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sabato 22 settembre 2012

ADESIONE A UTOPIA ROSSA E RIFLESSIONI SULLA NON-VIOLENZA, di Gualtiero Via


Bologna, 18 settembre 2012

Alle compagne e ai compagni di Utopia Rossa.

Ho conosciuto Utopia Rossa pochi mesi fa, e ho deciso nel pieno possesso delle mie facoltà di aderirvi formalmente, qualunque cosa ciò voglia significare.
Roberto Massari - che da poco ho conosciuto personalmente, dopo averne frequentato per le mie ricerche [allusione in primo luogo al libro di G. Via, Scomodi e organici. Movimenti e politica nella costruzione dell’Italia contemporanea, Pendragon, Bologna 2012 (n.d.R.M.)], alcuni testi storici - mi ha chiesto di mettere nero su bianco il perché della mia adesione a Utopia rossa. Scrivendo, mi sono accorto che ne veniva, a mò di premessa, una sorta di ricapitolazione di alcune mie esperienze di militanza. Non è detto (ne sono consapevole) che questa parte sia molto significativa per altri che il sottoscritto: spero che almeno non annoi o indisponga il lettore.

L'ultima tessera di organizzazione politica che ho avuto in tasca datava al 1990, ed ero a quel tempo iscritto al Pci, venendo dal Pdup per il comunismo, e prima ancora dall'Mls (Movimento Lavoratori per il Socialismo, sezione di Budrio, a cui mi iscrissi, diciassettenne). Dopo la nascita del Pds, e poco dopo di Rifondazione Comunista, mi presi una lunga vacanza di disintossicazione dalla politica attiva, vacanza che mi fece solo bene. Tornai ad essere impegnato politicamente solo molti anni più tardi, col movimento antiliberista (o “no global” come è stato più spesso chiamato). Ero a Genova nelle giornate del “G8” del luglio 2001, con l'allora neonato movimento di “Attac”, che anche a Bologna, sia pure per pochi mesi, illuse molti, sia giovani che meno giovani. Vista la natura irrimediabilmente verticistica (e anche settaria e miope) di Attac presi contatto con la Rete Lilliput, che pur da lontano mi era sembrata l'unica realtà di movimento che non riproducesse i peggiori, stupidi vizi di tutti i gruppi dirigenti delle organizzazioni di sinistra, cose per le quali sapevo e sentivo di aver già dato e di non voler più perdere tempo, nel modo più assoluto (ero stato perfino funzionario, negli anni Ottanta, sei mesi nel Pdup e circa quattro anni nella Fgci di Bologna). Avevo del resto maturato già da diversi anni (dal movimento contro i missili a Còmiso, per l'esattezza) un forte e convinto interesse per la non-violenza, sia per la teoria che la pratica, cosa che mi portava naturalmente a vedere con curiosità e vicinanza quel piccolo originale esperimento che appariva (e certamente anche era) la Rete di Lilliput.

