Calcio precolombino (Maya) |
Introduzione
Fin
dall’antichità più remota si ha notizie di giochi di squadra in cui si
utilizzava un attrezzo sferico e come tale attrezzo fosse spinto o colpito
anche con i piedi. Ciò dimostra che l’utilizzo del piede fa parte di una
normale tendenza al coinvolgimento dell’intero corpo umano nell’attività
sportiva o ludica.
Tutte
le parti del nostro straordinario organismo compresi i piedi, in naturale
correlazione concorrono a determinarne i più diversi movimenti del corpo nello
spazio. Provate ad osservare un bambino che entra in contatto con una palla,
anche se non ha mai visto giocare al calcio o non ne ha mai sentito parlare,
immediatamente ne sarà incuriosito. La manipolerà, ci appoggerà la bocca, la
raccoglierà e la lancerà con le mani ma, prima o poi, certamente gli darà anche
dei calci.
Cercherà
di impossessarsi della sua forma, ne valuterà le sue proprietà
fisico-meccaniche, sarà divertito dalla caratteristica del rotolamento che il
volume sferico possiede per natura.
La
palla diventerà fonte di gioco e di sorprendenti scoperte. Osservando con
attenzione il comportamento dei bambini ci accorgeremo che essi prendono
possesso del mondo con l’intero corpo allertando tutti i loro sensi. In
relazione paritetica e senza un preciso ordine gerarchico mani, bocca e piedi
sono i suoi sensibilissimi ricettori e trasmettitori, gli strumenti con i quali
acquisisce la consapevolezza del sé e del circostante fin dall’inizio della
straordinaria camminata che ognuno di noi compie nella vita.
Il piede e il gioco
Siccome
abbiamo visto che il piede entra inizialmente nella storia della civiltà umana
in maniera assolutamente paritetica rispetto alle altre parti del corpo, non
sorprende che esso compaia fin dagli albori della civiltà nelle attività
ludiche o sportive.
Infatti, di antenati
abbastanza simili al calcio attuale si hanno tracce fin dal II secolo. Uno di questi
lo si riscontra nel cinese tsu'
chu o cùjú, letteralmente "palla spinta con il piede", nel
quale si doveva calciare una palla, riempita con piume e capelli, tra due canne
di bambù. La porta non superava i 30/40 cm di larghezza. Circa 500 o 600
anni dopo, in Giappone
si giocava il kemari (tuttora praticato), nel quale l'obiettivo dei
giocatori, disposti in cerchio, era di non far toccare la palla in terra
colpendola con i piedi.
Nella Grecia del IV secolo a.C. si giocava
l'episciro (dal greco episkyros);
nella successiva epoca Romana prese il nome di harpastum, nel quale due
fazioni dovevano portare una palla oltre la linea di fondo avversaria e nel
quale prevaleva l'aspetto antagonistico e fisico rispetto a quello puramente
agonistico.
I riferimenti successivi si
trovano 700 anni dopo nel Medioevo,
in Italia, dove venne
probabilmente abbozzata una forma di gioco in cui la palla veniva trattata con
tutte le parti del corpo compresi i piedi (anche se con caratteristiche più
simili al rugby)
e chiamato Calcio in costume
o Fiorentino.
Nelle isole britanniche
questi sport impropriamente considerati antenati del calcio portati dai
conquistatori romani, incontrarono diverse opposizioni: nel 1314 il podestà di
Londra li dichiarò fuorilegge, durante la Guerra dei
cent'anni furono vietati a favore del tiro con l'arco.
Vennero successivamente
osteggiati da parte dei Puritani
nel XVI secolo che li consideravano "frivoli".
Lo sport rimase comunque
praticato e non fu mai soppresso del tutto, finché non venne depenalizzato nel 1835 con il cosiddetto Highway Act,
che vietò il gioco nelle strade pubbliche ma lo rese possibile negli spazi
chiusi.
Si tratta in ogni caso di
giochi e sport che vengono praticati in alcuni periodi storici ed in
determinati territori. Essi nascono e muoiono seguendo l’ascesa o il declino
delle civiltà che li hanno introdotti, seguendo il destino di molti altri sport
e giochi nati nell’antichità e poi successivamente dimenticati.
Calcio, la genesi
Sino alla fine del XX secolo
nessuno poteva immaginare che proprio il calcio che, nella sua forma moderna
nasce relativamente tardi, avrebbe raggiunto la diffusione planetaria e la
dimensione universale che gli viene riconosciuta.
D’altro canto, se oggi è
possibile immaginare la nostra civiltà senza il baseball o l’hockey,
non sarebbe possibile immaginarla senza il calcio.
La storiografia tradizionale
ed universalmente accettata considera l’Inghilterra e in particolare i college britannici come la
patria del calcio moderno. Il calcio nasce quindi nelle isole britanniche e si
diffonde come sport d'élite. Il football fu inizialmente praticato dai
giovani delle scuole più ricche e delle università.
Le classi erano sempre
composte da dieci alunni e a questi si aggiungeva il maestro che giocava sempre
insieme a loro. Nacque così la consuetudine di giocare in undici.
Il capitano di una squadra
di calcio è quindi una sorta di discendente del maestro che, in quanto tale,
dirigeva la sua classe di alunni.
Le diverse scuole
britanniche giocavano ognuna secondo le proprie regole, spesso basilarmente
diverse.
Ma è proprio in questa fase
che il calcio si differenzia radicalmente dal rugby con l’introduzione
di una regola semplice ma che, a mio avviso, costituisce una sorta di
spartiacque, vera e propria genesi di uno sport che, da questo punto di vista,
non discende direttamente da nessun altro gioco e che lo rende pertanto
qualcosa di inedito e del tutto diverso da qualsiasi altro sport: si vieta
l’uso delle mani e i piedi diventano i veri artefici di del quel prodigio umano
che diventerà il calcio moderno.
1848, all'Università di
Cambridge, H. de Winton e J.C. Thring proposero e ottennero di fare
una riunione con altri undici rappresentanti delle varie scuole e club inglesi
(tra cui Eton, Harrow, Rugby, Winchester
e Shrewsbury) per trovare un
punto d'incontro. La riunione durò otto ore e produsse un importante risultato:
vennero infatti stilate le prime basilari regole del calcio, dette
anche Regole di Cambridge, nelle quali si sancisce ufficialmente che nel
calcio la palla si calcia con i piedi e che il “tocco di mano” è vietato e
sanzionato.
Il 24 ottobre 1857 a Sheffield, Nathaniel Creswick fondò la
prima squadra di calcio della storia: lo Sheffield FC. Ma il
contributo di Creswick al gioco del calcio non si fermò qui: insieme a William Prest scrisse nel 1858 le Sheffield Rules che si
aggiungevano a quelle precedenti ed introducevano nel gioco regole importanti
come la durata della partita e la divisione della stessa in due tempi.
La città di Sheffield può essere
considerata a tutti gli effetti la madre del calcio moderno dato che, dopo la
fondazione del primo club, nella cittadina inglese si giocò la prima
competizione di calcio della storia: la Youdan Cup, vinta dall'Hallam FC, il secondo club
di calcio della storia. Pochi anni dopo, il 26 ottobre 1863, a Londra venne fondata la Football
Association, prima federazione calcistica nazionale che unificò
definitivamente il regolamento.
Queste scelte posero
definitivamente fine al dubbio che riguardava la parte del corpo con la quale
colpire la palla: il nuovo regolamento indicò chiaramente il gioco con i piedi
e permise l’utilizzo delle mani solo nel momento in cui era necessario
catturare un pallone sicuramente indirizzato in porta, come su un calcio di
punizione diretto. Queste regole furono adottate da tutti eccetto che dalla scuola di Rugby che
seguirà la sua strada differenziandosi definitivamente e radicalmente dal
calcio.
