«Compagno Ežov. Questa sì che è una cosa ben fatta! Continuate a scavare, a ripulire e sradicare tutta questa porcheria polacca. Liquidatela completamente in nome degli interessi dell'Urss».
[I. Stalin, 14 settembre 1937 (in margine al rapporto sull'«operazione polacca» del Commissario del popolo agli Affari interni (Nkvd), Nikolaj Ežov)].
1. Il Grande terrore staliniano, un orrore multiforme.
Tra il luglio del 1937 e il novembre del 1938 ebbe luogo in Unione
Sovietica una gigantesca e feroce serie di operazioni repressive nota come
«Grande terrore» oppure ežovščina, dal nome del Commissario del popolo agli Affari
interni (Nkvd) nel 1936-1938, Nikolaj Ežov. Con quasi 700 mila fucilati in 15
mesi, un ritmo di 1500-1600 esecuzioni giornaliere, le vittime immediate del Grande terrore staliniano furono di gran lunga più numerose di quelle del coevo terrorismo di Stato nazista almeno fino a quando, durante la
guerra mondiale, quest’ultimo non diede inizio allo sterminio su scala
industriale degli ebrei e di numerose altre categorie sociali e razziali
considerate «inferiori» (1).
Per caratterizzare sinteticamente il Grande terrore sono stati
proposti diversi termini, tra cui «genocidio» e «politicidio» ma, per una
ragione o per l’altra, tutti risultano essere inadeguati. Se per il nazismo si
può chiaramente identificare una politica genocida o sterministica su base
razziale, l’immane orrore staliniano non si lascia racchiudere in un singolo
termine che ne restituisca la complessità. Plasticamente esso potrebbe rappresentarsi
come una bestia multiforme e dalle tante teste, alcune delle quali azzannano e
divorano il proprio stesso corpo. Anche Ežov finì fucilato (nel 1940), come il predecessore Jagoda e il
successore Berija, tutti a capo per alcuni periodi della macchina repressiva di
Stalin.
Contesto sociale, cause e modalità del Grande terrore sovietico furono
diversi dalle operazioni di sterminio nazista, ma dal punto di vista etico non
è lecito fare graduatorie nell’ambito dell’orrore. Meno che mai ciò è
accettabile da parte di chi pretende di liberare l’umanità dall’oppressione e
dallo sfruttamento.
Per decenni l’attenzione sul Grande terrore
si è concentrata sulle purghe politiche e sui processi-spettacolo moscoviti.
Questi eventi notissimi erano però solo la cresta di una gigantesca ondata
terroristica che investì tutta la società. Il Grande terrore fu un fenomeno
multiforme e stratificato, nel quale confluirono epurazioni dell’élite politica
e amministrativa sovietica, dell’apparato del Comintern, dei militanti e delle
direzioni dei partiti «fratelli» ma anche e soprattutto una serie di
«operazioni di massa» su scala molto più vasta che, in vario modo ma spesso
letale, colpirono alcuni milioni di persone estranee alla nomenklatura. Tra le operazioni su vasta scala grande rilievo
ebbero le «operazioni nazionali» contro alcuni gruppi etnici non-russi.
Infatti, fu durante la ežovščina che la repressione staliniana iniziò a dirigersi
massicciamente contro interi gruppi nazionali: bersagli, questi, destinati ad
assumere crescente importanza quantitativa rispetto ai «trotskisti», ai
«destri», ai «controrivoluzionari» e altre categorie definite in vaghi termini
«sociali».
Con particolare durezza furono colpiti gli emigrati e gli esuli
politici polacchi, e i comuni cittadini sovietici di origine polacca:
complessivamente ne vennero fucilati centoundicimila
(111.000), una frazione consistente della totalità delle vittime della ežovščina; è stato calcolato che nella regione (oblast) di Leningrado per un polacco le
probabilità di essere ucciso erano 22 volte superiori a quelle di un
non-polacco (2).
In questo oceano di sangue e di sofferenze confluì un rivolo: la
liquidazione fisica dell’intero quadro dirigente del Partito comunista polacco
(Kpp) e dei partiti comunisti dell’Ucraina occidentale (Kpzu) e della
Bielorussia occidentale (Kpzb), allora regioni dello Stato polacco. Del
Comitato centrale del Kpp vennero liquidati 46 membri e 24 candidati (3); ma le
stime complessive della purga dei militanti della sezione polacca del Comintern
oscillano tra alcune centinaia e circa 5 mila fucilati. Per dimensioni e
qualità il caso del Kpp spicca come un esempio estremo delle montature e delle
persecuzioni che colpirono i partiti «fratelli», compreso l’italiano, e lo
stesso apparato centrale del Comintern (4).
Fatto unico nella storia del Comintern, l’annientamento dei quadri dei
partiti polacchi fu coronato da un decreto di scioglimento, sicché in Polonia un’organizzazione agli ordini di Mosca (il Partito
polacco dei lavoratori, Ppr) venne
ricostituita solo nel 1941, dopo l’invasione nazista dell’Urss e dopo la spartizione della Polonia tra la
Germania nazista e l’Unione sovietica staliniana. Ovviamente il nuovo partito
avanzava insieme ai cannoni e ai fucili sovietici.
L’annientamento del Kpp e l’«operazione polacca» sulla base
dell’ordine operativo n. 00485, concernente la «liquidazione totale delle reti
spionistiche e terroristiche dell’Organizzazione militare polacca» (Pow, Polska Organizacja Wojskowa), emanato da Ežov l’11 agosto 1937, definiscono congiuntamente una
«questione polacca» dentro il Grande terrore. Sue caratteristiche sono
l’ampiezza e l’intensità della violenza esercitata sia sulla massa dei comuni
cittadini di origine polacca sia sull’élite del comunismo polacco.
Il Grande terrore mal si presta a spiegazioni monocausali. In esso si
intrecciavano e si confondevano motivazioni di politica interna e di politica
estera, iniziativa centrale e spinte locali, volontà di controllo sociale ed
economico, considerazioni strategiche e geopolitiche, ordini che pianificavano
geograficamente le esecuzioni e caos amministrativo, paranoia dei capi, eccesso
di zelo dei boia, credulità e sadismo.
In questo articolo mi propongo di disporre alcune tessere di un
complesso puzzle, tracciando sommariamente la fisionomia del Grande terrore, il
quadro d’insieme delle vittime, la caratterizzazione delle «operazioni
nazionali» e in particolare della «linea polacca», e alcuni presupposti: le
rivolte contadine in opposizione alla collettivizzazione, specie nelle aree di
confine con la Polonia, il fallimento e quindi il rovesciamento della politica
delle nazionalità. In un successivo articolo, in effetti continuazione di
questo, saranno esposti alcuni aspetti della storia del Kpp rilevanti per
comprenderne la distruzione, discusse le possibili spiegazioni della stessa,
esaminate le stime circa la repressione che colpì la sezione polacca del
Comintern.
2. Le
oscillazioni del terrorismo di Stato e le tensioni non sciolte del regime staliniano.
La ežovščina (1936-1938)
come vertice parossistico del terrorismo di Stato.
L’eliminazione sistematica dell’opposizione politica e il terrore di
massa erano già tratti necessari del regime staliniano, ma quelli dell’ežovščina furono gli anni di massima intensità del terrorismo statale di massa, nei quali si
concentrarono «quasi i tre quarti delle condanne a morte pronunciate tra la
fine della guerra civile (1921) e la morte di Stalin (1953) da una
giusrisdizione speciale dipendente dalla polizia politica o dai tribunali
militari» (5).
Sia per le sue dimensioni che per la sua feroce qualità, l’ežovščina risalta quindi come un momento parossistico del
terrorismo di Stato staliniano; tanto più quando si concordi sulla tesi che tra
la fine del 1933 e la fine del 1936 (o ancora nei primi mesi del 1937) il
regime aveva optato per una pratica più selettiva della repressione, da
esercitarsi in modo regolarmente burocratico nell’ambito del sistema
giudiziario piuttosto che con improvvisate campagne politiche di massa ed
istituti extragiudiziari (6). Emblematica di questo corso più selettivo e
regolato della repressione fu l’istituzione dell’ufficio della Procura generale
sovietica (luglio 1933), con funzione di supervisione delle attività dei
tribunali e delle polizie delle singole repubbliche, e del Commissariato del
popolo per gli affari interni (Nkvd) pansovietico (febbraio 1934) in
sostituzione dell’Ogpu. A differenza dell’Ogpu il Nkvd non poteva condannare a
morte; ma al suo interno venne creato un «ufficio speciale», costituito da
funzionari di polizia, con la possibilità di emettere, anche senza alcun
confronto con l’imputato, pene non soggette ad appello fino a cinque anni di
lavoro nei campi nei confronti di individui rientranti nella vaghissima
fattispecie dei «socialmente pericolosi». In questo modo si istituzionalizzava
un apparato repressivo extragiudiziario a fianco del sistema giudiziario
(comunque soggetto a direttive politiche). Pur in una situazione di dittatura,
nella quale non mancavano oscillazioni e segnali ambigui, si trattava di
cambiamenti che andavano nella direzione di regolare l’esercizio della
violenza, con l’effetto congiunturale di allentarne la pressione, e,
specialmente, di rafforzarne il controllo diretto da parte del centro politico.
