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martedì 29 maggio 2012

ROMANZO DI UNA STRAGE (Marco Tullio Giordana, 2012) di Pino Bertelli




“Quella sera a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
Brigadiere apra un po' la finestra
E ad un tratto Pinelli cascò.

Commissario io gliel'ho già detto
Le ripeto che sono innocente
Anarchia non vuol dire bombe
Ma eguaglianza nella libertà."...

La ballata del Pinelli, 1969
testo di G. Barozzi, F. Lazzarini, U. Zavanella, musica di J. Fallisi








I. Morte (per niente) accidentale di un anarchico

Le strade del cinema italiano sono lastricate di monumentali banalità contrabbandate come “storie sociali” o sceneggiati televisivi che mortificano al fondo l’immaginario collettivo... la domesticazione degli sguardi rende gli uomini stupidi, dipendenti da dispositivi di massa (cinema, televisione, fotografia, carta stampata, telefonia, internet, in parte) che li rendono incapaci di ragionare e li piegano alla rappresentazione politica del consenso elettorale... la dittatura finanziaria (banche, partiti, mercanti d’armi, “bottini” delle chiese monoteiste) pensa a sacralizzare gli entusiasmi della società consumerista  e l’organizzazione gerarchica del potere... tuttavia le giovani generazioni si prendono il diritto alla resistenza sociale e legittimano ogni forma insorgente che rigetta la servitù volontaria. Chiedono una società senza stato, senza potere politico né terrore chiesastico  e lavorano a nuove forme di democrazia partecipata, diretta o consiliare per la comunità che viene.
Romanzo di una strage (2012) di Marco Tullio Giordana tratta della strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969 a Milano... di romanzato c’è molto, di strage di Stato, poco. I giornali hanno diffuso dibattiti, consensi, dissensi su questo film... i critici velinari  gli hanno assegnato le stellette secondo gli orientamenti politici o padronali... il pubblico non si è proprio scaraventato nelle sale cinematografiche a vedere la ricostruzione dei fatti... è sorprendente! Quando ci sono di mezzo storie di anarchia anche gli artisti più avvertiti riempiono le loro opere di lordure e non di purezze... sembrano non sapere che la verità e la giustizia sta al di là delle apparenze e non si accede alla bellezza se non in virtù della disobbedienza. Conoscere significa smascherare, disvelare, scuotere l’indifferenza generale, il passo conseguente è l’incinerazione di ogni forma di autorità. Per meglio comprendere Romanzo di una strage non è male ritornare (con un indignato flashback) alla strage di Stato della quale il film parla e gli anarchici non hanno mai archiviato.
Nel dicembre 1969 una bomba scoppia nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura (ore 16:37) uccidendo diciassette persone (quattordici al momento dell’esplosione) e ottantotto restano feriti. Una seconda bomba deposta nella sede della Banca Commerciale Italiana (Piazza della Scala) è rinvenuta inesplosa e la terza esplode a Roma (ore 16:55) all’ingresso della Banca Nazionale del Lavoro (via San Basilio), i feriti sono tredici. Tra le 17:20 e le 17:30 altre due bombe scoppiano a Roma... una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo del Risorgimento (Piazza Venezia), i feriti, quattro. In quel 12 dicembre, nell’arco di 52 minuti, si compiono cinque “oscuri” atti terroristici (secondo le veline dei servizi segreti). Sebbene queste aggressioni alle istituzioni siano opera di gruppi eversivi di estrema destra e servizi deviati dello Stato, la polizia politica individua i colpevoli tra le file degli anarchici.