Calcio, fenomeno globale
Il calcio si espanse a
macchia d'olio: in Inghilterra ben presto divenne lo sport per eccellenza della
classe lavoratrice e non solo di quella benestante. Comincia l’ascesa
travolgente che porta il calcio ad uscire immediatamente dal confine elitario
circoscritto alle classi agiate per assumere fin da subito una dimensione
universalistica. Dall'Inghilterra, il calcio moderno venne esportato prima
nelle vicine Scozia
(1873), Galles
(1876) e Irlanda del Nord
(1880) e successivamente in
tutta Europa o per opera degli
emigrati di ritorno dall'Inghilterra stessa (che furono tra i primi a conoscere
il football) o su iniziativa degli stessi inglesi che si trovavano
all'estero. Furono così fondate le federazioni in Europa e ovunque arrivava il
commercio inglese (come Nuova Zelanda
e Sud America).
Il fenomeno ormai era di
dimensioni intercontinentali e fu necessario adattare le istituzioni
calcistiche e chiarire in maniera più dettagliata le regole. Regolamento che
subisce una evoluzione continua ma che salvaguarda comunque la caratteristica
costitutiva, ossia, a parte pochissime eccezioni rigidamente definite dal
regolamento, la palla si colpisce con i piedi.
L’universalità
Secondo lo studio Big Count
2006, svolto dalla FIFA nel corso del 2006 e pubblicato nel maggio 2007, in tutto il mondo ci sono 265 milioni
di persone che praticano il calcio di cui 38 milioni tesserati per le varie
società. Includendo anche gli arbitri e i funzionari il
totale delle persone direttamente coinvolte nel calcio raggiunge i 270 milioni,
ovvero circa il 4% della popolazione mondiale. Il continente con più giocatori
in termini assoluti è l'Asia
(85 milioni di calciatori), seguita da Europa (62), Africa (46), America del Nord (43), America del Sud (27) e Oceania (0,5) mentre in
percentuale la maggior diffusione si ha in Europa, Nord e Sud America, dove le
persone coinvolte rappresentano il 7% della rispettiva popolazione totale.
Questi dati, anche se non recentissimi, sarebbero già sufficienti a dare
un’idea della notevole diffusione di questo sport su scala mondiale, ma è pur
vero che tali statistiche non sono del tutto attendibili a causa dell’estrema
difficoltà a individuare metodologie esaustive per la raccolta dei dati. Ciò
per più di un motivo, a partire dalla disorganizzazione e dal dilettantismo di
numerose federazioni calcistiche, in particolare del cosiddetto terzo mondo,
passando per una sorta di refrattarietà di alcune federazioni nel diffondere i
dati reali sul numero dei propri tesserati, finendo con l’oggettiva difficoltà
sintetizzare dati statistici estremamente eterogenei sull’argomento.
Se per misurare l’effettiva
diffusione di questo sport si dovessero considerare esclusivamente le
statistiche elaborate sulla base del numero dei tesserati scopriremmo che in
Italia il calcio è lo sport di gran lunga con il maggior numero di praticanti:
1.129.440 come emerge da una ricerca pubblicata su Sport Week, il
magazine settimanale de La Gazzetta dello Sport, che ha raccolto, in
occasione del 15esimo Censimento Generale della Popolazione e delle Abitazioni,
i dati di Coni e Istat per capire come sono cambiate le abitudini degli
italiani in tema di sport. Il calcio è seguito dalla palla a volo con 327.031,
dal basket con 322.556, dal tennis con 240.999
e giù a scalare: la pesca sportiva, l’atletica, il motociclismo, gli sport
equestri, le bocce e il badminton al decimo posto che conta 113.039
tesserati.
Dalle rare statistiche
internazionali risulta invece che nel mondo il calcio per numero di tesserati è
solo quarto con 265 milioni di praticanti, preceduto dal tennis tavolo con 300
milioni, dal basket con quattrocento milioni e dal volley a grande distanza con
998 milioni. È ovvio che questo tipo di statistiche basate esclusivamente sul
numero dei tesserati e praticanti ufficiali fornito dalle federazioni, non
danno la misura di quale sia la reale diffusione delle discipline sportive.
E’ altrettanto ovvio che per
misurare in modo attendibile il fenomeno calcio bisognerebbe tenere in
considerazione molti altri indicatori a partire dai numeri sul pubblico che
segue questo sport, sia negli stadi che attraverso i media, dalla rilevanza
economica dei diritti televisivi, il numero di società iscritte alle federazioni,
la capitalizzazione delle società stesse, il richiamo mediatico internazionale
che esercitano le più importanti competizioni sia a livello di squadre
nazionali che di club, alla quantità di pubblicazioni giornalistiche o a quanto
il mercato editoriale insista sull’argomento ecc.
Sarebbe persino banale,
anche se non confortati da un preciso riscontro statistico, affermare che il
calcio ha raggiunto una rilevanza enorme a qualsiasi livello nella cosiddetta
modernità. Per sostenere che il calcio non ha rivali nell’ambito dello sport e
che è difficile individuare validi competitori in qualsiasi altro campo la
ricerca statistica potrebbe risultare addirittura superflua.
Perché proprio il calcio
Dato quindi per scontato che
il calcio sia lo spettacolo globale più importante del mondo e che debordi
ampiamente dalla semplice forma spettacolo per diventare fenomeno universale
estremamente più cogente, nasce una domanda assai banale ma alla quale le
risposte che una moltitudine di pensatori, giornalisti e uomini di cultura
hanno cercato di dare non sono, a mio modesto avviso, del esaustive e del tutto
sufficienti per spiegare come uno sport o gioco, di per sé apparentemente
simile a molti altri, abbia conseguito una universalità tale da vincere la
gara, sul piano della diffusione planetaria e della radicatio vitae con le grandi ideologie e le grandi religioni
affermatesi nella storia sia antica che contemporanea. O meglio, molte sono le
spiegazioni, molte le teorie di indubbia efficacia e di solide basi teoriche ed
analitiche che hanno messo sotto il microscopio il fenomeno calcio per gran
parte degli aspetti divenuti prepotentemente osmotici con la struttura sociale,
culturale, politica, economica, antropologica, filosofica e persino biochimica
che domina il nostro spazio e il nostro tempo.
Le risposte sono molteplici
ed articolate, ognuna delle quali mira a rintracciare il motivo o i motivi per
il quale il football appare sempre più saldamente radicato nell’uomo.
C’è chi ne ha sottolineato l’intrinseco legame con la società moderna
industrializzata, evidenziando ad esempio come esso incarni alla perfezione lo
spirito di competizione, d’impresa, d’efficienza. Miti che hanno dominato
l’ultima fase della modernità e che oggi, contrariamente alla popolarità del
calcio, sono fortemente in crisi davanti all’evidente fallimento del modello di
sviluppo del quale hanno costituito i pilastri socioculturali di riferimento.
Qualcuno ha intravisto in
questa caratteristica la tendenza del calcio a soppiantare i giochi tradizionali
espressione di identità etniche e regionali. Oppure, al contrario, chi ne ha
voluto fare l’emblema del sentimento patrio, o di ritrovati legami
nazionalistici che vanno ben oltre il naturale sentimento di appartenenza
comunitaria e molto altro ancora.
Valutazioni che però non
colgono fino in fondo le poche quanto banali caratteristiche di questa attività
umana che la rendano, pertanto, unica ed irresistibile.
Esiste una letteratura ormai
sconfinata che si occupa della questione ma, per quanto vasta, gli elementi che
vengono presi in esame non sono riconducibili esclusivamente al calcio.
Molte questioni affrontate,
per quanto di indubbio interesse, rientrano in un ambito più generalista,
comune ad altri giochi e sport di squadra, riconducibili alla misteriosa
relazione tra uomo e gioco, al rapporto tra l’estetica della singolarità e
l’organizzazione etica della pluralità, od ancora alla relazione, anch’essa
misteriosa, tra gli individui e quel primordiale volume che è la sfera, così
carico di significati simbolici, religiosi, metafisici e matematici, che da Parmenide in poi, ma forse da sempre,
ne hanno fatto l’emblema della perfezione.
