“La scuola, anticamera della fabbrica e della caserma, è il luogo dove
si inculcano le prime forme di disciplina che regolerà la vita dell’adulto.
Alla costrizione fisica corrisponde la perversione del senso morale: si
esaltano, attraverso la storia, i delitti, il furto e la violenza; si istillano
ammirazione per i grandi conquistatori e disprezzo verso gli spiriti ribelli
che hanno lottato, soccombendo,per la libertà e l’emancipazione dell’individuo;
si insegna a venerare i ricchi e a odiare le vittime della tirannia e
dell’intolleranza politica”.
(documento del comitato per un
insegnamento libertario: Reclus, Michel, Grale, Malato, Degalves, Giraud,
Kropotkin, Ferriere,Tolstoj. Parigi 1898)
Credo di aver fornito con i miei
testi precedenti un buon punto di partenza per approfondire il discorso sul
concetto di una buona e giusta educazione, adatta a un vero cambiamento di
prospettiva e che serva al primo atto rivoluzionario di base: vale a dire la
rivoluzione culturale, educativa, relazionale per poter vivere vite autentiche
in società solidali e libere da imposizioni esterne, cioè non eterodirette.
Nella scuola contemporanea, gli
insegnanti con una formazione culturale come la mia sono molto rari e guardati
a vista dal potere istituzionale.
Nella mia scuola, per esempio,
sono costretto a guardarmi le spalle non dagli alunni, con i quali ho ottimi
rapporti umani, ma dai colleghi spesso invidiosi del fatto che sono il
prof più stimato e amato dai ragazzi.
Loro, i colleghi, pensano che
questo accada perché con me sono liberi di essere se stessi e di autogestire la
loro vita in palestra, concretizzando i propri desideri e le proprie inclinazioni.
Con me non esistono “casi gravi”,
mentre per tutti gli altri insegnanti molte classi risultano ingovernabili,
insubordinate, apatiche, rivoltose, non-motivate.
Purtroppo, non c’è mai il minimo
accenno all’autocritica e al mettersi in discussione, perché quando si rovina
il rapporto insegnante-alunno, la colpa viene fatta ricadere sempre e comunque
sull’alunno o sui genitori di quest’ultimo.
Nelle riunioni pomeridiane in cui
si valutano il comportamento e lo studio delle varie classi, spesso viene
fuori, per chi vuol capire, che sono proprio gli insegnanti che non conoscono
il vero scopo dell’educazione e il vero valore di questo concetto.
Molti, quasi tutti, non conoscono
né la metodologia , né la psicologia dell’età evolutiva, né hanno riferimenti
culturali e pedagogici concreti e profondi.
Oltre a ciò, non conoscono
affatto l’organizzazione sociale odierna, chi la dirige e chi ha messo le mani
sulla scuola per sottoporla alle dipendenze del mercato e del consumo, cioè
alle dipendenze del capitale. La prima e più importante lotta di classe la si
dovrebbe iniziare proprio dalla scuola, laddove cioè, si manipola e si modifica
il bambino sino a farlo diventare uno strumento adatto al consenso e allo
status quo. Questo indottrinamento psicologico fa entrare in società individui
inadatti anche ad un minimo pensiero o aspirazione alla trasformazione sociale,
avendo interiorizzato l’organizzazione gerarchica, l’eterodirezione e
l’omologazione in consumatori bisognosi.
L’educazione alla libertà rompe
le catene dei condizionamenti sociali, libera i desideri, aiuta a collaborare
invece che competere, serve a dare quegli strumenti di emancipazione e
liberazione frutto dell’autogestione
solidale che porta all’autonomia e alla responsabilità individuale e
collettiva. Ma la libertà fa paura a molti e la lettura di un libro fondamentale
come Fuga dalla libertà di Erich
Fromm, potrà aiutarvi a capire quale ad esempio è stato il substrato
psicologico di massa che ha contribuito al consenso delle brutali dittature del
‘900.
Se non si viene educati alla
libertà è quasi impossibile che gli umani abbiano desiderio di questo valore
primario, e la società, così com’è andrà sempre bene, magari con qualche
piccolo cambiamento parcellare per chi
si sente “buon elettore di sinistra” come lo chiamava lo scomparso
Massimo Bontempelli, con la sua amara ironia, nel secondo volume della collana
di libri “Utopia rossa”.
Sto cercando di diffondere il
modello educativo libertario a quei pochi colleghi che pur avendo
interiorizzato la “religione della scuola” stanno cominciando a capire che se
le cose non vanno non è per colpa dei ragazzi, ma per responsabilità oggettive
e soggettive di una scuola sbagliata nei suoi princìpi fondanti, nei suoi
metodi, nei suoi scopi.
Il lavoro è più che duro, anche
perché sono solo, ma non mi arrendo e lotterò con tutte le risorse fisiche e
mentali che ho per educare le nuove
generazioni al desiderio di cambiare il mondo. I sogni o le utopie rimangono
tali solo se non si cerca il modo di concretizzarli, con calma, senza fretta,
lasciando che i semi maturino.