Il 12 dicembre la polizia ferma Giuseppe “Pino” Pinelli, ferroviere e anarchico, uno degli animatori del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa e lo invita a seguire i poliziotti in questura, anzi a precederli col motorino. “Tre giorni dopo, il corpo di Pino veniva scaraventato giù dalla finestra di una stanza dell'ufficio politico, al quarto piano della questura. Era la fine di una vita, l'inizio di una tragica farsa, tuttora in corso” (www.anarchopedia.org). Il sostituto procuratore Gerardo D’Ambrosio scrisse una sentenza dove diceva che la causa della morte si doveva a un “malore attivo”. Pinelli sarebbe caduto da solo dalla finestra, mentre fumava, sporgendosi un po’ troppo dal balcone (forse per acchiappare la luna). Le forze dell’ordine insistono sul suicidio. Nella stanza del “suicidato” c’erano Luigi Calabresi, i brigadieri Panessa, Mucilli, Mainardi, Caracutta e il tenente dei carabinieri Lograno, saranno tutti per  — “meriti di servizio” — elevati di grado.
Il 16 dicembre viene arrestato l’anarchico Pietro Valpreda (ex-ballerino, quasi zoppo)... il tassista Cornelio Rolandi lo riconosce nell’uomo con la valigia che era sceso dal suo taxi presso la Banca dell’Agricoltura... incassa per questo cinquanta milioni. I giornali si gettano sul mostro, specie il Corriere della Sera, il presidente della Repubblica Saragat (in un momento lontano dal fiasco di chianti) si congratula col questore di Milano Guida. Marcello Guida era un ex-fascista, durante il ventennio fu il direttore delle guardie dei carceri di Ventotene e Santo Stefano... Sandro Pertini, presidente della Repubblica, lo riconobbe in una visita ufficiale a Milano e si rifiutò di stringere  la mano a un persecutore di partigiani e di uomini del libero pensiero.
In pochi si accorgono che il tassista mente e le accuse contro Valpreda sono una porcata delle istituzioni. I partiti di sinistra accusano la “pista anarchica”... PSI e PCI si fanno garanti di indagini e depistaggi contro gli anarchici. Ci vogliono sette processi per stabilire che tutti gli imputati (anarchici e fascisti) di Piazza Fontana non sono colpevoli... dopo 38 anni Carlo Digillo, fascista di Ordine Nuovo, ha confessato il proprio ruolo nella preparazione dell’attentato e nel duemila ha ottenuto la prescrizione del reato... nel maggio 2005 la Corte di Cassazione ha assolto definitivamente gli ultimi indagati, i fascisti di Ordine Nuovo, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. I teologi del terrorismo di destra, Franco Freda e Giovanni Ventura, attendono ancora di essere giudicati e attualmente non vi è alcun procedimento in corso.
Più di settecento intellettuali (scrittori, registi, attori, pittori...) firmarono una petizione pubblicata su L’Espresso il 27 giugno 1971 (più tardi alcuni di loro si dissociarono) e  questo è l’incipit: “Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice”. Il giornale Lotta Continua e la stampa libertaria si presero cura di sbugiardare tesi e contro tesi del suicidio dell’anarchico e imputarono a Calabresi e ai suoi collaboratori la morte di Pinelli. Camilla Cederna, con l’impeto di giustizia sociale che le era proprio scrisse su Lotta Continua: “Noi per questi nemici del popolo esigiamo la morte”. Il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi è ucciso in un parcheggio e per questo omicidio sono stati condannati in via definitiva Ovidio Bompressi e il pentito Leonardo Marino come esecutori materiali, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri quali mandanti. Anche questo delitto non convince e la cosa resterà per sempre sepolta nella carte della polizia politica.
Per non dimenticare: «Noi accusiamo la polizia di essere responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, arrestato violando per ben due volte gli stessi regolamenti del codice fascista. Accusiamo il questore e i dirigenti della polizia di Milano di aver dichiarato alla stampa che il suicidio di Pinelli era la prova della sua colpevolezza, e di aver volontariamente nascosto il suo alibi dichiarando che "era caduto". Gli stessi inquisitori hanno dichiarato di non aver redatto alcun verbale edi interrogatorio di Pinelli, pertanto ogni eventuale verbale che venisse in seguito tirato fuori è da considerarsi falso. Accusiamo la polizia italiana di aver deliberatamente impedito che l'inchiesta si svolgesse sotto il controllo di un magistrato con la partecipazione degli avvocati della difesa. Accusiamo i magistrati e la polizia di aver ripetutamente violato il segreto istruttorio diffondendo voci e accuse tendenti a diffamare di fronte all'opinione pubblica un uomo assolutamente innocente, ma per loro colpevole di essere anarchico. Noi accusiamo lo Stato Italiano di cospirazione criminale nei confronti dell'anarchico Pietro Valpreda, da mesi sottoposto ad un feroce linciaggio morale e fisico, mentre le prove che gli inquirenti credono di avere contro di lui, si smantellano da sole una per una». Gli anarchici lasciano a queste parole le loro accuse contro lo Stato e i suoi apparati... sia lode ora ai sovversivi della storia... sono loro e solo loro che hanno fatto della propria esistenza libertaria un’opera d’arte. 