Sottolineo che allentamento, istituzionalizzazione e normazione della
repressione sono da intendersi in termini relativi, rispetto, cioè, ai primi
anni Trenta; ad esempio, non si deve dimenticare che l’arcipelago dei lager
stalinisti, l’«arcipelago Gulag» (dove Gulag sta per Direzione centrale dei
lager dell’Ogpu-Nkvd dell’Urss), prese corpo proprio a causa delle deportazioni
di massa di quegli anni [si rinvia a «Precisazioni sul Gulag», analisi di Roberto Massari del marzo 2010]. Dopo l’assassinio di Kirov nel 1934 si verificò un’impennata del
terrore e, tanto per intendersi, nell’aprile 1935 il Politbjuro approvò una
risoluzione che rendeva punibili con la pena di morte i fanciulli a partire dai
12 anni e istituiva colonie di lavoro anche per i minori (che «ospitavano» 38
mila ragazzi all’inizio del 1938); nell’agosto 1936
si svolse il primo dei grandi processi.
Detto questo, resta il fatto che la ežovščina fu una violentissima «inversione
di marcia», fondata su «operazioni di massa» (massoperatsii) che superavano di gran lunga l’ambito della
definitiva liquidazione dell’ex élite rivoluzionaria e degli oppositori che
ancora sopravvivevano nel Gulag o di quelli che erano stati già spezzati; fu
anche qualcosa di diverso dalle verifiche (proverki) o «ripuliture» (chistki) nel Partito intraprese nel
1935-1936. Il terrore tornò a investire
direttamente grandi masse umane sull’intero teritorio sovietico, scalando
altezze fino ad allora non
raggiunte.
Le svolte
violente e contraddittorie come espressione dell’instabilità e
contraddittorietà del sistema.
Nell’epoca staliniana gli improvvisi
rovesciamenti di linea politica furono così
frequenti e così importanti da costituirne, a livello descrittivo, un tratto
caratteristico. Si pensi al passaggio dalla Nep nella versione «contadini
arricchitevi!», alla «liquidazione come classe» di quegli stessi contadini che
si era voluto «arricchire» (i kulaki,
veri o presunti). Non meno violente e apparentemente incoerenti furono le
oscillazioni della diplomazia sovietica e della linea del Comintern: dalla
ricerca di un’intesa col Governo britannico e dal sostegno al Kuomintang e alla
borghesia «nazionale», all’«ultrasinistrismo» dei primi anni Trenta e alla tesi
della socialdemocrazia come forma di fascismo, il cui frutto maturo fu la
vittoria del nazismo in Germania; ma a questo fece seguito il lancio della
politica del «fronte unito» o «fronte popolare» con i partiti socialdemocratici
(considerati improvvisamente non più «socialfascisti») e con i partiti borghesi
antifascisti; poi il nuovo rovesciamento di prospettiva, dalla politica di
«sicurezza collettiva» per confinare (non annientare) il nazismo, all’alleanza
di fatto con la Germania nazista dal 1939 al 1941 e alla quarta spartizione
della Polonia; infine, il nuovo voltafaccia, indotto dall’invasione nazista nel
giugno 1941, con il rilancio della collaborazione con i partiti borghesi e
l’accordo con Gran Bretagna e Stati Uniti per la divisione dell’Europa in zone
d’influenza (conferenze di Teheran e di Yalta, 1943 e 1944).
Gli zig-zag staliniani in politica interna e internazionale non erano solo l’indice e il risultato
dell’assenza di una visione strategica, della mancanza di un’autentica e
razionale pianificazione, dell’inesistenza di una teoria degna di questo nome e
di un sistema di valori capaci di orientare la pratica. Ciò vale per tutte le
svolte e le piroette staliniane: non è possibile salvare svolte «buone» perché
apparentemente antifasciste e «democratiche» e condannare quelle settarie o la
collaborazione col nazismo. Tutte rispondevano al medesimo fine: la ricerca delle migliori condizioni,
interne e internazionali, per assicurare la permanenza al potere della casta
burocratica «in un solo paese» (e per preservare la posizione del singolo
despota Stalin). Tutte presupponevano la lotta contro qualsiasi autonomo
movimento etnico o di classe.
Le contraddittorie oscillazioni e le violente svolte dello stalinismo
vanno comprese sia nella loro dimensione soggettiva,
volontaristica e intenzionale, sia come reazioni convulse a processi che
sfuggivano al controllo della burocrazia, ad effetti non intenzionali e a
problemi determinati dalle politiche fino a quel momento seguite e
contraddistinte da un susseguirsi di clamorosi fallimenti.
In questa prospettiva si può dire che come la relativa moderazione del
terrorismo di Stato aveva fatto seguito al caos prodotto dalla
collettivizzazione forzata, dalle deportazioni di massa e dalla marea di
fucilazioni nel corso della «liquidazione dei kulaki come classe», così la brutalità e l’ampiezza del Grande
terrore erano espressioni della fondamentale instabilità politica e sociale del
regime, sia nella sua ossatura di dominio, entro la quale ricade la questione
del ruolo specifico dell’individualità e dell’assolutismo di Stalin, che nella
base umana della società dominata.
Le «organizzazioni controrivoluzionarie», spionistiche o addirittura
insurrezionali, erano frutto di fantasia o creazioni deliberate, strumentali
alla repressione, e non esisteva una vera opposizione interna al regime; ma il
potere personale di Stalin aveva comunque da temere il cristallizzarsi della
nomenklatura in casta, la sua pressione per una gestione più «collegiale» del
potere, il formarsi di potentati locali e settoriali in grado di contrattare da
posizioni forti con il centro. Questo conflitto latente all’interno della
burocrazia spiega l’avviarsi di un processo «purgativo» nell’élite,
l’espandersi della repressione dai vecchi oppositori agli stessi quadri del
Partito e dell’amministrazione che avevano sostenuto Stalin, l’indirizzo della
ricerca del «nemico di classe» all’interno degli apparati di potere. Il
processo di avvitò su se stesso in modo cannibalesco, destabilizzando
ulteriormente il sistema, privandolo di soggettività capaci e competenti, fino
a quando non venne interrotto con la stessa brutalità con la quale era stato
iniziato (7). Il Grande terrore, d’altronde, creò quei vuoti entro i quali fecero
carriera i quadri che dirigeranno l’Unione Sovietica dei decenni a venire,
compresi Nikita Chruščëv e Leonid Brežnev.
Funzionamento e prestazioni degli apparati statali non rispondevano
pienamente ai comandi e alle aspettative del centro staliniano a causa della
loro stessa natura, ma anche e specialmente per l’inerzia e la resistenza opposta
in basso, nelle viscere della società. La «rivoluzione» burocratica di Stalin»
nei primissimi anni Trenta era stata tutt’altro che un processo pianificato
secondo criteri di efficienza e sotto controllo «totalitario»: la
dekulakizzazione violenta e la collettivizzazione forzata avevano prodotto
penuria e carestia, disfunzioni, emarginazione, anomia. Per quanto le categorie
statistiche degli organi repressivi debbano essere prese con le pinze, non è
difficile credere che il trauma della collettivizzazione, le migrazioni e le
fughe dai lager e dagli «insediamenti speciali», abbiano alimentato la crescita
veloce di settori formati da «elementi socialmente pericolosi» in ambiente
urbano (8). All’inizio del 1939 a Mosca si arrestavano
per reati vari 30 mila persone al mese, di cui 300-400 perché senza lavoro o
senza fissa dimora; nel 1939 il Gulag «ospitava» 300 mila prigionieri definiti
«socialmente dannosi» o «socialmente pericolosi» (9).
La collettivizzazione aveva prodotto anche proteste e rivolte di massa,
uccisioni di attivisti e funzionari, sabotaggi e incendi. L’Ucraina ai confini
con la Polonia ne era stata particolarmente interessata. Nel momento in cui
vennero lanciate le «operazioni di massa» le comunità di villaggio e le
famiglie contadine cercavano ancora di «manovrare» a loro favore dentro i
kolchoz, mentre le ferite delle deportazioni erano vive e ancora aleggiava il
ricordo della «febbre» delle rivolte del marzo 1930. I timori erano ravvivati
dalle vicine elezioni. Nella tesissima situazione europea, particolarmente
temibile doveva apparire agli occhi della burocrazia la possibilità di rivolte
contadine da parte di nazionalità non-russe poste sui confini.