Palla, altrimenti detta “giocattolo degli dei”, ma attrezzo
che, come è noto, compare in tanti altri sport e giochi molto umani e del tutto
terreni.
Altri, ma peraltro molto
pochi, hanno colto nel calcio la peculiarità dell’utilizzo prevalente e quasi
esclusivo dei piedi ma limitandosi ad intravedere in ciò una specie di semplice
rivalsa del piede plebeo nei confronti dell’aristocrazia della mano.
Credo che in realtà questa
relazione vada indagata molto più in profondità perché, proprio in essa,
potrebbe nascondersi una delle possibili spiegazioni dell’universalità
fenomenologica del calcio.
In pochi hanno colto la vera
quanto banale particolarità del calcio, ossia che è l’unico sport nel quale si
usano e si esaltano solo i piedi.
Nelle principali lingue
europee questa semplice verità viene attestata proprio dal nome stesso del
gioco che tiene insieme i termini piede (foot)
e palla (ball): football per
l’appunto.
L’unico sport, per contro,
in cui l’uso della mano non solo è vietato ma anche duramente sanzionato,
eccetto per il ruolo del portiere che comunque ha competenza solo all’interno
di un limitato settore del terreno di gioco (aria di rigore) e, con le
recenti modifiche apportate al regolamento, solo se il pallone è calciato da un
avversario, altrimenti scattano le sanzioni anche per lui.
Inghilterra, nasce il calcio
moderno. Fu un caso?
In precedenza abbiamo
ricordato che per la storiografia ufficiale universalmente accettata è
l’Inghilterra la patria del calcio moderno. Ma proprio a partire dalle
riflessioni precedenti potrebbe non essere un caso che il calcio moderno nasca
proprio nell’Inghilterra vittoriana, nel cuore della rivoluzione industriale,
patria e banco di prova dell’ideologia positivista del “fare”, simulacro
della cieca fiducia nel progresso.
Nonostante l’impressionante
rivoluzione tecnologica della macchina, l’utilizzo anche simbolico della mano
conserva la sua centralità, come archetipo dell’evoluzione “positiva” dell’uomo che si fa
largo nel mondo sensibile, nella natura imponendo se stesso, la sua superiorità
rispetto al resto dei viventi in larga misura in virtù della ragione, la cui
protesi tecnica è proprio la mano.
Calcio e luddismo, esiste
una relazione?
Come non fu assolutamente un
caso che fossero proprio gli operai inglesi, i famigerati luddisti, nel 1811-13 a prendere d'assalto i
telai meccanici per la lavorazione della lana, al tempo della prima grande
Rivoluzione Industriale.
I libri di storia e
specialmente quelli scolastici, ce li hanno sempre dipinti come degli ottusi
nemici del progresso; degli ignoranti
retrogradi incapaci di comprendere che l'economia capitalista, ad ogni
rivoluzione delle tecniche produttive, dei trasporti e delle comunicazioni,
dopo un’inevitabile crisi di assestamento, possiede in sé la virtù prodigiosa
di riassorbire la manodopera in eccesso e di assicurare benessere e prosperità
per tutti. Ma i luddisti furono soltanto questo?
In un documentato saggio
storico, Ribelli al futuro, il noto pensatore ecologista statunitense
Kirkpatrick Sale ricostruisce la genesi, lo sviluppo e la fine del movimento
luddista nelle quattro contee dell'Inghilterra centro-settentrionale (Lancashire,
Cheshire, Derbyshire e Nottinghamshire) che già avevano visto, secoli prima, le
leggendarie gesta di Robin Hood, in nome di un ideale di giustizia sociale e di
libertà.
(E’ interessante notare che
Sheffield, la città inglese dove nasce la prima società di calcio la
Sheffield F.C, si trovi proprio
nella contea dello Yorkshire dove i luddisti furono particolarmente
radicati ed attivi).
I luddisti combatterono un
tipo di macchine che esprimevano un modo di produzione ingiusto non solo verso
di loro, ma verso tutti gli altri popoli e la natura. In questo senso furono
l'unico movimento popolare che avesse colto il problema morale del processo
industriale fin dai suoi albori.
In realtà i luddisti non
combatterono il Progresso, ma una certa tecnologia al servizio della logica
spietata del massimo profitto con il minimo dei costi di produzione e, quindi,
della mano-dopera.
Essi insorsero non solo
contro i telai meccanici e la logica immorale dell'egoismo padronale, ma
anche a favore della restaurazione della civiltà artigiana e rurale,
basata su un sistema produttivo che inseriva il singolo lavoratore in una rete
di solidarietà sociali, e che le recinzioni delle terre comunitarie dei
villaggi, alla fine del 1700, aveva già messo drammaticamente in crisi.
I luddisti ebbero il merito di porre la domanda se è
giusto che la vita umana sia subordinata a fredde leggi economiche. Se è giusto
che l'essere umano sia considerato una semplice appendice del capitale.
È accettabile una tecnologia
che non si cura dei costi umani del cosiddetto progresso, ma solo e unicamente
dei profitti di una ristretta classe
sociale? Fino a che punto dobbiamo subire il ricatto di un siffatto, malinteso "progresso"?
La vicenda dei luddisti ci
ricorda che ogni rivoluzione tecnologica del capitalismo ha prodotto crisi
drammatiche di disoccupazione, miseria e sfruttamento. Alla seconda rivoluzione
industriale di fine '800, ad esempio, l'Europa rispose cacciando sui bastimenti
degli emigranti milioni e milioni di lavoratori disoccupati: fu quello il suo
modo di disinnescare le tensioni sociali conseguenti alla dilagante caduta
della domanda di lavoro.
La verità è che da quando il
mitico Ned Ludd distrusse il suo telaio a martellate verso la fine del
Settecento, l’umanità non ha ancora fatto chiarezza su cosa sia il progresso,
come lo si possa definire. Si può considerare progredita una società tutta
protesa alla conquista del benessere materiale, oltretutto per una ristretta
minoranza d'individui, e sorda e cieca alle più autentiche istanze di benessere
spirituale, intellettuale e morale?
Forse, l'industrialismo
fondato su macchine finalizzate allo sfruttamento e alla produzione ad
esclusivo vantaggio dell'uomo, è in rotta di collisione non solo con la
biosfera ma anche con la natura umana.
Le società industrializzate,
benché in grado di creare l'abbondanza materiale anche se non per tutti, sono
tuttavia, afflitte dalla disuguaglianza, dall'ingiustizia, dall'instabilità e
dall'inciviltà. Deficienze che tendono ad aumentare più che a ridursi con il
progresso tecnologico.
E pur profetizzando il
crollo del sistema politico-economico attuale, vuoi per un collasso ecologico,
vuoi per l'esplosione delle sue insanabili contraddizioni interne, il compito
dei neo-luddisti, forti dell'esperienza passata, potrebbe essere quello
di preparare e preservare quel complesso di conoscenze che vanno ben oltre la
tecnologia industrialista, inglobando e preservando i saperi collettivi che
riguardano la valorizzazione del Sé in perfetta armonia col Comune.
Non è detto che sia proprio necessario attendere il collasso del capitale, per
rifondare un diverso modello di società e di cultura; ma che si possa, fin
d’ora, adoperarsi attivamente per affrettare la scomparsa di un tipo di
economia e di mentalità che non meritano di sopravvivere.
E tutto ciò come si connette
con la nascita del calcio moderno? A nostro avviso i due fenomeni sono in
qualche modo legati. Oltre ad essere più o meno contemporanei, collocati nel
medesimo territorio e nella stessa fase storica, rappresentano entrambi una
sorta di resistenza ad una certa idea di progresso che proprio in Inghilterra
prendeva forma sulla scorta del processo di industrializzazione.
Certo, il luddismo fu
rivolta vera, repressa nel sangue perché incideva direttamente sui processi
materiali e sugli assetti sociali dello sviluppo capitalistico, ponendo con
forza e chiarezza una questione di classe.