II. Romanzo di una strage: Il commissario calabresi santo subito!

Romanzo di una strage cerca di raccontare, anche con trasporto (specie nella prima parte), i fatti che riguardano la strage (di Stato) di Piazza Fontana e l’assassinio dell’anarchico Giuseppe “Pino” Pinelli. Infiltrati di destra, sinistra, il Sid, Cia, Nato, il principe Borghese, i fascisti di Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, alti apparati dello Stato (Saragat, Moro, Rumor), questori, magistrati, commissari, militari, Feltrinelli, Freda, Ventura, anarchici... sono intrecciati a una stagione dove le bombe (pilotate da figure legate all’eversione di destra e atte a diffondere il terrore a sostegno di un colpo di Stato) servivano a destabilizzare l’inclinazione di un Paese ancora investito dalle lotte sociali del Sessantotto... il popolo chiedeva una società più giusta e più umana, nelle strade si riversavano migliaia persone di ogni ceto sociale e reclamavano a faccia scoperta diritti e mutamenti profondi della “cosa pubblica”... in questo clima di rivolte libertarie (che come sappiamo porterà alla nascita dello Statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto...) Giordana deposita il suo film... i cattivi però non ci sono nel suo romanzo per immagini... o sono poco delineati, quasi assolti dei loro crimini... gli anarchici sono stupidi, il ferroviere Pinelli è un idealista un po’ ottuso, buon padre di famiglia, e il commissario Calabresi, quello che nel Sessantotto, vestito sempre con un impeccabile impermeabile bianco, portato alla Humphrey Bogart (c’eravamo in quelle strade infuocate di rabbia e l’abbiamo visto), guidava le cariche della Celere contro i cortei che chiedevano il diritto alla casa, le ore di lavoro più corte, la sanità per tutti, pensioni legate alla scala mobile, l’accesso alle università anche per i figli dei proletari... il commissario che dialogava con Pinelli, con i giornalisti, che si era messo a indagare per proprio conto (dice Giordana) sui colpevoli reali della strage, ucciso barbaramente... quando siamo uscito dal cinema abbiamo letto sulle facce degli spettatori un pensiero: Calabresi santo, subito!
Giordana è attento alla storia sociale italiana, come dimostrano alcuni suoi film precedenti (Maledetti vi amerò, 1980; La caduta degli angeli ribelli, 1968; Notti e nebbie, 1984; Pasolini un delitto italiano, 1995; I cento passi, 2000; La meglio gioventù, 2003)... tuttavia i suoi lavori sembrano restare sul versante della cronaca o poco più... la sua onestà intellettuale non si discute e nemmeno l’aderenza a pezzi di storia italiana è messa in dubbio... ciò che non ci convince è quel buonismo di fondo che attraverso il suo fare-cinema, e più ancora una certa mancanza di coraggio abrasivo che la sua filmografia mostra, lo deposita nella storia del cinema italiano come il regista che fa domande ma non trova risposte... un autore che resta spaventato da quell’immensa prostituzione politica che giustifica i propri crimini e che evita di accusare... come non sapere che il potere non si concilia molto con il rispetto dell’uomo? “Uno Stato non si compone né di angeli, né di agnelli: è la giungla organizzata” (E.M. Cioran). Tutto ciò che giova alla potenza e all’arroganza dello Stato è bene, chi attenta al crollo del Palazzo (come auspicava Pasolini) è male.
