioni sono uguali e non tutte vengono vissute allo stesso modo dalla popolazione civile. È facile perdere la bussola in un marasma simile. (Pensa al Centrosinistra italiano che vede Bersani schieratissimo con l'aggressione – così come con tutte le altre aggressioni precedenti - mentre Vendola dice timidamente che si tratta di un errore). In Francia sembrano averla persa in molti, comprese le correnti di pensiero che furono in prima linea nella solidarietà con la lotta del popolo algerino.
Ciao
Roberto



L’INTERVENTO FRANCESE IN MALI COME SPUNTO PER PROBLEMI IDEOLOGICI, DI COSCIENZA E POLITICI, di Pier Francesco Zarcone

Una questione complessa
Non è affatto raro che di fronte alla complessità del divenire storico sia tutt’altro che agevole effettuare scelte in linea con una ferrea coerenza ideologica (con inerente “salvataggio della propria anima”). Infatti non è sempre agevole (e a volte n on è addirittura possibile), ricavare il “che fare?” attuale o l’atteggiamento da assumere in base a schemi che – piaccia o no – sono necessariamente tarati su fasi storiche ben precise e diverse. Con la conseguenza che spesso gli stessi valori soggiacenti a detti schemi rischiano di rimanere solo sullo sfondo, nel cielo del “dover essere”. Difficoltà del genere sono state vissute, per esempio, dagli anarchici che - come tali e in prima persona - hanno partecipato a processi rivoluzionari, nel cui corso hanno dovuto adottare iniziative a dir poco spurie, ma finalizzate alla difesa della Rivoluzione (si pensi alla temibile Ceka degli anarchici in Spagna). Il fine programmatico si è dovuto coniugare irrimediabilmente con la realpolitik. Senza dubbio o stesso vale quando si parla di atteggiamento da assumere di fronte a certi eventi.

Rientra perfettamente in questo quadro problematico l’intervento militare francese in Mali, assumibile come spunto per riflessioni, anche antipatiche, tenuto conto del suo appartenere a un ambito su cui le sinistre da tempo si sono divise, spesso vendendosi per il classico “piatto di lenticchie”.  
Il cui carattere neocolonialista dell’azione francese non può venire occultato, né dalle pur esistenti motivazioni umanitarie né dalla richiesta di aiuto fatta da una specie di governo fantasmatico che in fondo rappresenta solo sé stesso. Resta tuttavia il problema del cosa fare e come porsi di fronte alla virulenta azione armata transnazionale dei jihadisti islamici. Abbiamo già sottolineato come ormai sia in atto lo scontro fra essi e tutto il resto, e come il jihadismo sia considerabile a tutti gli effetti un pericoloso nemico anche e soprattutto per le componenti laiche e di sinistra del mondo intero (e di quello musulmano prima di tutto). È bene ricordarlo, trattando qui dell’atteggiamento da assumere verso un nemico mortale, oltre tutto non alieno dal fare opportunistici affari con il capitalismo.  
Fuor di discussione che la questione sia di estrema complessità: un “nodo gordiano” non facilmente scioglibile.
Il 21 gennaio su La Stampa è comparso un interessante reportage dal Mali in cui si cerca anche di far capire quale sia in questo paese l’atteggiamento popolare verso la presenza dei soldati di Parigi. Che qualche maliano parteggi per i jihadisti è comunque scontato, ma quel che colpisce è la franchezza priva di fronzoli con cui un locale grida ai soldati francesi «Stavolta non limitatevi a cacciarli [i hihadisti], sterminateli tutti». È un atteggiamento assai condiviso anche in Occidente, e non ne sono immuni neppure settori della sinistra, quand’anche qui in parecchi preferiscano dirlo francamente. Tutto questo è ahimè comprensibile di fronte alla realtà del jihadismo, fatto di fanatici sanguinari, incolti altresì in un’ottica islamica, prontissimi a usare omicidio e mutilazione verso quanti la pensano diversamente: un’ennesima dimostrazione di come quando un’ideologia (laica o religiosa che sia) legittima lo sfogo della cattiveria umana sui deboli e gli indifesi, allora certa gente accorre sollecita.