Il calcio, identificandosi come
attività che escludeva la mano dalle sue dinamiche, interpretava alla
perfezione una sorta di resistenza contro l’introduzione della macchina che non
depotenziò l’uso della mano ma che, al contrario, la rese funzionale e complice
di quella rivoluzione illuministica di cui Kant fu uno dei grandi ispiratori.
Kant che, nel descrivere la volontà di dominio dell’uomo tecno-intelligente
sulla natura aneurale, non a caso elevò proprio la mano a protesi celebrale
attraverso la quale compiere la “conquista”. Da questo punto di vista,
si può azzardare l’ipotesi che la proletarizzazione del calcio, che da attività
elitaria praticata nei college si è immediatamente diffusa tra le classi meno
abbienti, non sia determinata solo dal fatto che si può teoricamente praticare
senza costi: uno spazio piano, una palla e quattro pali sono sufficienti,
(questo vale per tanti altri sport che però non hanno seguito la medesima
parabola) ma che sia una delle facce della stessa, forse troppo romantica
medaglia: il luddismo come rivolta e resistenza sul piano materiale e sociale,
il calcio come fenomeno più sotterraneo, esistenziale e che ha agito nelle
profondità della sfera dell’inconscio collettivo.
Questa ipotesi non cela la volontà
di attribuire al calcio chissà quale proprietà rivoluzionaria, è solo un
modestissimo tentativo di trovare una chiave di volta, fuori dai luoghi comuni,
sul perché proprio il calcio abbia affascinato e continui ad essere una potente
e durevole attrattiva per masse incalcolabili di esseri umani andando ben oltre
l’idea di sport o gioco.
Con la massiccia
introduzione della macchina nei processi produttivi e più in generale
meccanizzando le attività umane, lo sviluppo tecnologico depotenzia l’attività
manuale in sé, defraudata del processo creativo completo che traduce l’idea in
manufatto, in prodotto finito (produzione artigianale, operaio di mestiere). La
mano, pur declassata, resta l’arto imprescindibile attraverso il quale il
cervello trasmette il comando per le operazioni che gestiscono la macchina.
Questo processo è ancor più
evidente nell’arte in cui la manifattura dell’opera è un mix quasi paritetico
tra la tecnica realizzativa delegata alla mano e la creatività della mente; un
artista non poteva essere tale senza grande intelletto ed intuizione, ma nel
contempo senza possedere una “buona
mano”.
La produzione artistica e in
genere la maggior parte delle manifestazioni creative umane non sono forse una
perfetta sintesi tra la produzione della mente e il virtuosismo della mano?
Non sono forse la massima
nobilitazione di questo rapporto?
E quando questa relazione si
compie attraverso l’arto povero non si tratta di una potente rottura?
Di un ribaltamento dello
schema antropologico che regola la società normata?
E per estensione, insieme
all’arto povero, non rappresenta una riabilitazione della povertà in genere
compresa quella sociale, vituperata da secoli di esaltazione filosofica e
biopolitica della ricchezza come fine ultimo e razionalistico dell’esistenza
umana? (Ricchezza intesa in senso lato, ma nel senso di abbondanza).
La diffusione massiccia
della macchina per la realizzazione delle attività umane, non solo nei processi
produttivi, nonostante l’enorme evoluzione tecnologica non modifica
sostanzialmente questo rapporto. L’introduzione della tecnologia informatica e
digitale richiede delle macchine la cui operatività è ancora dipendente dall’utilizzo
della mano. Le macchine, anche quelle più sofisticate prevedono, in caso di
intervento umano nella loro gestione operativa, ancora l’uso massiccio della
mano.
Tastiere e pulsantiere
dominano oggi più di ieri il nostro universo quotidiano. Anzi, certe tecnologie
come il touch riconsegnano alla mano una maggiore centralità richiedendo
una sorta di accresciuto virtuosismo del movimento e della coordinazione.
La modernità, pertanto, ha
costituito solo un parziale declassamento dell’arto superiore che conserva
anche simbolicamente quel ruolo kantiano già intravisto dal pensatore tedesco
nel Settecento che non esitò a definire questo arto come il “cervello esteriore dell’uomo”.
Calcio Fiorentino, 1688 |
Questa prerogativa è alla
base dell’evoluzione fisica della mano legata allo sviluppo tecnologico.
E’ assai noto che le mani
dell'uomo debbono il loro straordinario successo allo sviluppo del pollice
opponente. Fra tutte le parti del corpo le mani sono, forse, le più attive;
eppure ben di rado ci lamentiamo di avere le mani stanche. E' stato calcolato
che, in una vita media, le dita si piegano almeno 25 milioni di volte. Il
maschio adulto medio può esercitare una presa di circa 20 kg , presa che può giungere
a valori di 50 in
particolari condizioni di allenamento. Ma il successo di questa dinamica
appendice è dovuto solo per la metà alla potenza; per l'altra metà si deve alla
sua estrema precisione. Utilizzo di strumenti sempre più sofisticati e
tecnologici ha prodotto un’evoluzione della mano verso un’accresciuta
leggerezza e una muscolatura più agile. Ma tale maggiore precisione non dipende
solo da una maggiore leggerezza. Le articolazioni delle dita sono diventate nel
processo evolutivo dal punto di vista fisico sempre più flessibili.
E' stato sostenuto (D'Agelou dell'Università di Los
Angeles) che questa maggiore “flessibilità” e destrezza è il risultato
di uno speciale adattamento evolutivo determinato dalla specializzazione delle
mani nell’utilizzo di strumenti sempre più piccoli e complessi. La mano umana è
divenuta una straordinaria opera di ingegneria, così complessa che nessuna sua
imitazione da parte della robotica è mai riuscita a riprodurne tutte le
molteplici azioni.
Kant
ha definito
la mano anche come “la parte visibile del cervello” e Bronowski usò un'immagine simile dicendo "la mano e'
la lama della mente".
E il piede?
Il piede, al contrario è
sostanzialmente escluso dalla modernità da un maggior coinvolgimento nei
processi di riordino economico, sociale e culturale. Questa parte del corpo
rimane del tutto marginale nel compimento delle azioni fondamentali finalizzate
allo sviluppo del progresso.
Mentre la mano evolve in
parallelo all’evoluzione dei processi tecnologici ed affina e specializza le
sue funzioni il piede, al contrario, involve anche dal punto di vista morfologico;
assieme al pollice opponente caratteristico dei primati, scompare la capacità
prensile; la sua struttura progressivamente si modifica atrofizzandosi, le dita
si accorciano mentre cresce la parte per così dire statica del piede. Mentre
vestire la mano è considerato utile da un punto di vista protettivo ma inibente
per quanto riguarda le sue funzioni, vestire il piede e nasconderlo nelle
più diverse calzature diventa essenziale per adattare l’arto alle esigenze
delle mutevoli condizioni della deambulazione.
Senza un’adeguata calzatura
il piede non sarebbe più in grado neanche di assolvere le sue naturali se pur
modeste funzioni.
Nell’industria tessile,
sorta di motore anche simbolico della prima rivoluzione industriale, già alla
fine del IXX secolo i telai industriali nella parte di mondo più sviluppato
avevano sostituito quasi interamente quelli tradizionali semimanuali. Tuttavia,
nelle vecchie filande, in alcune macchine divenute obsolete, resistevamo dei
comandi azionati con il piede.
Nella modernizzazione dei
processi produttivi l’utilizzo dell’arto inferiore, già marginale, scompare del
tutto.
In agricoltura, anche la
pigiatura dell'uva che si faceva con i piedi viene sostituita da quella
meccanizzata.
Se si esclude qualche
strumento musicale come il pianoforte, l’organo, la spinetta e simili o la
batteria, in cui il piede compie un’azione comunque coadiuvante e non certo
centrale, il piede si conferma all’estrema periferia del dispiegamento delle
attività umane comprese quelle sportive, creative o ludiche.