Romanzo di una strage è fin troppo didascalico... le riunioni dei capi di governo sono ridicole, quasi grottesche... la figura di Saragat sembra ritagliata da una commedia di bassa fattura... l’immagine di Moro, riflessiva, dolcificata, tutta chiesa e lavoro, rimanda al cinema parrocchiale degli anni Cinquanta... il ballerino Valpreda è quasi una caricatura... la moglie di Calabresi sembra uscita da una pubblicità dei detersivi... Pinelli un ingenuo ferroviere che si trova nel movimento anarchico quasi per caso... ai testi magistrali di Bakunin preferiva le poesie (peraltro straordinarie) di Spoon River. I torturatori dell’ufficio di Calabresi hanno la faccia da bravacci ma, come sappiamo, sullo schermo i cani e gli imbecilli vengono sempre bene... il commissario pulito e pettinato sempre bene, tutto dedito al mantenimento dell’ordine costituito, un “questurino con il quale si poteva parlare”, dice il film... è il vero protagonista del cineromanzo di Giordana. Si dimentica di dire che Calabresi era un segugio abile nel manovrare gli infiltrati, quanto nel mentire sull’omicidio di Pinelli... l’altarino della sua vita non ci interessa e la sua ascesa al cielo dei martiri caduti per lo Stato anche meno.
La tesi delle due bombe, quella degli anarchici che doveva essere un atto dimostrativo, da fare scoppiare a banca chiusa, e quella stragista dei servizi segreti è una stupidaggine, ed è offensiva verso l’innocenza degli anarchici coinvolti in questa tragedia, tutta da addebitare ai fascisti e ai servizi deviati dello Stato... del resto, in questa democrazia della corruzione, dove al governo convivono ladri e mafiosi, gli apologeti della ragion di Stato sono sempre bene accetti. La ricompensa è l’applauso. Il potere è una lebbra che contamina uomini e istituzioni ecco perché siamo tra quelli che auspicano la soppressione dei partiti: “i partiti sono organismi costituiti in maniera tale da uccidere il senso della verità e della giustizia” (Simone Weill)... sono macchine autoritarie che mortificano le passioni collettive di libertà e bellezza e poggiano il loro dominio sulla menzogna.
Romanzo di una strage si articola su un soggetto di Giordana, sostenuto dalla sceneggiatura di Sandro Petraglia, Stefano Rulli e dello stesso Giordana. I luoghi comuni si sprecano. Dialoghi pomposi, fraseologia (anche figurativa) da sceneggiato Rai, il “covo” degli anarchici è oscuro e gli anarchici sono sporchi e scemi... si vede che la frequentazione degli anarchici per gli sceneggiatori (che pure non sembrano estranei ai movimenti del Sessantotto) non c’è stata (o è stata male capita) e quello che hanno scritto è solo letteratura di infimo valore giornalistico. L’attorialità è di quelle destinate al pubblico televisivo... Pierfrancesco Favino (Pinelli) fa quello che può (del resto non è un mostro di recitazione mai) per rendere autentico un uomo che aveva fatto dell’anarchia il fulcro della propria esistenza e insieme al suo gruppo lavorava per dare aiuto ai tanti innocenti chiusi nelle carceri speciali (abbiamo partecipato a raccogliere fondi per i detenuti politici attraverso Croce Nera Anarchica che Pinelli si adoperava a destinare). Laura Chiatti (la moglie di Calabresi) sembra passare nel film per caso... il suo pudore casalingo è semplicemente osceno, da favola di Disney. Fabrizio Gifuni (Aldo Moro) sfocia nel patetico e fa dei pianti democristiani (falsi) di un politico, una figurina da conservare negli archivi sporchi di sangue della chiesa. Per non dire di Luigi Lo Cascio (il giudice Paolillo), impomatato come un inserviente delle latrine pubbliche che lascia sullo sfondo le sue intuizioni e sembra davvero credere in quello che interpreta, ma nessuno ci fa caso, lui per primo. Omero Antonutti (notevole icona di tanti