3.
Alcune caratteristiche delle «operazioni di massa» e dati sulle vittime del
Grande terrore.
L’iniziativa, purghe dell’élite e «operazioni di massa».
Il comando che diede inizio alle «operazioni
di massa» fu il seguente telegramma di
Stalin, a nome del Comitato centrale, indirizzato a Ežov, ai segretari regionali e ai comitati territoriali, ai Comitati centrali dei partiti comunisti
nazionali, in data 3 luglio 1937:
«Si rileva che una
gran parte degli ex kulaki e criminali, esiliati nelle regioni del Nord e della
Siberia e poi rientrati, allo scadere della pena, nei loro domicili, sono i
principali istigatori dei crimini antisovietici sia nei kolchoz e nei sovchoz,
sia nei trasporti e in alcuni settori dell’industria.
Il Comitato
centrale propone a tutti i segretari di partito delle regioni e delle
repubbliche, così come a tutti i responsabili regionali del Nkvd, di schedare
tutti i kulaki e i criminali che hanno fatto ritorno, affinché quelli tra di
loro che sono più ostili possano essere immediatamente arrestati e fucilati per
effetto di una procedura amministrativa semplificata davanti a una trojka; gli altri, quelli meno attivi,
ma nondimeno ostili, siano esiliati in regioni lontane del paese su ordine del
Nkvd.
Il Comitato
centrale v’invita, entro cinque giorni, a proporgli la composizione delle trojki, il numero degli elementi da
fucilare e di quelli da esiliare.
Il segretario del
Comitato centrale, I. Stalin (10).
Una prima osservazione a proposito di questo
telegramma è che esso faceva seguito alla decisione presa nell’Ufficio politico il giorno precedente, lo
stesso giorno nel quale la Pravda
pubblicava il nuovo regolamento per le elezioni a scrutinio segreto. Che se ne condivida o
meno la tesi di fondo sul carattere
improvvisato (oltre che improvviso) del Grande terrore, per spiegare il momento esatto in cui esso venne
lanciato è interessante l’osservazione di John Getty secondo cui si sarebbe
realizzato una sorta di scambio tra Stalin e i dirigenti regionali.
Dal plenum del CC del 23 febbraio/4 marzo i dirigenti regionali
del Partito avevano chiaramente manifestato preoccupazione per le regole delle
nuove elezioni, previste dalla Costituzione del 1936, che concedevano il
diritto di voto alle categorie che ne erano prive: il timore era proprio che ex
kulaki, preti e altri elementi «controrivoluzionari» potessero infiltrarsi
nelle istituzioni sovietiche. Ma secondo Getty, nello stesso momento in cui
Stalin forzava i dirigenti locali a tenere le elezioni, li autorizzava anche a
«liberarsi» degli ex kulaki e degli altri soggetti «socialmente pericolosi».
Jansen e Petrov citano a conferma un passo del rapporto di Stalin al XVIII
congresso del partito, marzo 1939, nel quale il successo delle elezioni del
dicembre 1937 veniva ricondotto alla tempestività della repressione (11). Se
queste osservazioni sono giuste, allora saremmo in presenza del perverso
paradosso, coerente con le oscillazioni e le «correzioni» tipiche del periodo
staliniano. La Costituzione del 1936, adottata in un momento in cui si
corteggiavano le «democrazie» e propagandata come «la più democratica del
mondo» (salvaguardando però anche formalmente il regime di partito unico),
sarebbe stata materialmente delimitata attraverso lo sterminio fisico dei
potenziali oppositori e di parte della loro base umana: «soluzione finale» al
persistente problema degli «elementi antisovietici». Una seconda osservazione
riguarda proprio l’oggetto della persecuzione: «i kulaki e i criminali che
hanno fatto ritorno». Allora non si trattava più di attuare un violento
intervento socioeconomico come negli anni della collettivizzazione, ma di
«liquidare» nel senso fisico degli individui che, se pure economicamente
«declassati», erano
percepiti come ostili al regime. Ostilità forte nel ricordo della «febbre di
marzo» del 1930, dell’esplodere delle proteste e delle rivolte contadine di cui
si dice avanti. Il riferimento ai «criminali» rimanda agli acuti problemi di
controllo sociale nelle città, anch’essi conseguenti dalla collettivizzazione e
dalle migrazioni.
Infine, è da notare che le categorie individuate sono solo
due e che si chiede agli «organi» locali di definire le quantità da fucilare
(in prima categoria) e da esiliare (in seconda categoria, da 8 a 10 anni). Di questo occorre
tener conto per comprendere l’interazione tra centro e periferia
nell’estensione della repressione.
Per quel che concerne il rapporto tra purghe
dell’élite e «operazioni di massa», si può dire che un primo segnale della tempesta imminente fu l’annuncio, dato dalla Pravda l’11 giugno, che il maresciallo Tuchačevskij e altri sette generali comandanti
dell’Armata rossa erano stati arrestati per cospirazione e tradimento contro
l’Unione Sovietica. A questo fece seguito il Plenum del Comitato centrale del
22-28 giugno durante il quale vennero denunciati diversi complotti. Durante l’ežovščina si svolsero importanti processi politici, montati
come spettacoli d’impatto internazionale, come a gennaio 1937 contro il «centro parallelo antisovietico trotskista» (Radek,
Pjatakov, ed altri 15 imputati) o a marzo 1938 contro la «deviazione di destra»
(Bucharin, Rykov, Krestinskij, Jagoda, ed altri), con l’accompagnamento di
decine e decine di altri «spettacolari» procedimenti giudiziari locali.
Con la «scoperta» di complotti nei più alti livelli del Partito e dello Stato, organi repressivi
inclusi, nessuno poteva più considerarsi al sicuro: il sospetto si
generalizzava, estendendosi dalla élite alle
masse. Così Stalin rimediava all’insuccesso dell’attacco «populistico» portato
nei mesi precedenti a quella parte della burocrazia che riteneva non fosse
sufficientemente sotto controllo e che aspirava ad una dittatura «collegiale».
Il successo dell’epurazione staliniana dentro la casta dominante può
spiegarsi a) con l’assenza di un nucleo che coagulasse l’aspirazione diffusa
alla «normalizzazione» della dittatura, b) con la presunzione iniziale dei
membri della stessa élite stalinista, a metà del 1937, di non poter essere
liquidati come i tradizionali «nemici di classe» e i vecchi oppositori, c)
successivamente col meccanismo dell’accettazione della condanna di altri nella
speranza di salvare se stessi.
Dati
sulle vittime.
Le ricerche archivistiche a partire dagli anni Novanta del secolo
scorso (12) hanno gettato nuova luce sulle
dimensioni del terrore, i suoi tempi, le procedure, le categorie delle vittime
formalmente designate, numero e tipologia delle condanne inflitte. Come sempre
accade quando la conoscenza si amplia la ricerca sul terrore non è affatto
chiusa: nuove e più specifiche domande sorgono circa l’accertamento di fatti e
di decisioni. Anche le interpretazioni sono messe alla prova e ridefinite. In
sostanza, si tratta dell’alternativa tra la ežovščina intesa come realizzazione di una sorta di progetto
voluto, premeditato e amministrato dal centro, oppure come congiuntura nella
quale confluirono una serie di tensioni e contraddizioni che sfuggivano al
controllo centrale, costretto a improvvisare un’azione violentissima nel
tentativo di risolverle e di prevenire sviluppi futuri (in un contesto
internazionale minaccioso), come processo nel quale gli «organi» e gli
orientamenti politici locali giocarono volontariamente un ruolo attivo, non
solo per servilismo nei confronti del centro moscovita. Una questione cruciale
in questo dibattito è data dai dei motivi degli «eccessi» sulle quote
autorizzate dal centro.
Sui numeri il consenso è generale: nel 1937-1938 gli organi del Nkvd arrestarono circa un milione e mezzo di
persone, di cui oltre 1.300.000 furono condannate; a queste cifre si
possono aggiungere «le 420-450 mila persone condannate a una pena che poteva
arrivare a cinque anni di campo o relegazione inflitti dalle milicejskije trojki, giurisdizioni
speciali della polizia ordinaria» (13). Secondo Oleg Chlevnjuk, negli stessi anni e considerando anche
l’attività dei tribunali ordinari, «attraverso i diversi tribunali e organi
extragiudiziari passarono, presumibilmente, circa tre milioni e mezzo di
persone (molti dei condannati col beneficio della condizionale o ai lavori
correzionali non venivano preventivamente arrestati)»; per il decennio
1930-1940 i condannati, compresi quelli a lavori correzionali o a pene
condizionali senza carcerazione, sono stimati a circa 20 milioni (14).