Il problema dell’efficacia dell’intervento armato
I fatti hanno ormai dimostrato che lottare contro il jihadismo solo per via militare non dà risultati positivi di rilievo e duraturi: il nemico, temporaneamente battuto da una parte, si ripresenta poi da un’altra parte, diffondendosi e creando un gioco a rimpiattino che rischia di protrarsi a tempo indeterminato. Stando così le cose sarebbe altrettanto comprensibile se qualcuno optasse per lasciare andare le cose per il loro corso condannando ogni intervento esterno delle vecchie potenze coloniali o di altri. Ciò tuttavia rischia di essere un pio desiderio, aperto su scenari tutt’altro che auspicabili, in primo luogo perché le vittorie jihadiste creerebbero su vasta scala problemi di diritti umani (delle donne in primis) del tutto ripugnanti, e poi perché susciterebbero prospettive a dir poco catastrofiche per tutti, se dovessero diventare assumere una certa estensione nel mondo islamico: si pensi al Pakistan che possiede armi atomiche, e immaginiamoci che succederebbe se cadessero nelle mani dei jihadisti. In un’ipotesi del genere, non ci si dovrebbe stupire se qualche governo occidentale decidesse di usare esso l’atomica a scopo preventivo. In Occidente quanti condannerebbero se portasse a una catastrofe per i radicali islamici, e quanti piangerebbero sull’eliminazione di un po’ di gente dalla pelle più o meno colorata e poco assimilabile agli specifici modelli occidentali?
Alle spalle abbiamo un precedente che forse molti hanno dimenticato: lo scannatoio algerino della fine del secolo scorso. Un corrotto governo aveva annullato regolari elezioni vinte dal Fronte Islamico di Salvezza (Fis), mettendo sotto i piedi ogni elementare principio democratico. Questo su un piatto della metaforica bilancia. Sull’altro piatto va messo il Fis (di cui spesso e volentieri ci si dimentica cosa fosse), i cui delusi non si sono limitati a dare vita alla lotta armata conto il governo di Algeri, ma hanno avviato un’atroce campagna di omicidi di massa (donne, bambini e neonati compresi) verso quanti essi non giudicavano musulmani in senso rigorista, e quindi liberamente massacrabili come apostati. Sta di fatto che se non avesse avuto successo (momentaneo?) la sanguinosa repressione di polizia ed esercito algerini cosa si sarebbe detto di fronte a un’estensione ancor maggiore del massacro dentro e fuori dall’Algeria? Non a caso il problema è stato rimosso, durante e dopo i sanguinosi eventi. È stata la cosa più facile.
Problemi di questo tipo non sono certo recenti. Chi scrive ricorda di aver letto da ragazzo un dibattito sul tema “che giudizio daremmo se, dopo la vittoria elettorale di Hitler, la Wehrmacht avesse fatto un colpo di stato antinazista?”. Ovviamente tot capita tot sententiae, a prescindere dalla posizione politica.