Il mito della velocità che
accompagna il progresso rende il piede, o meglio la sua quota parte nella
meccanica della deambulazione, fortemente inadeguata. Infatti, grossa parte
della ricerca industriale a cui si lega lo sviluppo tecnologico, risiede nella
necessità di fornire protesi velocizzanti per la deambulazione umana.
Se prima dell’applicazione
dell’energia del motore alla macchina, per velocizzare lo spostamento e cercare
di dominare meglio lo spazio furono usati il cavallo o altri animali, nella
modernità si fa largo una tecnologia specifica per costruire dispositivi capaci
di movimentare in tempi molto più rapidi sia gli uomini che i suoi prodotti.
Questa è un’altra detrazione
che subisce il piede e per estensione tutto l’arto inferiore che perde
parzialmente anche la funzione prevista dalla naturale attitudine umana al
movimento del corpo nello spazio orizzontale schiacciato a terra dalla gravità.
Il nomadismo, la tendenza
dei gruppi umani alla conquista dello spazio orizzontale nella forma
perpendicolare alla terra, è avvenuta per centinaia di migliaia di anni a
piedi.
La sopravvivenza umana per
intere ere si è legata più al piede che alla mano, in una relazione pressoché
paritetica tra arti inferiori e superiori.
Anche nel linguaggio e negli
idiomi parlati dalla maggioranza dei gruppi etnici è riscontrabile questa
profonda contrapposizione dicotomica tra arti superiori e inferiori.
Sono una quantità
praticamente infinita i modi di dire che sottolineano il ruolo positivo assegnato
alla mano che generalmente si contrappone a quello negativo assegnato ai piedi,
ad esempio “ragionare coi piedi”, “trattare come una pezza da piedi”,
“lavori fatti coi piedi”, “farsi mettere i piedi in testa”. Si parla
inoltre di “leccapiedi”, alludendo al fatto che i piedi occupano nel
corpo umano la posizione più bassa in assoluto (sotto i piedi c’è il suolo).
Ed ancora, “un lavoro fatto coi piedi” è
caratterizzato da una qualità di livello minimo, i piedi sono molto lontani dal
cervello, quindi i “ragionamenti” da loro prodotti sono di livello terra terra;
la pezza da piedi viene strapazzata e coperta dallo sporco del terreno
accumulato nelle scarpe o sulle piante dei piedi; per poter leccare i piedi ci
si deve abbassare ed anzi prostrare al livello del terreno, e lo stesso avviene
se ci si fanno mettere i piedi in testa o sulla faccia. Nel rito Cristiano, uno
degli atti più carichi di simbologia è proprio il lavaggio dei piedi
all’indigente, azione estrema di auto umiliante sottomissione.
Persino al momento della
nascita il parto podalico, quanto si verifica, è tutt’ora difficoltoso e
considerato di cattivo auspicio.
D’altro canto, nella nostra
lingua compaiono metafore più indulgenti verso il piede che riacquista un po’
di dignità, ma è pur vero che si tratta di modi di dire in cui il piede
conserva un ruolo marginale, se non meramente meccanico, oppure come semplice
intralcio al movimento per la persona “avere
qualcosa o qualcuno tra i piedi” o di rettitudine “vi sono persone coi piedi per terra”,
ma mai un ruolo “pensante”.
Un’espressione come il “gigante coi piedi d’argilla”
dimostra per contro di non farsene nulla della sua mole, avendo una base molto
fragile, piedi intesi quindi come semplice base di sostegno.
Un ragionamento simile è
possibile se si prende in esame il linguaggio del corpo che negli esseri umani
parla soprattutto con le mani.
È praticamente
infinita la gestualità delle mani con la quale si comunicano segni, stati
d’animo, appartenenza politica, sociale; con le mani si offende oppure si
dimostra apprezzamento, affetto e così via. Da quanto ci risulta è estremamente
raro rintracciare forme di comunicazione di questo tipo scambiate dagli esseri
umani con i piedi. Quando questo avviene, ci appare come un fatto curioso o
addirittura immorale come il coinvolgimento del piede nelle pratiche sessuali.
Per capire come si allarghi
nel corso dell’evoluzione antropologica questa sorta di dicotomia tra piede e
mano si può tentare un’interpretazione del pensiero kantiano. Quando Kant s’interroga su quali siano gli
elementi che hanno contribuito al “successo umano”, ne individua
sostanzialmente due: uno è il possesso dell'intelligenza, intesa come capacità
di sfruttare la facoltà astrattiva, in quanto dall'osservazione dei fenomeni
della natura è l'unico essere in grado di stabilire la legge che regola i
fenomeni stessi e di comportarsi di conseguenza. Questa è integrata e
completata dalla facoltà immaginativa, per cui l'uomo riesce non solo a formare
immagini, frutto unico del suo pensiero senza l'equivalente in natura, ma è
anche in condizione di realizzarle dando loro corpo, coi mezzi fisici di cui
dispone. Così questi è riuscito a costruire le sue macchine, dalla più semplice
alla più complicata. Dallo sfruttamento prevalente della facoltà astrattiva è
nato perciò il progresso scientifico nella sua forma speculativa, mentre
dall'uso appropriato di quella immaginativa il progresso della tecnica.
Secondo Kant, non si deve invece
parlare di facoltà creativa, perché questa è prerogativa divina.
L'altro fattore è
morfologico: un corpo adatto ad albergare e servire l'intelligenza è dotato
della mano, talvolta vera e propria arma offensiva e difensiva, talvolta
utensile di esattezza e delicatezza veramente prodigiose, la cui azione
è inoltre perfezionata dall'uso degli strumenti che ne integrano l'azione,
fedele esecutrice degli ordini che vengono direttamente dal cervello.
Quando poi, continuando ad
indagare sulla morfologia umana, Kant
si occupa del piede lo definisce come l’organo più tipico, più caratteristico
e forse più perfetto che l’uomo possieda. Ma quando poi esalta la sua “triplice funzione di organo di appoggio,
propulsione e mantenimento
dell'equilibrio”, gli attribuisce funzioni sì utili, ma solo coadiuvanti
e comunque passive.
Piedi perfetti, ma in realtà
meri utensili a utilizzo esclusivo di “un
essere eretto ed intelligente”,
posseduti da un’entità superiore capace cioè di potersene servire.
È quindi chiaro come lo
stesso Kant collochi il piede
in una posizione del tutto subordinata, anche se utile, rispetto alla mano “strumento perfettissimo”, arto
fabbricatore per eccellenza alle dirette dipendenze dell’arto ragionante. Per
questo motivo, come dal punto di vista strettamente naturalistico, il problema
del piede è sostanzialmente il problema dell'uomo, eternamente diviso tra
istinto e ragione, tra razio e sentimento.
Così, dal punto di vista
antropologico più lato, la morfologia e la funzione del piede nelle sue piccole
ma non per questo trascurabili varianti ci danno la misura del suo progressivo
differenziarsi, dal punto di vista del grado dell’evoluzione morfologica e
pertanto anche sociale e civile.
Le api di Mandeville
Dunque, il piede ha
progressivamente perduto le sue prerogative, esso è divenuto nel tempo simbolo
di una parte del corpo improduttiva, sostanzialmente lenta, poco necessaria al
processo produttivo un po’ come le vespe che si accoppiano con le orchidee che Deleuze e Guattari contrappongono
alle api della celebre favola dell’economista olandese del Settecento Mandeville.
Le api appartengono alla
simbologia della produzione industriale, del fare razionalistico,
dell’accumulazione previdenziale, dell’emancipazione illuministica dell’uomo
che attraverso la sua industriosità accresciuta dalle sue capacità tecniche
afferma se stesso dentro ad un contesto naturale nel quale finalmente prevale
esercitando un presunto dominio. Nello stesso tempo le api industriose che si
uniscono con i fiori in un istante virtuoso cementato dal mutuo soccorso
diventeranno le corifee anche dell’utopia socialista che pur immaginando
un’organizzazione sociale non più fondata sulla proprietà individuale non
sovverte il rapporto tra l’uomo e il razionalismo deterministico che lo vede
come produttore industrioso e tecnologico che domina e plasma a sua immagine
con il progresso un mondo rimasto oscuro ed involuto.