So delle forti riserve che non pochi compagni, e forse in primis i militanti internazionalisti, nutrono verso la non-violenza: non è certo questa la sede per affrontare in modo esaustivo l'argomento, ci terrei però qui a dire che sono convinto che quel tipo di discussione sia stato fino ad ora in buona parte inficiato e reso quasi sempre sterile da almeno due  fattori di cui andrebbe sgombrato il campo.
Il primo fattore è una sproporzione macroscopica nella portata delle due tipologie di teoria-pratica: quella non-violenta e quella antimperialistica (e/o anticapitalistica, per lo meno di ascendenza marxista). Chi fa professione di anticapitalismo nel senso appena detto si rifà a una teoria generale della società (qualunque siano la salsa e l'epoca che predilige: scritti marxisti, luxemburghiani, leninisti, francofortesi eccetera eccetera), o almeno a tentativi consapevoli di giungere a una teoria con quel livello di ambizione. Io stesso, con molta umiltà e consapevole della mia fondamentale ignoranza su tutti questi classici, potrei del resto mettermi in certo senso in questa schiera, nel senso che  credo che per contrastare con efficacia il capitalismo nella nostra epoca sia necessario disporre di un’analisi generale della società che sia all'altezza (non sono certo che rimanendo nello steccato del “marxismo” si possa raggiungere quel risultato, ma sarei pressoché certo che non lo si raggiunge senza fare, anche col marxismo, conti molto seri). Ecco, ciò che secondo me a molti sfugge è che non ha senso un confronto su questo piano fra marxismo e non-violenza: non ha senso, semplicemente. È troppo diversa la “portata” rispettiva delle due teorie.
È vero che ci sono stati leader non-violenti che avevano la loro bella ideologia fatta e finita, con opinioni (e magari regole) su tanti aspetti della vita, sociale come individuale (uno per tutti, Gandhi), ma Gandhi non è la “non-violenza”: la sua è stata un’interpretazione e codificazione della non-violenza, e ce ne sono state altre sia prima che dopo di lui.
La non-violenza è una specifica dottrina della gestione dei conflitti, applicabile (e applicata) alle scale più diverse, dal livello interpersonale (vedi soprattutto alcuni lavori, di provata efficacia fra l'altro, di Pat Patfoort) a quello dei conflitti fra stati e/o delle lotte dei movimenti di liberazione (è abbastanza nota l'ispirazione che dalla non-violenza seppe trarre Nelson Mandela, meno nota è l'opera specifica di collaborazione di cui Mandela si giovò da parte di teorici e formatori non-violenti, J. Galtung e il suo gruppo Transcend in specifico, nella delicata fase di transizione alla democrazia). Personalmente, e diversamente (mi pare) da molti non-violenti italiani che pure ho conosciuto e con cui ho fatto un pezzo di strada insieme, io credo che lo spazio più urgente e fecondo di applicazione della non-violenza alle nostre latitudini (e forse in Italia soprattutto) sarebbe da individuare nella comunicazione, ai diversi livelli: personale, di piccolo gruppo, professionale, nei contesti educativi, oltre, ovviamente, che nelle lotte sociali e politiche. All'atto pratico, anche se con livelli di consapevolezza diversi, è quasi solo da esperienze di donne che vedo questo tipo di lavoro, umile, quotidiano ma a mio avviso prezioso (così è a mio avviso per l'attività di formatrice di Monica Lanfranco, o quella di controinformazione di Giorgia Vezzoli col suo blog Vita da streghe, e per altre esperienze recenti a questa assai simili). Non è che non creda (o che non crederei) all'impiego di strategie non-violente anche in contesti più ampi: è che se si passa a parlare di conflitti fra stati o comunque del livello sovranazionale, bisognerebbe aspettare di poter disporre di intere organizzazioni, di settori di massa, conquistati consapevolmente all'impiego sistematico della non-violenza. Non credo (pur restando sempre pronto però ad essere smentito) che queste condizioni oggi vi siano. Stando così le cose mi rifiuto in modo risoluto di ridurmi al tipo che dal suo computerino e con le sue letturine si mette a fare la lezioncina e l'esame di non-violenza a chi in ogni caso con molti più rischi di me (ma di ogni altro militante italiano, almeno che io conosca), poiché sta effettivamente lottando contro l'oppressione e/o l'occupazione, nelle forme in cui si trova a subirla (avvenga ciò in Palestina, in Afghanistan, o in qualunque miniera, o fabbrica, o piantagione, favela o bidonville dei cinque continenti).
Il secondo fattore che secondo me ha parecchio compromesso alla base la possibilità di un confronto fecondo è rappresentato (o meglio, credo sia stato rappresentato, almeno negli anni del movimento contro la guerra in Iraq) da un effettivo moderatismo delle forze che allora cercarono con più insistenza e convinzione di rappresentare l'opzione nonviolenta.
La Rete Lilliput - almeno nella mia esperienza - è stata una delle pochissime realtà di movimento (accanto, direi, alle Donne in nero) che organizzativamente e concretamente si è voluta e saputa mantenere assolutamente autonoma, franca e indipendente dai soggetti organizzati con cui pure ha condiviso gran parte delle mobilitazioni contro la guerra: Arci, Acli, Cobas, Fiom, Rifondazione, Verdi, Disobbedienti, e a guerra scoppiata anche Cgil e Ds. Meno, molto meno (ma qui andrebbe visto il quadro città per città, che non era omogeneo) è stata però capace di fare altrettanto (a mio personale avviso) sul piano dell'analisi e della posizione politica. Lì, la soggettiva collocazione ed autorappresentazione della maggior parte dei quadri influenti lillipuziani  come in ogni caso appartenenti alla “sinistra”, ha reso alla lunga subalterna ed ininfluente quella piccola originale esperienza. La Rete Lilliput aveva gli anticorpi contro l'estremismo parolaio (cosa, ci tengo a sottolineare, non disprezzabile, anzi necessaria, perché il rischio di tale deriva, specie stando in un movimento, è sempre presente), non li ha avuti altrettanto (ahimè) contro il moderatismo e la subalternità alla sinistra non di governo (dirò così, anche se l'espressione è molto imprecisa). Un moderatismo che portava per esempio la Rete Lilliput a non essere capace (o a non volere) riconoscere la piena legittimità della resistenza irachena antistatunitense (a prescindere dai giudizi di merito e dalle forme di lotta da essa scelte). Questa posizione (che io stesso, nel mio piccolo e per quel che potevo contare, contribuii allora a determinare) finiva di fatto per ricadere, sia pure da presupposti leggermente diversi, nel vecchio, vano e presuntuoso vizio di tanta sinistra occidentale, bravissima a far le pulci alle lotte degli altri, inconcludente però a casa propria (inconcludente nel caso migliore: spesse volte ipocrita e complice, almeno parlando dei vertici).