Si può parlare di aggressione e aggressione?
E veniamo al tema degli interventi diretti.
Non si parla molto nei mass-media degli interventi effettuati dagli Stati arabi la cui classe dirigente sprofonda in un mare di denaro grazie al petrolio – principalmente Arabia Saudita e Qatar, alleati degli Stati Uniti – consistenti negli indispensabili finanziamenti e rifornimenti per l’azione armata dell’internazionale jihadista in altri paesi. Obiettivamente si tratta di una forma di aggressione dall’esterno che fa riscontro – ma è antecedente - agli interventi aggressivi delle potenze occidentali sul versante opposto. Senza l’intervento del Qatar e dell’Arabia Saudita la Siria non sarebbe da circa due anni un campo di battaglia, da un  lato; e dall’altro lato senza i massicci aiuti militari russi e iraniani da tempo questo paese sarebbe un covo di jihadisti pronti a destabilizzare quanto meno Turchia, Libano, Giordania e Iraq.
A questo punto c’è da fare una domanda: ma perché gli interventi occidentali non si limitano ad aiutare economicamente e militarmente i governi locali nel fronteggiare la sovversione islamista? Preliminarmente c’è una risposta: questo non sempre è possibile proprio grazie alle disastrose spartizioni territoriali fatte dalle potenze coloniali prima della concessione delle indipendenze ai colonizzati. Le loro frontiere sono state tracciate a tavolino con riga e matita prescindendo dalle particolarità delle situazioni locali (etniche, religiose, economiche e sociali), con la conseguenza di divisioni etniche arbitrarie, di accorpamenti etnici innaturali e fonte di conflitti sanguinosi. Non ci si deve quindi stupire se esista una pluralità di Stati o fasulli o falliti. E questo è il caso dell’Africa Occidentale ex francese.
Ciascuno di tali Stati ha – formalmente – le sue Forze Armate. Ma si tratta di eserciti degni di questo nome? “Ottimi” come forze repressive interne in aggiunta alla polizia, per annientarli sul campo basterebbero una divisione di soldati europei e qualche squadriglia di aerei militari. Che da soli non riescano a fare fronte alle bande jihadiste, spesso meglio addestrate oltre che meglio armate, è del tutto naturale.
Esaminiamo un altro profilo. Che le ex potenze coloniali non abbiano mai smesso di controllare buona parte delle vecchie colonie malamente assurte all’indipendenza formale, è cosa risaputa. Ma allora cosa vieta – controllo per controllo – che esse, invece di spendere miliardi su miliardi in aiuti militari, impieghino l’equivalente di quelle risorse per lo sviluppo economico, sociale e culturale nei singoli paesi, costringendo i governi locali a impiegarle a tali scopi (invece di intascarsele)? Per le “anime belle” non c’è nulla a vietarlo. Chi è più avveduto, invece, sa benissimo che lo sviluppo economico. sociale e culturale di quei paesi non interessa per la mancanza di convenienza economico/finanziaria e che comunque i bisogni dell’imperialismo non sempre vanno nel senso di evitare già a monte le situazioni su cui poi intervengono all’insegna dell’emergenza: in fondo l’imperialismo, per la sua politica di aggressione (con cui oltre tutto si finanziano i complessi militari/industriali) ha bisogno anche del jihadismo. Fermo restando che in caso di pericolo concreto di vittoria di quest’ultimo scatta l’aggressione militare per “fermarlo”.
In definitiva l’atteggiamento imperialista verso il radicalismo islamico, compreso il più virulento e ottuso, ricorda Giano bifronte: quando gli conviene (o ritiene che gli convenga) cerca di usarlo; quando non gli conviene più poiché – come il mostro di Frankenstein – non è più controllabile e gli si rivolta contro, allora lo combatte militarmente. È come se un serpente si mordesse la coda. È a questa bipolarità un po’ schizofrenica che si riferisce la stampa ufficiale di Damasco quando ironizza sulla contrapposizione fra appoggio occidentale alla rivolta siriana, che non da oggi appare fagocitata dai jihadisti stranieri (per quanto originariamente autoctona), e l’azione anti-jihadista in Africa occidentale.
Il quadro d’insieme, tuttavia, è un po’ più articolato. È innegabile che ai fini del perseguimento del profitto i soggetti raggruppabili sotto il nome di imperialismo non hanno necessità assoluta, e quindi costante, di ricorrere sempre all’aggressione in senso proprio. Affermare il contrario vorrebbe dire generalizzare unilateralmente e trovarsi caso per caso di fronte a situazioni di segno del tutto diverso. Il caso del Mali è a questo proposito emblematico.