Al contrario, come fanno le
vespe a costituire un modello produttivo dato che non producono nulla a
confronto delle api e dei fiori che producono il miele e i frutti?
Le vespe e le orchidee sono
solo delle edoniste, si comportano da esteti perdigiorno che producono solo
piacere e bellezza. Anche se è vero che l’incontro tra la vespa e l’orchidea
non produce nulla di materiale, non bisogna sottovalutare la natura della loro
produzione immateriale.
L’incontro tra le
singolarità del loro amore crea un nuovo concatenamento segnato dalla continua
metamorfosi di ciascuna singolarità nel comune. In altre parole, l’amore tra la
vespa e l’orchidea è un modello di produzione di soggettività in atto in quella
che si può definire economia biopolitica.
E il piede, che nel calcio
si sublima nella bellezza del gesto estetico, non è anch’esso agente di quella
produzione immateriale di emozione e bellezza. L’amore del piede con la palla,
il virtuosismo estetico che si sviluppa sull’orizzontalità del terreno
attraverso l’incontro con l’evocativa sfera, non è una magnifica forma di
resistenza alla prepotenza e all’aridità della tecnica finalistica?
Nel Football il piede
spodesta la mano, è l’arto plebeo che finisce per assumere la dimensione
kantiana di cervello esteriore dell’uomo. Nel Calcio, è il piede l’appendice
che compie il pensiero, ma un pensiero estetico libero dall’obbligo
razionalistico del “fare”, dalla materialità della produzione, per farsi
principe della produzione immateriale; produzione di estetica pura che affranca
il piede dalla sua storica umile condizione.
Ma è proprio
nell’esasperazione del virtuosismo estetico, anche se fine a stesso, nel calcio
quasi mai utile al raggiungimento del risultato sportivo, che il piede diventa
officina di emozioni.
Il pubblico lo apprezza e si
esalta nell’azione di gioco a prescindere dal fatto che il virtuosismo podalico
si traduca in un vantaggio sportivo. E’ l’esaltazione del gesto in sé che
produce la vertigine di godimento, il piede cessa di essere un semplice
attrezzo (il mezzo) per raggiungere il risultato sportivo (il fine).
Proprio nel ribaltamento di
questa relazione, ovvero nell’affermazione dei fini sui mezzi, il piede conosce
la sua definitiva emancipazione fino ad elevarsi a pibe de oro o a taco de Dios.
Alla fine, può darsi
che nel calcio, Platone batta Cartesio e pure Einstein. Che l’estetica che
scaturisce dall’incontro tra piede e palla strapazzi l’etica. Che il talento
dell’arto povero e rozzo si faccia beffe della soprafina tattica partorita
dalle menti.
Inganno
In qualche modo legato al
primo, a mio parere esiste un altro aspetto, del resto anch’esso evidente, se
pur trascurato nella sua fenomenologia, che rende il calcio un’attività regolata
da leggi in gran parte estranee al “senso comune”, transitato in profondità
nella composizione organica delle masse dopo una trentina di secoli di
pregnante dispiegarsi delle scienze umane.
Non c’è sport come nel
calcio dove gli stessi giocatori, senza parlare del pubblico, contestino le
regole, le decisioni arbitrali e relative sanzioni (ribellione contro le
leggi). Sport in cui l’applicazione delle tecnologie finalizzate a determinare
giudizi inappellabili trova ancora ancestrali resistenze. L’ingresso di tali
tecnologie viene di continuo rimandato con motivazioni che paiono razionali ma
che non reggono, se non con un’inconscia resistenza allo snaturamento di uno
sport che altrimenti perderebbe molte delle prerogative e delle originalità in
cui risiedono parte delle spiegazioni dell’irresistibile ascesa verso
l’universalità.
Il "Maracanazo" (finale dei Mondiali 1950: Brasile 1 - Uruguay 2) |
La legge pretende di essere
razionale e manichea, divide il mondo in colpevoli ed innocenti, lo racchiude
in una inappellabilità di giudizio che distingue gli umani tra buoni e cattivi
e separa, senza speranza, i giudicanti dai giudicati.
Solo nel calcio, molto di
più che in qualsiasi altro sport, gli arbitri vengono così aspramente
contestati. Raramente in un’azione calcistica ci sono “i del tutto colpevoli” o
viceversa, come del resto avviene comunemente nella vita sociale degli esseri
umani, condizionata da giudici e giudizi. È lo sport in cui la figura del
giudice arbitro è la meno autorevole del circuito sportivo.
E’ l’unico sport in cui è
consuetudine che l’interpretazione e il giudizio arbitrale siano sempre
discussi e mai accettati dalla parte soccombente, dai giocatori in campo e
tanto meno sugli spalti.
È l’unico ambito
dell’espressione umana dove il mito della “legge uguale per tutti” che sta alla base della razionalità del Kosmos,
ovvero quel sistema gerarchico di corpi in equilibrato movimento nello
spazio che simboleggia l’ordine dei codici morali, presunta base
della civiltà occidentale, viene derubricato a falso valore e quindi
inapplicabile; calcio dove, al contrario, il Kaos dell’arbitrio assurge
a dogma sconvolgendo consolidati assunti morali.
Se esiste, la deontologia
calcistica è assai debole. Nel calcio, a differenza di qualsiasi altro sport e
per estensione a qualsiasi altra attività umana, è racchiuso un elemento assolutamente
“antisportivo” ma vivo ed estremamente affascinate, ed è l’inganno. L’inganno,
nel gioco del calcio si eleva a valore antietico e antimorale.
In questo senso il calcio si
fa rivolta, è la diversità che piace. Si spezzano le catene della falsa coscienza,
catene di acciaio forgiate dalla ragione morale e realizzate dall’arto
superiore e nobile in laboriose officine, “manifatture” per l’appunto. Santuari del lavoro come archetipo
della trasformazione della materia inanimata, altrimenti inutile, in rigida
gerarchia sociale.
Templi fuligginosi in cui la
natura si inchina all’intelletto finalistico di cui Dio ha dotato la specie
eletta. Dalle officine escono le merci che riproducano quell’ossessione che si
traduce nell’accumulazione proprietaria che non è esclusiva solo capitalistica.
Infatti, in quelle officine si forgiano anche la morale, le catene e le
manette.
Nel momento dell’arresto,
all’individuo in condizione coattiva si fanno indossare le manette.
Più che una misura
finalizzata ad evitare la fuga (le tecniche di inibizione potrebbero essere
altre ed anche più efficaci) le manette assumono un valore simbolico perché
privano della libertà ma anche dalla capacità al lavoro. I “ferri” legano i
polsi a sancire un’umiliante esclusione dai consorzi umani, compresi quelli
socialisti. Uno strumento di riconoscimento che pone il soggetto al di fuori
del “giusto”.
Ma all’idea di negazione
della libertà si associa il lavoro come strumento di redenzione, la funzione
del lavoro come riabilitazione.
Quindi il soggetto viene
liberato dai ferri ai polsi e le catene scendono fino ai piedi (palla al
piede), i quali diventano l’archetipo della fuga, non solo dalla prigionia
materiale ma anche da quella esistenziale, una fuga libertaria e liberatoria.
La riabilitazione non passa
dai piedi. Il rientro nella società attraverso la condanna all’esclusione non
c’entra mai nulla con i piedi. Con i piedi si fugge, i piedi non riabilitano,
non hanno intelligenza, non capiscono valori morali, ma sono utili a guadagnare
la libertà, non solo quella materiale ma anche quella spirituale.
A sancire questa verità ci
soccorre un modo di dire ovviamente mutuato dalla particolare situazione in cui
un individuo è ricercato dalla Legge o in attesa di giudizio ma non detenuto, “a piede libero” per l’appunto.
E là dove il piede si
esalata e riguadagna una centralità incontrastata come nel calcio, diventa
strumento inconscio di fuga e di libertà.