Appendice:
Un articolo di
A. Gigli sulla preparazione atletico-sportiva
(apparso su 11 Leoni)
Alessandro Gigli è attivo da molto tempo nel contesto sportivo di Jesi
e dintorni. Ricopre da diversi anni il ruolo di preparatore atletico della
Jesina calcio. La sua esperienza sportiva gli ha permesso di operare nel
settore calcistico collaborando con diverse società nella provincia, ma anche
nel basket e nel volley. Alessandro
insegna a scuola e di pomeriggio si mette a disposizione del tecnico Amaolo per
dirigere il lavoro atletico dei Leoncelli. In questo numero di 11 Leoni ospitiamo volentieri alcune sue riflessioni
sul ruolo della preparazione atletica nello sport e sull'importanza di educare
senza plagiare i giocatori.
Vorrei chiarire anzitutto che la
preparazione atletica è una condizione importante e necessaria ma non
sufficiente per una performance sportiva. Direi che è un pre-requisito, una
base solida da cui partire per le azioni tecniche di ogni sport individuale e
collettivo, ma che da sola non è sufficiente. Spesso si pensa che il rendimento
di un atleta sia subordinato solo dalla sua preparazione atletica; ebbene non è
così o almeno, non è sempre così. Prendiamo ad esempio il calcio. Nel corso
degli anni ho allenato diverse squadre secondo la mia esperienza ed utilizzando
sempre lo stesso metodo di preparazione. Alcune squadre reagivano atleticamente
in maniera positiva riuscendo a rendere in campo in maniera soddisfacente,
altre invece evidenziavano atteggiamenti più statici, più lenti, più compassati.
Ne consegue che la buona preparazione di base deve essere necessariamente
correlata con le caratteristiche dei giocatori che si hanno a disposizione e
del modulo di gioco che si applica.
Questo mix può portare a volte a modificare l’istinto che un giocatore può
avere.
Esatto. Non tutti gli allenatori
adottano lo stesso modulo; c’è che costruisce una squadra votata all’attacco,
viceversa chi preferisce una tattica difensivista, chi osanna il pressing ecc.
per cui ogni singolo giocatore, per quanto preparato adeguatamente, può rendere
sul campo in maniera differente a seconda delle sue caratteristiche. A volte
succede che un giocatore importante deluda le aspettative della piazza magari
per problemi di ambientamento o perché non riesce ad integrarsi adeguatamente
negli schemi (mi viene da pensare al caso di De Rossi della Roma e al suo
momento difficile nella Roma di Zeman). Esistono squadre che hanno un
atteggiamento rinunciatario, difensivista, compassato anche se alla base sono
preparate in maniera ottimale.
Insomma, la forza, la resistenza
e la velocità sono importanti ma non sono determinanti da sole, ai fini del
risultato e della prestazione complessiva. Molto spesso i giocatori per
esigenze di squadra o di modulo devono reprimere il proprio istinto e devono
adeguarsi (per giocare da titolari) alle disposizioni dell’allenatore, anche
quando vanno contro le proprie doti naturali.
Se non si è indipendenti
soprattutto in un gioco di squadra, spesso la libertà scompare e senza libertà
se ne vanno fantasia, estro, coraggio, responsabilità. Spesso è il modo di
educare che è sbagliato: lo è in famiglia, a scuola, allo stadio, al palazzetto
dello sport... ovunque c’è un ordine c’è chi ubbidisce e non c’è un uomo libero
e autoregolato.
Con questo non voglio dire che
non si debba insegnare ad un giovane uno schema, un modo di calciare la palla,
un modo di saltare di testa ecc… ma che non si può sperare di avere degli
atleti responsabili, autonomi e razionali se non li si fa vivere e allenare in
un’atmosfera gioiosa e libera.
Questo vale soprattutto per i più
piccoli dei settori giovanili che spesso, se non sempre, vengono trattati come
adulti, come militari, sopprimendo il loro istinto di divertimento e a volte,
nei casi più drammatici, modificando il loro sviluppo, il loro modo di pensare,
costruendo artificiosamente e contro natura solo piccoli automi, spesso tristi,
litigiosi, depressi e infelici.
Sono convinto che si debba tirare
fuori il meglio da ognuno senza plagiarlo o forgiarlo. E’ ora che l’educazione
torni ad essere un’arte che faciliti ognuno a diventare quello che è e che
desidera, sempre nel rispetto della convivenza. Forse quel giorno potremo
vedere belle partite di calcio con il pubblico che si diverte, senza dover
utilizzare le forze dell’ordine per evitare incidenti tra tifosi. Perché le
persone ben educate non sono mai violente, né dentro né fuori il campo.
Condivido gli insegnamenti di
alcuni tecnici che dedicano tempo allo sviluppo del pensiero tattico, alla
capacità di prevedere dove finirà la palla o dove si svolgerà l’azione, la
maestria nel tocco della palla e nel fare l’ultimo passaggio, la capacità di
smarcarsi, il dribbling…Tutte queste cose hanno contenuti mentali, psicologici
e anche atletici, ma solo in seconda battuta. Certo se poi si è anche forti,
resistenti, veloci, tutto migliora. Queste sono cose che vanno allenate da
giovani, senza eccessive restrizioni per non standardizzare il risultato
finale.
Bisogna però curare bene la
scelta degli allenatori che dovranno essere dei tecnici dell’educazione e con
una certa impostazione pedagogica. E’ molto importante ottenere risultati ma
non con il plagio, con la forza autoritaria di un’educazione repressiva.
Bisogna arrivarci con un’educazione liberatrice e creatrice di vera autonomia.
Per lo sport e per la vita! Hasta la victoria siempre!
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