Come già rilevato, la Francia interviene a motivo di una situazione ostativa agli affari in corso e a quelli futuri del capitalismo francese, certo rientranti nella categoria dello sfruttamento delle risorse altrui. In altre parole, l’intervento militare francese avviene per continuare l’aggressione economica in corso, e non per dare corso a essa a seguito di un’aggressione militare.
Se la predetta nostra valutazione è corretta, nel senso che l’intervento militare non è sempre necessario, allora si può dire che la lotta all’estremismo islamico – quando ci si decide a condurla – può fare ricorso ad altri sistemi, tutt’altro che nuovi nella storia umana, e che sono applicazione dello stesso famoso detto francese c’est l’argent que fait la guerre. Chiariamo il concetto mediante un riferimento alla Libia.
Oggi questo paese è notoriamente un grande deposito di armi e munizioni di cui il governo libico non ha il controllo, che invece è delle varie brigate di ribelli anch’esse fuori dal controllo governativo. Beneficiari di questo arsenale sono stati finora i jihadisti delle aree maghrebina e sahariana. Si è venuto a sapere che a seguito di pressioni (e denaro) della Francia tra i Tubu del Niger e del Ciad sono stati organizzati miliziani - dotati anche di binocoli a raggi infrarossi – col compito di bloccare i commerci di armi (e quant’altro) lungo le linee di demarcazione fra Niger, Ciad e Sudan. A questo fine sono stati istituiti anche posti fissi di osservazione. Un rimedio provvisorio, si dirà, perché le popolazioni di quella zona vivono di commerci, e non è detto che l’iniziativa ottenga risultati di rilevo, tuttavia per cominciare è meglio che niente.
Questo esempio rientra nel più generale  principio per cui con l’argent si possono avere risultati per i quali non è necessario ricorrere all’azione militare. Già nei suoi anni d’oro l’impero bizantino vinse più con l’oro che con l’esercito. Oggi la situazione è che il maggior flusso di denaro va dalla penisola araba ai jihadisti. Ma nei territori in cui esso impazza non mancano né avversari né nemici veri e propri, in fondo utilizzabili se si paga.  
Altra cosa da tenere presente è che la valenza del termine “aggressione” non è univoca, in quanto c’è aggressione e aggressione. Vietnan, Afghanistan, Iraq e Libia sono tutti nomi a cui corrispondono altrettante aggressioni imperialiste pure e semplici, prive cioè di giustificazioni al di là delle favolette propagandistiche. In Mali, ahimè, la cosa è un po’ diversa. Qui si deve prendere atto che la situazione era arrivata a un obiettivo punto di non ritorno se lasciata a sé stessa. L’essere intervenuta proprio la Francia per la difesa di suoi interessi non modifica il giudizio. E sta di fatto che non siamo in presenza di un’aggressione come quella all’Iraq - che portò a mobilitazioni di massa notevoli (indipendentemente dagli esiti) - bensì di fronte a un intervento militare contro qualcosa che fa paura, che ha effettuato le sue sanguinose gesta per esempio in Gran Bretagna, Francia e Spagna e che potrebbe diffondersi anche nel resto dell’Europa.

Che fare?
Dopo tante parole, per la complessità della situazione il rischio di concludere con una proposta più che modesta è reale. Ma tant’è. Ci si prova con totale assunzione di responsabilità. Il punto di partenza non può prescindere dalla diversa valenza assumibile dagli eventi comunque rientrabili nella categoria generale della “aggressione”, come dianzi detto. Il criterio, quindi, non può che essere l’effettiva relazionabilità delle azioni militari con la lotta contro il nemico jihadista. Quando siffatta relazione esiste, diventa inevitabile “turarsi il naso” sui secondi e ineliminabili fini perseguiti dall’entità che agisce. Si tratta forse del male minore.
Uno dei profili di saggezza del diritto romano consisteva nella capacità pretorile di cercare la norma del caso singolo (in arabo si dice che la regola consegue dalla situazione materiale specifica: al-hukm taabi al-mawduu). Si tratta obiettivamente di una direzione scomoda e per niente ideologica; ma ce ne sono altre di fronte all’emersione del radicalismo islamico jihadista come nemico di civiltà, in precedenza carente di previsioni?

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