Stando a dati ufficiali, le esecuzioni furono 681.692 o, sulla base
di una stima più alta degli arresti, 752/741 mila. Questi conteggi non tengono
conto dei morti in seguito a torture durante gli interrogatori e delle persone
«scomparse» per denutrizione,
malattia e maltrattamenti nei campi del Gulag o durante gli spostamenti verso i
campi, nell’ordine di circa 200 mila nel 1937-1938. Infine, bisognerebbe
conteggiare detenuti ed esiliati arrestati nel 1937-38 ma deceduti in prigionia
negli anni seguenti. La stima complessiva dei detenuti morti nei lager, nei
campi e nelle prigioni per gli anni dal 1930 al 1941, esclusi quelli morti nei
trasferimenti, è di 500 mila persone. A questi si devono aggiungere i morti
negli insediamenti speciali per i «kulaki», specposëlok, nell’ordine di 200 mila negli anni 1930-1931 e 389.521
nel periodo 1932-1940, secondo più precisi dati del Ogpu-Nkvd (sempre
escludendo i decessi durante i trasferimenti e le fughe) (15). E anche queste sono stime e dati per difetto (ma che comunque
stabiliscono degli ordini di grandezza).
Per quanto riguarda la purga della nomenklatura, le cifre relative agli
anni della sola ežovščina, sono di 55.428 arresti di
membri e candidati del Partito nel 1937 e di 61.457 nel 1938, un totale
arrotondato di 117 mila, pari al 7-8% degli arresti complessivi (16). Queste,
però, sono cifre relative alle sole condanne da parte del Collegio militare,
attraverso il quale passava la maggior parte dei procedimenti contro membri del
Partito, specialmente di quelli posti nelle posizioni più elevate;
complessivamente, si stima che le esecuzioni di membri del Partito siano state
50-60 mila. All’inizio del 1939 erano in posizione da meno di un anno 293 su 333 segretari regionali, 26 mila su 33 mila funzionari
della nomenklatura del Comitato centrale; degli incarichi di dirigente economico iscritti nell’elenco della nomenklatura del Comitato centrale, la metà era stata nominata
da meno di due anni; nei ministeri degli esteri, commercio con l’estero,
finanze, industria pesante, trasporti, agricoltura, industria leggera, era
stato arrestato l’80-90% dei dirigenti (17).
Il processo
decisionale: l’interazione tra centro e periferia e l’estensione delle
categorie soggette a repressione.
I dettagli del processo decisionale relativi
all’«operazione kulak» sono oggetto di discussione.
Una prima definizione delle quote da reprimere in prima e
seconda categoria si ebbe nelle riunioni del 16-18 luglio a Mosca dei
responsabili regionali del Nkvd (convocata dal telegramma di Frinovskij citato
oltre). L’«operazione kulak» fu
allargata a molte altre categorie ma per Getty le cifre, in particolare della
prima categoria (condanna a morte), vennero ribassate relativamente alle
proposte prima pervenute a Mosca per 40 regioni su 64. Il 30 luglio Ežov emanò l’ordine 00447 «sull’operazione di repressione
degli ex kulaki, dei criminali e di altri elementi antisovietici». Le
operazioni dovevano iniziare tra il 5 e il 15 agosto a seconda delle regioni e
durare quattro mesi: durarono invece 15 mesi, fino al 17 novembre 1938. Getty
nota che Mosca autorizzò in quei mesi la mostruosità di 236 mila esecuzioni ma
che, in effetti, nell’ambito dell’«operazione kulak» vennero fucilate oltre 386
mila persone. Egli vede il rapporto
tra centro e periferia in termini interattivi piuttosto che unilaterali, con le
direzioni periferiche che avevano i propri motivi per reprimere e abbandonarsi
a «eccessi» attuati autonomamente (18). Werth non è d’accordo con Getty sul
punto che «i dirigenti regionali erano pronti a inviare cifre precise, perché
sapevano già esattamente chi volevano reprimere» (19): che è un modo per
contestarne l’interpretazione complessiva, in particolare sul ruolo attivo
delle direzioni locali nel determinare l’escalation della repressione oltre le
quote previste. Ma come già Getty, anche Werth cita il telegramma del 12 luglio
di Frinovskij, vice commissario del Nkvd, ai responsabili regionali, che
intimava al primo punto: «non cominciare l’operazione di repressione degli ex
kulaki e criminali. Ripeto: non cominciare l’operazione» (20).
L’interpretazione che Werth offre del telegramma non è diversa da quella di
Getty:
«Stalin e la direzione centrale del Nkvd nutrivano un
forte timore: vedere l’operazione prendere una direzione imprevista, sfuggire a
ogni controllo, com’era in parte avvenuto al momento della dekulakizzazione,
essendo stata lasciata agli attivisti locali una larghissima parte
dell’iniziativa» (21).
Che è poi in parte quanto accadde, secondo Getty, e non
perchè Stalin fosse un «terrorista riluttante». Che le «operazioni di massa»
rassomiglino più a una sparatoria alla cieca sulla folla che a un fuoco ben
controllato, «più a uno spasmo che a una politica, troppo imprecise e
localmente arbitrarie nei loro bersagli per costituire un’operazione
centralizzata d’ingegneria sociale» (22), non toglie nulla alla responsabilità personale di Stalin ma conferisce
alla barbarie del Grande terrore un carattere più propriamente sistemico. È una
valutazione che spinge a fare i conti anche con i tanti piccoli Stalin
periferici. Quel che risalta è l’irrazionalità connaturata al dominio
burocratico e il suo fallimento anche nei termini del controllo «totalitario».
Il modello
«medievale» del Grande terrore: la figura del «tipo
d’autore», la tortura, la delazione.
A proposito del terrorismo di Stato
staliniano e del Grande terrore, l’espressione «condanna a morte» è fuorviante perché evoca un procedimento giudiziario. Ma della
vita e della morte si decideva prescindendo dai requisiti minimi di civiltà
giuridica e della pratica investigativa. Non c’erano presunzione d’innocenza
dell’imputato, diritto alla difesa e contraddittorio, ricerca di prove e
accertamento materiale di un reato. La procedura era modernamente «medievale»,
di tipo inquisitoriale, basata sulla figura del «tipo d’autore» che esula dal
verificarsi di un atto reale da parte dell’individuo, che era invece perseguito
per il suo inserimento arbitrario in categorie sociali e politiche qualificate
come «controrivoluzionarie» o «socialmente pericolose», tra le quali ex
prigionieri di guerra, determinate nazionalità, esperantisti, filatelici. Si
poteva finire con una palllottola in testa o ai lavori forzati non per quel che
si era, ma per quel che si era stato, byvšije, alla lettera «ex» cioè
«persona del passato». Aver avuto rapporti con un consolato del paese d’origine poteva divenire
prova certa d’essere una spia e un sabotatore. Anche l’essere «moglie di» fu
motivo di condanna: in base all’ordine n. 00486 (15 agosto 1937) le mogli dei «traditori della patria» potevano
essere sanzionate con 5 od 8 anni di lavoro nei lager e «i figli maggiori di 15
anni “socialmente pericolosi e capaci di compiere azioni antisovietiche”
dovevano essere inviati nei lager, nelle colonie di lavoro correzionale o in
orfanotrofi a regime speciale» (23). La persecuzione di membri del nucleo famigliare era
comunque un risultato logico non solo della generalizzazione del sospetto e
della spirale delle accuse, ma della presunzione di colpevolezza estesa a
categorie sociali e nazionali.
Nel rapporto a Stalin del 14 settembre 1937
sugli sviluppi dell’«operazione polacca» si ripete un ritornello: Gačinskij, arrestato a Kharkov, ha fatto il nome
di 19 complici; Poniatovskij e Smertčinskij,
già dipendenti di uno zuccherificio, «hanno rivelato i nomi di numerosi
complici»; a Kiev l’agente dello spionaggio polacco Fornolskij ha rivelato di
essere alla testa di un gruppo di 11 persone operanti nello zuccherificio di
Selivankovo; grazie alla confessione della spia Matsievskij «è stato possibile
smantellare l’intera cellula dell’Organizzazione militare polacca a Jitomir»;
Kulino-Kulinovskij, che rendeva conto al consolato polacco di Kiev, ha
confessato; la spia Finshval’ di Odessa ha confessato dodici nomi; di nuovo a
Kiev, Mizernik «ha fatto i nomi di sei agenti dello spionaggio polacco»; e così
via, a lungo (24).