Il fair play e il calcio
Non è casuale che il fair
play nel calcio non sia consuetudine, sono rarissimi gli episodi in cui i
giocatori riconoscono un’azione intenzionalmente fallosa, situazioni in cui l’inganno
venga apertamente dichiarato e condannato. Campi di gioco e spalti dove è
pratica comune e sostanzialmente lecito, irridere e dileggiare l’avversario, a
dimostrazione di massima manifestazione antisportiva. Il calcio è l’unico sport
che non conosce un vero è proprio codice morale strutturato.
Ma perché proprio nel calcio
avviene tutto questo?
Naturalmente la ricerca del
risultato sportivo è determinante, ma non di più che in altri sport.
La verità è che il calcio,
per sua natura, sfugge alle regole morali. Le rare volte che un giocatore
confessa un inganno, l’apprezzamento per il gesto è particolarmente
blando; la tifoseria, compresa quella avversaria, non si esalta particolarmente
per questo comportamento.
Quando un giocatore rimane a
terra infortunato e la squadra avversaria prosegue l’azione, sia i giocatori
sia le tifoserie si abbandonano a sonore proteste, ma anche in questo caso il
comportamento sembra più dettato dal reciproco sospetto che non da un codice di
correttezza morale; tanto è vero che anche i tentativi di affidare all’arbitro
la decisione di quando fermare il gioco in caso d’infortunio, dimostrano
l’assenza o la mancanza di rispetto di un ipotetico codice morale.
Demandare la decisione
all’arbitro non ha risolto la questione, finendo per aumentare il grado di
arbitrio ma proprio questa, in fin dei conti, è la blasfemia morale che tanto
attrae, che tanto intriga.
L’arbitrio è parte
sotterranea quanto fondativa di uno sport che non conosce codici.
Quando i giocatori si
fermano obbedendo a valutazioni istintive od individuali, il commento non è mai
unanime, nemmeno da parte degli stessi commentatori di professione e ciò genera
un endemico conflitto che non ha mai soluzione.
Il pubblico generalmente non
approva la scelta di fermarsi quando un giocatore resta infortunato sul terreno
di gioco, utilizzando l’argomento che deve essere l’arbitro a decidere.
Rimane sempre il dubbio che
l’infortunio sia fasullo. Il fatto che le telecamere oggi colgano regolarmente
l’inganno quando c’è, non induce alla condanna dei “furbi” più di quando
il dubbio permaneva, in assenza di tecnologie televisive come la moviola.
Nell’animo di ciascuno non
si determina nessun rigurgito di coscienza, perché l’essenza del calcio è una
sotterranea rivolta contro le regole.
Perché il calcio si gioca
con i piedi, arto oscuro, punitivo punto di congiunzione con la terra, senza cervello, lontanissimo
dalla menzogna, se pur celeste, della ragion morale.
Parafrasando il celebre
aforisma di Descartes si potrebbe riassumere l’essenza del calcio in:
“ti
frego quindi sono”.
Il dribbling, sublimazione dell’inganno
L’inganno nel gioco del
calcio non regola soltanto la relazione tra giocatori e arbitro, ma anche
quella tra giocatori avversari.
Una delle azioni di gioco
più importanti del gioco del calcio è il dribbling, che si determina
quando un giocatore cerca di mantenere il possesso della sfera superando un
avversario o più avversari attraverso un improvviso scarto, un’accelerazione
imprevedibile od altri virtuosismi, adottati proprio con l’intento di
sbarazzarsi del proprio marcatore, cioè del giocatore della squadra
avversaria che cerca di rallentare l’azione o di impossessarsi della palla per
poi poter rilanciare il gioco a proprio favore.
Quando il dribbling
riesce, ma per la verità anche quando non riesce, mette comunque in evidenza le
capacità tecniche del giocatore, è una delle situazioni di gioco che più esalta
il pubblico e gli stessi giocatori.
Questa è una delle fasi
fondamentali del gioco del calcio ed è curioso il fatto che, benché il calcio
sia un gioco di squadra anche se ampiamente sui generis, è un momento nel quale
il confronto competitivo si consuma tra due singoli giocatori.
È interessante notare che si
tratta di una relazione che si basa essenzialmente sull’inganno, sulla capacità
di fregare l’avversario diretto attraverso una serie di astuzie, finte e controfinte ed altro.
Non si tratta di un competizione leale, frontale, basata sull’esercizio della
forza, come avviene nella maggioranza degli sport, ma essenzialmente
sull’astuzia.
Gli stessi modi di dire
confermano quanto stiamo affermando, non di rado i commentatori descrivendo
questa fase di gioco utilizzano espressioni tipo “ingannare l’avversario” o
“rubare palla”.
Se questa osservazione ha un
fondamento dimostrerebbe come l’inganno in questo sport non solo è consentito e
tollerato in quanto liberatoria trasgressione dei comuni codici morali, ma sia
ciò su cui si basa l’essenza stessa del gioco; ma non solo, non va dimenticato
che l’artefice di tutto ciò è il piede verso il quale si nutre un’antica
diffidenza. Un altro elemento sul quale, per ciascuno, è legittimo esprimere un
giudizio positivo o negativo ma che sicuramente rende particolare questo sport
per non dire magicamente unico.
Calcio e slealtà
Inganno che nel calcio si
coniuga con la slealtà, un altro elemento fondativo di questo sport che
esclude il calcio da ogni etica sana e da ogni funzione educativa che
solitamente si assegna allo sport, inteso come potente diffusore di valori
positivi. Infatti, il ricorso al fallo di gioco nel calcio non è una
situazione eccezionale. Il fallo è una normale azione di gioco che in una
partita si verifica decine e decine volte.
Il fallo non è determinato
da uno scontro di gioco accidentale, ma è vera e propria strategia, è parte
integrante del gioco.
Il ricorso al fallo è sleale
nella misura in cui è intenzionale nella maggior parte dei casi, anzi è proprio
l’intenzionalità che lo fa diventare parte della strategia del gioco.
Quindi la slealtà
insita nel fallo intenzionale, è parte integrante del sistema di gioco, un
altro valore che il senso comune considera negativo ma che nel football è
essenza del gioco.
Qualcosa di parzialmente
simile si verifica solo nella palla a canestro e nella palla a nuoto,
il cosiddetto fallo tattico che si utilizza generalmente solo a
conclusione della partita quando è conveniente ottenere la sospensione del
gioco mandando gli avversari al tiro libero per poi poter tornare a
gestire la palla. Nei restanti giochi sportivi, sia individuali che di squadra,
il ricorso al fallo intenzionale è sconosciuto o è un’eventualità assai rara,
comunque condannata e riconosciuta come una scorrettezza bandita dalla lealtà
sportiva.
D’altro canto, se è pur vero
che il regolamento di questo sport si è evoluto costantemente nell’ultimo
secolo è vero anche che le modifiche sono state introdotte con l’intento di
rendere più spettacolare l’evoluzione del gioco, in particolare per aumentare
la media di goals che in ogni partita vengono messi a segno. Ciò dimostra che
anche il calcio non sfugge alle regole del mercato che impongono una spettacolarità
che risponde a logiche sempre più uniformate ai modelli imposti dalle culture
dominanti. Più il calcio diventa evento globale e più è soggetto alle medesime
logiche, certo non più o diversamente di quanto accade ad altri sport, facendo però
salvi o addirittura irrigidendo quegli elementi regolamentari che fino ad ora
hanno salvaguardato l’essenza stessa del gioco che, pertanto, continua a
conservare la propria misteriosa attrattiva ed unicità.
Ma se come abbiamo visto la slealtà
non è episodica o accidentale ma strategica, essa non si manifesta solo nel
fallo. Sono molti gli espedienti a cui ricorrono i singoli giocatori, ma anche
gli allenatori e addirittura i raccattapalle a bordo campo.
Espedienti suggeriti dagli stessi allenatori che considerano la perdita di
tempo una pratica assolutamente legittima nella dinamica della partita.