Mi scuso se l'inciso sulla non-violenza è diventato un po' lungo, ma lo ritengo un argomento serio.
Vengo a ciò che di più positivo mi ha colpito della connotazione di Utopia Rossa.
Mi colpisce, e trova la mia adesione, il linguaggio, che trovo diretto, cioè di chi è consapevole di vivere nel 2012, ma anche con una sincera tensione alla comprensione critica di una realtà con cui non si può e non si vuole essere pacificati.
Mi colpisce, e trova la mia adesione, la sintesi, semplice ma chiara, che con le sue “sei frasette” Utopia Rossa propone di circa due secoli di pensiero e di lotte organizzate contro l'oppressione capitalistica, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e del maschio sulla donna, contro la rapina internazionale e la spoliazione del Pianeta. Due secoli che forse possono aver dato risultati molto inferiori alle aspettative dei padri fondatori, ma che sarebbe da stolti, da sottouomini o da servi buttare alle ortiche in quanto tali (che è ciò in cui mi pare si siano distinti un gran numero di  esponenti ancora in attività della “sinistra” italiana).
Mi colpisce, e trova la mia adesione, l'osservazione di Roberto Massari secondo cui sostanzialmente il pensiero critico in chiave di lotta al capitalismo sia stato di fatto come congelato e soffocato ai primi decenni del secolo scorso, e non si sia come tale ripreso (fatte salve le ricerche di enclave intellettuali o di singoli) dall'autentica catastrofe internazionale dello stalinismo, con la sua scia di conformismo intellettuale (ma chiamarlo così è un pallido eufemismo), intimidazione ed oppressione.
Mi colpisce, e trova la mia adesione, l'opzione di fatto (a meno che non sia una mia estrapolazione personale) per cui non basta gioire della fine dello stalinismo, e giovarsi della libertà individuale (di letture, di frequentazioni, di “contaminazioni”, come va di moda dire da qualche decennio) che essa consente. Ciò non basta. Bisogna prendere coscienza senza rimozioni di ciò che lo stalinismo è stato, delle sue proporzioni, e riproporsi seriamente di non ricadere in nulla che gli possa, anche lontanamente, assomigliare. In questo, l'onesto ed umile riconoscimento che esistono un retaggio illuminista e “borghese” insuperabile e insuperato, che va rivendicato, che può e dev’essere semmai integrato, ma non rinnegato (se è questo, come mi è parso di capire, il concetto affermato da Roberto), mi trova assolutamente consenziente.
Non credo vi sia altro da aggiungere, non ora, non da parte mia. In tre parole: sono con voi.
Gualtiero Via,
storico, poeta, contastorie, sportivo e papà.

p.s.
Roberto mi ha pregato espressamente di scrivere i motivi della mia adesione a Utopia Rossa integrandovi un'ottava che gli avevo portato, il giorno in cui, dopo alcuni mesi di corrispondenza, ci siamo incontrati di persona, a San Giovanni in Persiceto. Lo faccio più che volentieri, lusingato che quei versi (che sono, credo, una cosina, ma certamente sinceri) gli siano piaciuti, e credendo che il linguaggio poetico sia una forza, un'arma, una facoltà, un retaggio a cui il nostro tempo, ciascuno di noi, deve trovare il modo di rifare posto, per così dire. Perché la poesia ha avuto sempre un posto prezioso e grande nella storia dell'uomo, da Omero a, diciamo, l'altro ieri. C'è stato poi un tempo di ferro e di stridore, e antipoetico come forse mai era accaduto, ma non dobbiamo prolungarlo noi ancora, quel tempo, solo per pigrizia. Non dobbiamo: sarebbe delitto grave.
Chi sa cantare insieme e di fatto canta, sa anche e può (se lo vuole, e se se ne mostra all'altezza) fare le rivoluzioni (o almeno resistere, che già e moltissimo). Chi si limita invece a far girare qualche  CD sul lettore rimane un consumatore.

I modi van rivisti

L'opposizione è nulla, ed arretriamo.
I modi van rivisti tutti quanti
non dico poi il linguaggio: non ci siamo!
Non vedo chi si salvi, e non c'è santi:
da zero (o mai da tre?) ricominciamo,
ma senza riciclati o mestieranti!
...Politica: se non fatta a dovere
è meglio fare nulla, o darsi al bere!

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