Non è difficile
capire quale fosse l’accurata pratica investigativa dei cui risultati Stalin si
rallegrava con Ežov: la tortura. Le
spie designate confessavano quel che gli inquisitori volevano sentire,
aggiungendo i nomi necessari a costituire un gruppo di spie e sabotatori che
confermasse le aspettative del centro e consentisse di liberarsi di personaggi
localmente scomodi.
Nella risoluzione
del Consiglio dei commissari del popolo dell’Urss e del Cc del 17 novembre
1938, che pose fine a «qualsivoglia operazione di massa» e quindi al Grande
terrore, si legge, tra l’altro, che:
«un altro errore molto importante nel lavoro
degli organi del Nkvd è l’abitudine presa dagli agenti di condurre un’inchiesta
semplificata, nel corso della quale l’inquirente si accontenta della
confessione dell’individuo arrestato senza preoccuparsi di trovare conferma con
gli indispensabili elementi di fatto (testimonianze, perizie, prove materiali
ecc.) (25)».
Ma l’inchiesta
«semplificata» era connaturata alle procedure, alle fattispecie e ai fini delle
«operazioni di massa» e, conseguentemente, doveva puntare sulla confessione e
sulla delazione estorte agli inquisiti. Ma la risoluzione ignora il problema
affermando che
«tutti questi fatti scandalosi commessi dagli
organi del Nkvd e della procura si sono potuti produrre perché i nemici del
popolo introdotti in tali organi sono arrivati a sottrarre il Nkvd e la procura
al controllo del partito, la qual cosa consentiva loro di portare avanti le
loro attività antisovietiche sotterranee».
Si deve dunque
intendere che tra la metà del 1937 e la fine del 1938 i «nemici del popolo»
abbiano di fatto esercitato la dittatura terroristica nella «patria del socialismo»
all’insaputa dell’infallibile guida Stalin? E non sarebbe stato questo motivo
sufficiente per «pensionare» lo stesso Stalin, così propenso ad affidare la
guida della lotta alla controrivoluzione agli stessi controrivoluzionari? In effetti Ežov, che aveva avuto il suo grande momento di pubblica gloria come
cacciatore dei «nemici del popolo», di spie e di sabotatori, e nel cui
regno cadde la fastosa celebrazione del ventesimo anniversario della Čeka nel teatro Bol’šoj, quando nei discorsi e sulla stampa gli agenti del Nkvd e lo stesso Ežov passavano per figli prediletti del popolo
sovietico, venne a sua volta accusato di essere una spia al servizio
della Germania, del Giappone, della Polonia e per buona misura, anche
dell’Inghilterra; di voler assassinare Stalin e altri della sua cerchia
ristretta, di cui pure aveva fatto parte; e, ciliegina sulla torta, anche di
sodomia...
Eppure, non solo
Stalin si era congratulato con Ežov per le
confessioni e le delazioni; non solo aveva firmato liste di centinaia e
centinaia di persone da condannare a morte; ma il 10 gennaio 1939, a nome del Comitato
centrale, fece trasmettere al Nkvd un telegramma che recita così:
«Il Comitato centrale del partito comunista
ricorda che l’uso di metodi di pressione
fisica nella pratica del Nkvd è stato autorizzato nel 1937 con l’accordo del
Comitato centrale [...] è risaputo che tutti i servizi d’informazione della
borghesia utilizzano metodi di pressione fisica contro i rappresentanti del
proletariato socialista e che ne fanno uso nel modo più scandaloso. Si pone il
problema di sapere perché i servizi d’informazione socialista dovrebbero dare
prova di umanità nei confronti dei nemici mortali della classe operaia e della
classe contadina kolchoziana. Il Comitato centrale del Partito comunista
ritiene che i metodi di pressione fisica
debbono essere applicati senza restrizioni come metodo appropriato e del tutto
giustificato contro i nemici riconosciuti e incalliti» (26).
Dunque la «pressione fisica», ovvero la tortura, da utilizzarsi «senza restrizioni come
metodo appropriato e del tutto giustificato», era stata autorizzata dal vertice
sovietico nel 1937 e nuovamente confermata da Stalin in persona nel 1939:
necessariamente con l’obiettivo di ottenere la confessione dell’imputato in una
«procedura» alquanto «semplificata». Che tale doveva essere, osservazione
conclusiva, anche perché esplicitamente richiesto nell’ordine operativo 00447,
paragrafo «IV. Modalità d’istruzione dei dossier», punto 1: «Ciascun individuo
o gruppo d’individui è l’oggetto dell’apertura di un dossier istruttorio. Questa istruttoria ha luogo in modo
semplificato e accelerato. L’istruttoria dovrà mostrare tutti i
collegamenti criminali degli individui arrestati» (corsivo mio).
È un serpente che
si morde la coda. Ma non si può pretendere un linguaggio logico da chi è capace
di tale barbarie. E non ci si può aspettare né logica né buon senso da parte
dei fossili viventi che in qualche modo continuano a «giustificare» con le
circostanze storiche l’opera interna e internazionale di Stalin, e neppure
dagli incoscienti o dagli ignoranti, vittime e del culto postmoderno dei
simulacri, che rispolverano l’icona di Stalin come presunta antitesi «pura e
dura» al capitalismo.
4. L’«operazione polacca» e le altre «operazioni
nazionali».
Le prime operazioni repressive di massa dirette a colpire un gruppo
nazionale precedono il Grande terrore: furono le deportazioni di polacchi e
tedeschi dal confine occidentale nel 1930, condotte nel quadro della
liquidazione dei kulaki e della collettivizzazione.
Il 5 marzo 1930 l’Ufficio politico deliberò la deportazione di altre
3.000-3.500 famiglie di kulaki effettivi o presunti tali dalla Bielorussia e di
10.000-15.000 famiglie dall’Ucraina, inclusi nobili polacchi indipendentemente
dalla loro condizione materiale; l’11 marzo venne specificato, in rapporto alle
rivolte e alle proteste in corso, che l’operazione andava condotta innanzitutto contro i kulaki di nazionalità
polacca e che essa doveva essere eseguita in modo rapidissimo, «con il
massimo di organizzazione e senza fanfara» (27), al fine di prevenire
l’intervento del governo polacco. Nello stesso periodo un piano per reinsediare
88 mila coreani venne abbandonato per il timore della reazione del governo
giapponese. Nel 1933 vennero arrestati a decine di migliaia presunti
nazionalisti, specialmente tedeschi e polacchi, accusati di cospirare con la
Germania per separare l’Ucraina dall’Urss. Per quanto avvenisse nel quadro
della lotta al presunto «sabotaggio» del raccolto di grano da parte dei kulaki
(era in corso la carestia) secondo Terry Martin a marcare il passaggio dalle
deportazioni su base di «classe», prevalenti prima del 1933, alla deportazioni
su base «etnica» prevalenti fino al 1953 fu l’ordine di deportare l’intera
popolazione cosacca di Poltava nel dicembre 1933, seguito da analogo ordine per
altre due città.
Nel corso della «pulizia» successiva all’omicidio di Kirov le nazionalità
non-russe vennero colpite pesantemente: nel novembre 1934 l’Ufficio politico
adottò una risoluzione volta a colpire gli «elementi fascisti» nelle colonie
tedesche, in Ucraina e nel distretto siberiano di Slavgorod, con ampia presenza di mennoniti
tedeschi; nel febbraio-marzo 1935 oltre 8
mila famiglie (41.650 persone), più di metà tedesche e polacche, vennero
deportate dal confine nella zona più orientale dell’Ucraina.
In Unione Sovietica la caccia alla «spia» e
all’agente controrivoluzionario non era certo una novità ma, con il cambiamento
del quadro politico internazionale determinato dall’avvento del nazismo al
potere e il patto di non-aggressione tra Polonia e Germania del 1934, le
operazioni repressive di massa iniziarono ad assumere un immediato valore
geopolitico e strategico. Si trattava di assicurare i confini, innanzitutto
quello occidentale. Ovviamente, nelle fasce frontaliere, oltre tutto ancora
«porose», erano più numerose le nazionalità non-russe, sempre più percepite
come potenziali alleate del nemico. Tra queste, quella polacca era da tempo
sospetta, e lo divenne anche quella tedesca; nello stesso tempo si
intensificarono i controlli interni, le «verifiche» dei membri dei partiti
«fratelli» e dell’apparato del Comintern. La crescente preoccupazione per la
«porosità» dei confini si può intendere anche dall’ampliamento dello status speciale
delle aree frontaliere nelle quali la polizia aveva carta bianca: nel 1923
queste erano organizzate per fasce di 4 metri, 500 metri, 7,5 e 16 chilometri,
per complessivi 22 chilometri; nel 1929 vennero ampliate fino a includere non
solo i raiony (distretti) di confine
ma quelli ad essi adiacenti; nel 1934 vennero create le «zone proibite» di 7,5
chilometri nelle quali nessuno poteva entrare senza permesso del Nkvd; nel 1937
il regime venne esteso ai confini dell’Iran e dell’Afghanistan. La «pulizia etnica»
era obiettivamente nella logica della «chiusura» dei confini, e fu facilitata
dall’introduzione dei passaporti interni per gli abitanti delle zone urbane e i
membri dei sovchoz nel 1932-1933.