Tra i più evidenti sono i
casi in cui si cerca di perdere tempo quando ad una delle due squadre conviene
“congelare” il risultato fino a quel momento conseguito.
L’arbitro tiene conto solo
parzialmente del tempo perso in vario modo per poi recuperarlo parzialmente
prolungando di alcuni minuti la durata canonica della partita (90 minuti divisi
in due tempi da 45 minuti l’uno intervallati da un riposo di 15 minuti). Il recupero
non rispecchia mai il tempo effettivo in cui il gioco è stato fermo. Il
regolamento non prevede che l’arbitro fermi il cronometro durante
l’interruzione vanificando l’eventuale comportamento sleale, come invece accade
in molti altri sport.
Anche questo aspetto
rafforza l’ipotesi che la slealtà, che non si dispiega solo nelle
modalità descritte, la fantasia è illimitata in questa particolare strategia di
gioco, sia parte integrante ed insostituibile della filosofia di questo
sport.
Il calcio rompe l’ipocrisia
del sistema di valori della civiltà occidentale, capace di immaginare la
democrazia, l’uguaglianza, la fratellanza, la giustizia. Capace d’immaginare
numerose città della gioia, sia attraverso l’intervento sulle
coscienze esercitato dalle fedi religiose, sia attraverso l’organizzazione
ideologica di presunte società perfette. La storia è andata in altro modo, tra
ciò che è stata capace di immaginare e la realtà storica, l’umanità si è
orientata con la bussola machiavelliana, nella quale l’ago magnetico non è
stato attratto dai valori ma dai fini, per raggiungere i quali qualsiasi mezzo
è stato valido.
Possiamo anche dirci che non
è così, che sono degenerazioni, che l’umanità è migliore, che gli uomini stanno
facendo tesoro degli errori del passato, che l’utopia non solo è possibile ma
necessaria. Nel frattempo la condizione del genere umano è disastrosa e non
lascia spazio ad ottimismi.
Lo sport, nell’immaginario
collettivo è generalmente inteso come un’isola felice in questo mare di merda;
una zona franca, un luogo dove la relazione tra fini e mezzi si stempera, dove
l’importante non è vincere ma partecipare. Il calcio non
partecipa a questa fiera dell’ipocrisia, il calcio per natura è la
rappresentazione estrema e complicata di quanto offrono nella realtà le
relazioni umane.
La popolarità del calcio
forse sta anche in questo, il calcio non ci chiede lo sforzo di adeguamento a
valori solo immaginati, esso e del mondo reale, del mondo di sotto, dell’oscuro
mondo sensibile.
Il calcio è umano, persino “troppo umano”. Umanissimo e quindi
estremamente complesso e contradditorio: in molti casi il giocatore, ed è
abbastanza libero di farlo, si abbandona al virtuosismo tecnico, spesso è
espressione pura dell’estetica senza finalità alcuna se non l’esaltazione della
bellezza del gesto; altre volte il calcio è brutto, sporco e cattivo. E’
dominato da un irriverente cinismo, dove l’unica cosa che conta e il risultato
da ottenere con qualsiasi mezzo. Il calcio è dunque costante contraddizione:
quindi, che piaccia o no, anche inganno e slealtà, è fatto di una gamma
inesauribile di furbizie, in definitiva è più astuzia che intelligenza.
E’ l’incalcolabile che
depotenzia la razionalità degli schemi mentali e di gioco.
Il calcio è del tutto
imprevedibile, come imprevedibile ed illogico è ciò che viene dal basso.
Il calcio è disordine
meccanico e morale, il calcio è l’esaltazione dell’entropia che si
dissocia dalla simmetria, come potrebbe dire un fisico con l’idioma
della scienza.
E’ un movimento tellurico
che viene dal profondo, dalle visceralità fangose di madre terra dove i piedi
affondano, contaminandosi con la parte più vitale ed impura della carne.
Il calcio è un cataclisma
che scuote trenta secoli di discutibili quanto gracili scienze umane.
Calcio: il gioco degli Dei
Il calcio è qualcosa di
primordiale, di premorale, di prefilosofico, che sfugge a qualsiasi positività
umana, frutto del magico incontro tra i piedi umani e il mistero della sfera.
Sfera, volume a cui non si
associa l’idea della caduta o del rovesciamento. Volume senza lati né angoli e
perciò impossibilitato a cambiare visivamente posizione, ma eternamente pur
sempre in equilibrio. Palla ancorata al suolo sempre e soltanto con uno solo
degli infiniti punti della sua superficie, ma mai lo stesso punto, per effetto
della varianza senza fine dovuta alla sua natura rotolante. II Volume più
“leggero”, quello che concede meno di sé all’inevitabile relazione col suolo;
l’oggetto, per ciò, più prossimo al volo.
Volo cosmico, che in
definitiva, è l’unica prerogativa che più invidiamo agli dei e che veramente da
loro ci differenzia. Palla, che più di qualsiasi altra cosa è prossima a
sfuggire alla tirannia della gravità imposta dagli Dei agli uomini e alle loro
cose.
Calcio, quindi, come
incontro tra l’oggetto meno umano del mondo e il piede, archetipo dell’umanità,
protesi che ci lega alla terra sulla quale precipitammo molte ere fa, scacciati
senza appello dal condominio celeste. Prigionieri di uno spazio limitato a tre
dimensioni reso angusto dalla gravità.
Cose ed uomini parimenti
reclusi, ognuna ed ognuno con il suo peso, assegnato come si assegna un numero
di matricola quando si varcano i cancelli di una prigione.
E allora, quanta e quale
ancestrale soddisfazione nel prendere a calci una sfera, giocare con essa,
assoggettarla ai virtuosismi dell’arto inferiore moralmente meno virtuoso.
Quale godimento nel dominare una forma divina proprio con i piedi, la parte più
umana del mondo. Quanta esaltazione nel domare con le suole rivolte verso il centro
della terra quel divino giocattolo rotolante, precipitato accidentalmente dalle
vette celesti dell’Olimpo nei prati dell’Attica.
Il fuoco fu sottratto agli
Dei dal povero Prometeo, finito in catene e tormentato al fegato dal rapace per
l’eternità. Forse, quella di Prometeo non fu una bella idea: con il fuoco
abbiamo costruito la civiltà della tecnica, ma a giudicare dal presente non è
detto che a ciò sia corrisposta la completa felicità degli uomini.
La palla, al contrario non
l’abbiamo rubata, ci è giunta per caso, probabilmente un fuori campo di
Zeus. L’abbiamo destinata principalmente al divertimento, ma è stata produttiva
almeno quanto il fuoco, anche se non ha prodotto né acciaio né pietra ma
estetica, bellezza, suggestioni ed emozioni.
Poi, dopo qualche millennio
di maldestri tentativi, abbiamo inventato il calcio, nel quale l’essenza divina
si è meravigliosamente fusa con quella più terrena, simboleggiata dal piede,
sublimando quel selciato sul quale i nostri piedi tracciano l’esistenza.
Nel profondo della nostra
coscienza, pur con una bella dose di inconsapevolezza, abbiamo preso atto che
il calcio è certamente una straordinaria invenzione degli uomini ma anche che
gli uomini sono fatti morfologicamente e immoralmente per il calcio.
Dopo l’abbaglio di secoli
passati a guardare verso l’infinito cielo, nei novanta minuti di ogni partita
il calcio ci riporta alla dimensione orizzontale, limitata a poco più di un
ettaro di terragnolo rettangolo erboso, sul quale quarantaquattro piedi
straordinari, saldamente ancorati alla terra, prendono a calci, come facemmo
tutti da bambini, quel misterioso volume rotolante e senza spigoli che abitiamo
morosi e con contratto di locazione scaduto.
Ma probabilmente è proprio questa la bellezza
del calcio rintracciabile in pochi, banali ma assai trascurati elementi che,
nonostante tutto, lo rendono, e lo renderanno per molto tempo ancora, lo
spettacolo più bello del mondo.
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