film d’autore) fa il presidente della Repubblica Saragat... sempre sobrio... troppo accigliato... si perde in atteggiamenti vezzosi, senza sostanza. Giorgio Colangeli (Federico Umberto D’Amato), Giorgio Tirabassi (il professore dei servizi segreti), Thomas Trabacchi (il giornalista Nozza), Fausto Russo Alesi (Guido Giannettini), Denis Fasolo (Giovanni Ventura), Giorgio Marchesi (Franco Freda) Benedetta Buccellato (Camilla Cederna)... sono i figuranti seriosi o distratti di un’architettura filmica appesa ad avvenimenti storici trattati però senza l’umanesimo necessario... ogni immagine è un’immagine di troppo... non c’è tono, non c’è stile nell’impianto narrativo ma indulgenza per ciò che è stato e giustificazione impropria su quanto è veramente successo in quegli anni di piombo.
Valerio Mastrandea è attore vero... animale da cinecamera... senza mai strafare richiama molto il commissario Calabresi... manca però nella verbosità manichea del personaggio... troppo casa e famiglia e poco carcere e manganello. Michela Cescon (Licia Pinelli) è misurata, fiera, da credibilità alle sue emozioni, mostra a tratti di conoscere la demenza accettata ufficiale (all’ospedale con la madre di Pinelli, quando i medici si rifiutano di farle vedere il figlio o ai funerali dell’anarchico). La fotografia (Roberto Forza) è smorzata, scura, quasi un affresco di ciò che non è stato né sarà più. Il montaggio (Francesca Cavalli) è artificioso, lento... i personaggi si perdono per strada, riappaiono e qualche volta sono incastrati (male) nella vicenda in maniera arbitraria, frettolosa (il pezzo del nascondiglio delle armi che sarebbero dovute servire per arginare l’avanzata comunista). La musica (Franco Piersanti) è smielata su molte sequenze “morte”... il cinegiornale dei funerali delle vittime della strage è di notevole forza visiva, straziante... la sepoltura di Pinelli è colorata da alcuni anarchici (un po’ straccioni) che cantano sommessamente “Addio Lugano Bella”. Giordana fa bene a ricordare nelle didascalie finali che per questa tragedia/farsa italiana nessuno è stato giudicato colpevole e che i parenti delle vittime hanno dovuto pagare le spese processuali.
Romanzo di una strage non racconta la lotta degli anarchici contro lo sfruttamento economico, contro il dispotismo politico, contro la sottomissione religiosa... lascia fuori dallo schermo l’immaginario radicale/creativo dell’utopia come forza innovatrice in cammino verso una società di liberi e uguali. Commemora l’operato di un servitore dello Stato complice di realtà costruite e verità deformate... l’obbedienza non è mai stata una virtù, ma un prodotto sociale imposto e va scardinata. Il fucile, l’aspersorio e la dittatura delle banche sono gli utensili del potere e rappresentano i linguaggi di domesticazione sociale delle istituzioni... lo Stato è il regno della sottomissione, l’Anarchia il luogo a venire della libertà. La memoria degli anarchici non è iscritta nella storia dei dominatori... la fine della storia come sopruso di pochi a danno di molti non è nell’avvento di dio, né dei regimi comunisti... ma nella rottura con l’ordine dominante a vantaggio di tutto ciò che porta alla libertà e alla giustizia... quando gli uomini, le donne si accorgeranno della fame di bellezza, di giustizia e di libertà che batte nei loro cuori, ci sarà la rivoluzione dell’intelligenza nelle strade della terra. Nè dio, né padrone, sempre. 
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 14 volte aprile 2012.



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