Nel 1935-1936 i distretti alla frontiera tra
Ucraina e la Polonia vennero ripuliti di almeno 23 mila famiglie di origine
polacca e tedesca, deportate in Kazachistan, e stessa sorte toccò a 30 mila
cittadini d’origine finlandese nell’area di Leningrado.
Il primo ordine con un contenuto «nazionale»
durante il Grande terrore, 24 luglio 1937, fu quello circa l’epurazione degli
addetti ad acquedotti, stazioni
batteriologiche, istituti e laboratori di ricerca microbiologica, che ordinava
di arrestare immediatamente gli stranieri e i cittadini sovietici di origine
straniera o con contatti con l’estero. Il giorno successivo Ežov emanò l’ordine
n. 00493 concernente spie e sabotatori tedeschi e al servizio della Germania. Il
9 agosto l’Ufficio politico confermò la disposizione «Sulla liquidazione dei
gruppi spionistici e diversivi polacchi e delle strutture della Pow», cui il
giorno 11 fece seguito l’ordine operativo n. 00485 (28), accompagnato da una lunga
lettera segreta di Ežov (trenta pagine) riguardo
«attività fasciste, deviazionistiche, disfattiste, terroristiche, di sabotaggio
e spionaggio, condotte dai servizi d’informazione polacchi in Urss». Il 21 agosto venne firmato l’ordine di deportazione
per 135 mila coreani (ma a ottobre erano già stati deportati in 170 mila); il
22 ottobre l’ordine 00698 ordinò l’arresto, nel quadro delle «operazioni
nazionali», di tutti coloro che avessero avuto un qualche contatto, anche
epistolare, con consolati e ambasciate; il giorno seguente l’ordine n. 00693, «Sulla repressione degli immigrati che hanno varcato legalmente o
illegalmente la frontiera dello Stato sovietico», permetteva di estendere
l’azione repressiva a qualsiasi immigrato. Con questa sequela di ordini
l’essere non-russo o straniero o aver contatti con le rappresentanze estere
divenivano motivi di sospetto e d’arresto.
A quelle
citate occorre aggiungere le «operazioni nazionali» contro finlandesi, lettoni,
estoni, greci, bulgari, rumeni, macedoni, cinesi, giapponesi, curdi, iraniani,
afghani. Non tutti gli arrestati in queste operazioni appartenevano realmente
alle nazionalità perseguite.
Gli arresti durante le diverse «operazioni nazionali» ammontarono a 1/5
del totale di quelli effettuati durante il Grande terrore; nello stesso periodo
1937-1938 le esecuzioni conseguenti dall’ordine 00447 furono 386.798, il 54%
del totale, quelle nel quadro «operazioni nazionali» 247.157, il 36%. Ma se si guarda al rapporto tra arresti ed esecuzioni risalta
evidentemente la particolare letalità delle «operazioni nazionali», eccezionale
anche per quel periodo terribile. Il rapporto complessivo tra arresti ed
esecuzioni per il Grande terrore è del 19%; per l’«operazione kulak» è del 49%
ma per l’insieme delle «operazioni nazionali» è del 73,7%. Le percentuali dei
condannati a morte, in «prima categoria» sul totale dei condannati sono: il 79%
per l’«operazione polacca» (111 mila su 140 mila); il 76% per l’«operazione
tedesca» (42 mila su 55 mila); il 65% per l’«operazione di Čarbin» (21.200 su
33 mila; erano gli ex dipendenti della compagnia
ferroviaria della Cina orientale, con sede a Čarbin). Al 10 settembre 1938 (quindi quando ancora
mancavano due mesi alla fine della ežovščina) il rapporto
giustiziati/condannati era dell’84% per l’«operazione
greca» (9.450 su 11.261), 81,5% per l’«operazione finlandese» (5.724 su 7.023),
82% per l’«operazione estone» (4.672 su 5.680), 64% per l’«operazione romena»
(4.021 su 6.292).
Se si guarda al rapporto tra condannati e popolazione, allora la regione
più colpita fu la Carelia, con un rapporto pari al 2,8% (14 mila su mezzo
milione). Fattori determinanti il sinistro record furono l’essere la Carelia
regione di frontiera con la Finlandia e pure ospitante una consistente
popolazione di detunuti. Qui scomparve un quarto della comunità finnica (40%
dei condannati); quasi un quarto dei condannati vennero liquidati nell’«azione
speciale» di «pulizia» dei campi, interna all’ordine 00447. Al secondo posto e
per le stesse ragioni figura la Siberia (29).
L’operazione polacca non fu solo la più ampia tra le «operazioni
nazionali» e tra le più letali delle operazioni condotte nel Grande terrore. L’ordine 00485 fu il modello organizzativo per le altre «operazioni nazionali».
Le tipologie soggette ad arresto immediato erano le seguenti:
«a) i membri attivi dell’Organizzazione militare polacca smascherati in
sede istruttoria, ma non ancora presi;
b) tutti i prigionieri di guerra dell’esercito polacco rimasti in Urss;
c) tutti gli emigrati polacchi in Urss;
d) tutti gli emigrati politici polacchi in Urss;
e) tutti i vecchi membri del Partito socialista polacco e dei vecchi
partiti politici polacchi antisovietici;
f) i più attivi elementi antisovietici e nazionalisti dei distretti
polacchi dell’Urss» (30).
L’Organizzazione militare polacca di cui al punto a) nel 1937 aveva
cessato d’esistere da tempo.
La tipologia b) venne poi ampliata fino a comprendere, come poi accadrà
dopo la Seconda guerra mondiale, anche i prigionieri di guerra sovietici
rimpatriati dalla Polonia.
Perché la repressione colpisse a livello di massa era già sufficiente
la tipologia c).
Nell’ordine si rilevava che «numerosi contingenti di spie e sabotatori
polacchi sono perfino sfuggiti a ogni tipo di schedatura (sui 15 mila emigrati
politici venuti dalla Polonia in Urss, appena 9000 sono stati oggetto di
schedatura). In Siberia occidentale solo 1000 dei 5000 emigrati sono stati
debitamente schedati»(corsivo mio). Fatto a quanto mi risulta unico nella Terza
internazionale, il Partito comunista polacco era nato non da una scissione ma
dalla fusione del partito di Rosa Luxemburg, il Sdkpil, con la sinistra
del Partito socialista polacco. Benché non nominati, molti membri del Partito
comunista polacco erano già automaticamente coinvolti, come gruppo, dalla
tipologia e), oltre che dalla d).
La tipologia f), concernente «i più attivi elementi antisovietici e
nazionalisti dei distretti polacchi dell’Urss», aveva un significato sociale e
politico molto più ampio di quanto possa sembrare a prima vista. Come si vedrà
nel paragrafo seguente, nel 1930 i distretti dell’Ucraina e della Bielorussia
sovietiche confinanti con la Polonia erano stati protagonisti di numerose
proteste contadine e anche di rivolte (assai male) armate. Si trattava ora di completare
la «pulizia» in quei distretti e tra i deportati.
Un telegramma a Ežov da parte del capo del Nkvd della Siberia occidentale, in
data 13 settembre 1937, indicava queste tipologie di arrestati nel corso
dell’esecuzione locale dell’ordine operativo n. 00485: totale di 1490
individui, di cui 944 emigrati polacchi, 30 ex prigionieri di guerra polacchi,
30 emigrati politici, 471 membri del Partito socialista polacco e altri
«controrivoluzionari». Si comunicava anche che 144 degli arrestati lavoravano
in «aziende militari», 22 «sulle vie di comunicazione», 368 in «aziende militari»
(di nuovo), 6 nell’Armata rossa, 954 nell’agricoltura e nell’amministrazione.
Anche in questo caso gli elementi di prova erano confessioni (31).
Dalle categorie fatte oggetto di repressione indicate nell’ordine
modello dell’«operazione polacca» è evidente la dimensione strategica delle
«operazioni nazionali». Non si trattava di categorie sociali ma politiche; non
si trattava di eliminare gli «elementi socialmente pericolosi» e «criminali» o
«controrivoluzionari» che costituivano una potenziale minaccia essenzialmente
sul piano del controllo sociale e politico interno, ma di liquidare
soggetti per definizione «alieni» in quanto appartenenti o riconducibili
all’ambiente di nazionalità non-russe comuni con gli Stati confinanti e per
questo presunti membri di una «quinta colonna» nemica. Con le «operazioni
nazionali» l’equazione «trotskisti uguale agenti al servizio dello straniero»
venne estesa di fatto alla dimensione di massa della nazionalità.
A differenza dell’ordine n. 00447, l’ordine
00485 per l’«operazione polacca» e gli altri su essa ricalcati non
contemplavano l’indicazione di quote, il cui senso era di costituire limiti (limity) di carattere orientativo (orientirovochnije), con valore di tetto
massimo al fine, non conseguito, di tenere sotto controllo centrale la
repressione. La procedura richiedeva la
compilazione di schede dattiloscritte contenenti succinte note personali degli
arrestati, materiali istruttori, e l’attribuzione in prima o seconda categoria
decisa da una coppia costituita dal capo del Nkvd e dal procuratore della
repubblica o della regione, una dvojka invece che l’usuale trojka;
le schede venivano poi raccolte in grossi quaderni, gli «album», inviati a Mosca
per la firma da parte del commissario del popolo agli interni dell’Urss (Ežov) e dal procuratore generale (Andrej Vyšinskij): il che avveniva, come nel caso delle trojki, in modo del tutto meccanico, per
liste di centinaia e centinaia di nomi. Ma anche così gli «album» si accumulavano e si rese necessario un
cambiamento della procedura: il 15 settembre 1938 le dvojki vennero
sostituite da trojki dette «speciali» che condannavano senza conferma da
Mosca. A quella data l’«operazione polacca» era già stata estesa più volte nel
tempo: stando al primo ordine doveva essere portata a termine entro il 20
novembre 1937, ma nei primi giorni del mese venne estesa al 10 dicembre; poi fu
prolungata fino al 1 gennaio 1938, ma il 31 l’Ufficio politico prolungò ancora
l’insieme delle «operazioni nazionali» fino al 15 aprile, estendendole a
macedoni e bulgari. Il 26 aprile una nuova proroga estese le stesse operazioni
al 1 agosto, includendovi gli afghani.
5. Il Grande
terrore e la «febbre» delle rivolte contadine del 1930, in particolare nei
distretti della frontiera con la Polonia.
Non ritengo sia possibile comprendere le ragioni delle grandi
operazioni di massa, sia «kulak» sia delle «linee nazionali», prescindendo
dagli effetti e dai problemi determinati dalla collettivizzazione forzata dei
primi anni Trenta.
Non si trattava solo di problemi economici. Nonostante l’ampiezza e la
durezza della repressione, le deportazioni di massa e le esecuzioni dei primi
anni Trenta, nella seconda metà del decennio era ancora vivo il ricordo della
resistenza attiva, anche violenta, che centinaia di migliaia di contadini e
centinaia di comunità contadine avevano opposto negli anni tra il 1928 e il
1930 alle requisizioni di grano, alla dekulakizzazione, alla collettivizzazione
forzata, alla chiusura di chiese e, nei termini più generali, all’«invasione»
dello Stato nella vita quotidiana e sociale dei villaggi. Il culmine della
rivolta contadina fu la «febbre di marzo» del 1930. Quella fu una vera e
propria esplosione della lotta della classe contadina contro l’azione
«colonizzatrice» da parte dello Stato, la più importante dopo la rivoluzione e
la guerra civile. Dopo la «febbre» del 1930 e fino alla sua dissoluzione, in
Unione Sovietica non si verificarono mai più fenomeni così ampi e aperti di
lotta di classe. Si deve concordare con Graziosi che i fatti degli anni 1918-1922
e 1929-1933 costituirono «la più grande guerra contadina europea del secolo»
(32), e aggiungo: fu anche l’ultima
di una lunga storia di guerre contadine nel senso stretto del termine
(altrimenti si dovrebbe aggiungere la lotta contadina in Spagna, anch’essa
soffocata dallo stalinismo, che così condannò la rivoluzione spagnola).
La resistenza contadina fu, nell’immediato, un problema politico e
sociale d’ordine interno. Ma nelle Repubbliche
sovietiche poste sui confini, specialmente in quelle sul confine
occidentale, l’Ucraina e la Bielorussia, la lotta contadina aveva anche una
dimensione strategica, a cavaliere tra politica interna e politica
internazionale, tra consolidamento del dominio burocratico interno e difesa di
questo stesso dominio dalla minaccia esterna. Nella seconda metà degli anni
Trenta questa dimensione strategica divenne sempre più importante, fino a
esplodere nelle «operazioni nazionali», persecuzione di nazionalità considerate
potenziali «quinte colonne» dello straniero.
Poiché la lotta contadina contro la collettivizzazione forzata è stata
a lungo ignorata o trascurata nella letteratura storica, è opportuno fornire
alcuni dettagli. La fonte che utilizzo è il libro di Lynne
Viola, Peasants rebels under Stalin.
Collectivization and the culture of peasant resistance, pubblicato nel 1996
e tradotto in italiano nel 2000.
Si tenga presente che al momento della «crisi delle forbici» e
dell’inizio della collettivizzazione forzata la struttura sociale dei villaggi
sovietici era molto più egualitaria di quanto fosse prima della rivoluzione e
che la definizione di «kulak» impiegata dalle autorità era molto soggettiva. La
categoria non faceva riferimento solo a una generica posizione sociale ma
comprendeva anche soggetti individuati dalla posizione politica e ideologica
che era loro automaticamente imputata: preti, ex guardie bianche, ex banditi,
membri dei consigli ecclesiastici e chiunque «manifesti attività
controrivoluzionarie». Venne addirittura coniato il termine podkulačnik per indicare tutti coloro,
anche contadini poveri, che fossero «sotto il kulak», ovvero presentassero una
«mentalità kulak». In altri termini, la «liquidazione dei kulaki come classe»
non fu solo una violenta operazione di ristrutturazione sociale ma anche un
massiccio intervento di controllo sociale e di repressione politica nei
confronti di tutti i contadini che si
opponevano all’iniziativa dall’alto. Questa è una delle ragioni per cui un
fenomeno di massa come quello della migrazione volontaria di «ex kulak» non è
da sottovalutare nella spiegazione del Grande terrore: «ex kulak» e podkulačniki migrati continuavano ad
essere sentiti dalla casta staliniana come potenziali nemici. A questi si
aggiungevano gli «ex kulak» che si sottraevano alla deportazione («confinati
speciali»): altre centinaia di migliaia, secondo dati di Werth 200-300 mila nel
1930-1931, 630 mila nel periodo 1932-1939 (33). Questi ex kulaki divennero
l’«archetipo del “nemico”».
La lotta contadina alla «liquidazione dei kulaki» e alla
collettivizzazione assunse molte forme. Una di queste era
l’«auto-dekulakizzazione», ovvero la vendita o l’abbattimento del bestiame da
parte dei presunti kulaki, a cui poteva seguire il trasferimento volontario in
città o in altre aree. Ma le reazioni alla collettivizzazione forzata non
furono solo individuali e passive. Esse furono anche collettive e politiche,
disponendosi su una vasta gamma di modalità che andavano dal disturbo, solo
apparentemente apolitico, delle riunioni convocate dai funzionari venuti dalle
città (rumori, ubriachezza vera o finta) alle contestazioni verbali aperte,
fino alle marce di protesta, all’aggressione fisica, all’omicidio,
all’incendio, alla rivolta armata. I contadini potevano ritorcere contro
l’avversario lo stereotipo del nekulturny
mužik, del contadino ignorante, analfabeta, gretto e stupido,
ma anche scrivere volantini, solidarizzare con i vicini, insorgere dando vita a
fuochi di rivolta che si estendevano su interi distretti. Attivissime erano le
donne.
Le statistiche dell’Ogpu mostrano un’impressionante procedere dei
«disordini di massa» (massovye
vystuplenija) sull’intero territorio sovietico: da 709 nel 1928 a 1.307 nel 1.929 a 13.754 nel 1930.
Nel marzo 1930, culmine delle rivolte contadine, i «disordini di massa» furono
6.528, protraendosi ancora molto numerosi fino a luglio, restando frequenti per
il resto dell’anno (34). Il numero dei partecipanti andò crescendo con analoga
veloce progressione, dai 244 mila del 1929 ai 2.468.625 del 1930, ma per soli
10.071 incidenti su un totale più grande (35). Nel solo marzo 1930 i contadini
sovietici in rivolta erano 1.434.588, quasi sette volte più numerosi che nel
mese precedente (con la limitazione già indicata).
Cause prevalenti scatenanti i disordini del 1929 furono le
requisizioni del raccolto e la chiusura delle chiese, centri di riferimento
morale e sociale dei villaggi (rispettivamente per il 30% e il 25% dei
disordini); nel 1930 fu invece nettamente prevalente la lotta contro la
colletivizzazione forzata (70% dei casi), seguita dalle lotte contro la
dekulakizzazione, la chiusura di chiese e la carenza di cibo.
Altrettanto notevole fu la progressione della violenza contadina in
reazione alla violenza statale. I fatti di terrorismo, omicidio, aggressione e
tentato omicidio, incendio, furono 339 nel 1924 e 902 nel 1925, anno di picco
fino al 1928; tra gennaio 1924 e settembre 1927 se ne contarono 2.532
sull’intero territorio sovietico. Nel 1928 salirono a 1.027, nel 1929 balzarono
a 9.093 e nel 1930 a
13.794, con un massimo nei mesi di marzo e aprile (36). Nel 1930 gli omicidi
furono 1.198, le aggressioni e i tentati omicidi 5.720, gli incendi, il «gallo
rosso», 6.324. Su funzionari statali e attivisti di partito gravava l’incubo
del contro-terrore contadino, nella forma tradizionale del samosud, il linciaggio, o del solitario colpo di fucile
nell’attraversamento del bosco. D’altra parte, con il progredire della violenza
statale, l’estendersi delle deportazioni e la pressione a requisire anche il
grano necessario alla semina, non solo il fronte contadino si consolidava al di
là delle differenze di condizione sociale effettiva, ma non furono pochi gli
attivisti locali che presero le parti del villaggio.
I dati ufficiali della Ogpu circa la caratterizazione delle proteste
contadine vanno considerati con prudenza; ciò vale, in particolare, per la
definizione sociale attribuita ai singoli «terroristi» contadini identificati.
Stando ai dati ufficiali del 1930, questi ultimi erano per la metà kulaki (su
oltre 13 mila), circa il 20% era classificato tra i contadini medi, il 6% tra i
contadini poveri, il resto erano byvšije kiudi (gente del
passato), elementi antisovietici e criminali (37); ma, a parte le
precedenti considerazioni sull’arbitrarietà dell’attribuzione sociale da parte
del Nkvd, il regime aveva tutto l’interesse nel dipingere i «terroristi» come «kulaki»
e nel minimizzare il coinvolgimento dei contadini poveri (38). Dalle
statistiche i contadini medi e poveri risultano essere stati particolarmente
attivi come «terroristi» in Ucraina, Bielorussia, il Caucaso settentrionale, la
Crimea, la regione di Mosca.
Il quadro complessivo emergente dai dati del 1930 per l’intero
territorio sovietico è dunque quello di un’estesa resistenza contadina alla
collettivizzazione forzata, di scoppi di jacqueries
non coordinati nazionalmente ma, in taluni casi, capaci di estendersi su vari
distretti e di assumere carattere di vera e propria insurrezione. Le rivolte
coinvolgevano l’intera comunità di villaggio a prescindere dalla condizione
sociale prerivoluzionaria e dalle ineguaglianze reali esistenti. La
collettivizzazione non fu un momento di lotta di classe interno al mondo rurale
tra contadini, tra poveri e ricchi, tanto che il culmine della rivolta si
verificò quando già moltissimi contadini si erano «autodekulakizzati».
Nelle zone con una più lunga tradizione di ribellione e che già
durante la rivoluzione e la guerra civile avevano visto movimenti contadini, la
protesta contadina assunse dimensioni più ampie, collettive e insurrezionali
(39); si trattò, però, di un fenomeno ampiamente spontaneo, nel quale i
«politici» nel senso stretto (ex guardie bianche, menscevichi e
socialisti-rivoluzionari) svolsero un ruolo assai limitato.
Insieme alla tradizione storica e alle più recenti esperienze di lotta
nella rivoluzione e nella guerra civile, le differenze geografiche
nell’ampiezza e radicalità delle rivolte si spiegano anche con il peso delle
diverse regioni nella produzione cerealicola sovietica, che determinò i ritmi
progettati delle requisizioni di grano e della collettivizzazione, e con la
presenza di significative minoranze nazionali: si trattava di fattori che si
rafforzavano a vicenda per dare origine ad ampie reazioni di protesta. Questi
fattori sono direttamente pertinenti per la comprensione della «questione
polacca» dentro il Grande terrore sovietico.
Con 4098 «disordini», pari a un terzo del totale ufficiale, nel 1930
l’Ucraina figurava di gran lunga come la zona più turbolenta. La stima
dell’Ogpu, relativa a tre quarti dei disordini ucraini, è di un milione di
partecipanti, con una media di 298 soggetti per disordine: il che testimonia il
carattere comunitario della protesta (questa media è inferiore solo a quella
delle Terre nere, importantissima regione produttrice di grano, dove il dato è
di 316 individui).
Nello stesso anno, gli episodi di «terrorismo» furono in Ucraina
2.779, il 20% del totale, di cui 176 gli omicidi e 708 i tentati omicidi e le
aggressioni. Anche il «gallo rosso» dell’incendio doloso si fece sentire in
Ucraina più che altrove, con circa 1/3 degli oltre 6 mila casi registrati nel
solo 1930.
Duramente colpiti furono i distretti alla frontiera con la Polonia e
la Romania. In una riunione ristretta del 24 marzo nel
distretto di Herson, Sergo Ordžonikidze
affermò che senza la recentissima «ritirata» nei tempi della collettivizzazione
l’insurrezione contadina ai confini con la Polonia avrebbe potuto aprire la
strada all’intervento straniero.
6. La dimensione strategica delle «operazioni nazionali».
Il timore espresso da Ordžonikidze nel marzo 1930 spinge verso la considerazione della
dimensione strategica delle «operazioni nazionali» del 1937-1938 e della correlazione tra
aspetti interni e internazionali della politica sovietica delle
nazionalità.
La Russia rivoluzionaria decretò
l’indipendenza delle nazionalità oppresse nel caduto Impero zarista. Certo, si
trattò anche (ma niente affatto solo
di questo) del riconoscimento della situazione di fatto determinatasi nel corso
delle vicende belliche e della quasi impotenza della rivoluzione sul piano
militare, a guerra mondiale ancora in corso e nell’immediato dopoguerra;
certamente la guerra civile e l’aggressione esterna portarono ad atti in
contrasto con quel principio; e la prima azione propriamente «stalinista» di
Stalin in qualità di Commissario per le nazionalità, Lenin malato ma ancora
vivo (quella contro Stalin fu la sua «ultima battaglia»), fu in rapporto alla
Georgia (40). Nondimeno, l’attuazione del principio di autodeterminazione
nazionale non fu un «machiavellico» espediente tattico: al contrario, fu
proprio questo il campo nel quale il
bolscevismo rimase fedele a se stesso e alle sue promesse, nonostante non fosse
un mistero che l’autodeterminazione avrebbe potuto portare alla formazione di
nuovi e assolutamente nuovi Stati borghesi, in contrasto con gli interessi
strategici immediati della Repubblica sovietica. Lo stesso principio di
autodeterminazione nazionale proiettava la rivoluzione sulla scena mondiale:
esso spingeva alla ribellione i popoli sottoposti a dominio coloniale, facendo
della repubblica dei soviet un esempio e un sicuro alleato; esso fu essenziale
per l’estensione dell’Internazionale comunista.
Ciò fu vero fino a quando Lenin non fu
paralizzato dalla malattia. Da quel momento la politica sovietica delle
nazionalità si fece sempre più contraddittoria, finché negli anni Trenta si
rovesciò nei fatti, benché non nei proclami, in una politica
antinazionalitaria. Secondo Terry Martin nella storia sovietica si sviluppò un
paradosso: da una parte, la volontà di costruire un grande Stato
multinazionale, nel quale tutte le nazionalità potessero conservare la propria
identità e insediarsi in ambiti territoriali determinati; dall’altra, una
particolare forma sovietica di xenofobia, non etnica ma politico-ideologica,
che in ultimo portò a perseguire distruttivamente determinate nazionalità.
Già nel corso degli anni Venti si può
individuare una contraddizione: allora la formazione di una moltitudine di
entità nazionali a tutti i livelli (dalle repubbliche ai distretti fino alle
cittadine) portò, in alcuni casi, allo spostamento di gruppi etnici dalla sede
originaria al fine di concentrarli territorialmente. Concepita come
applicazione del principio dell’autodeterminazione e della libertà delle
nazionalità, nei casi in cui la nazionalità re-insediata venne percepita dagli
autoctoni come privilegiata, questa politica alimentò i contrasti interetnici.
A proposito di questo effetto non voluto dell’applicazione dall’alto e con una
sorta di «eccesso di zelo» del principio di autodeterminazione, è utile
ricordare gli avvertimenti di metodo Rosa Luxemburg (41).
Il principio di autodeterminazione nazionale
rimase una bandiera sovietica agitata nei confronti degli Stati vicini anche
quando tutt’altra era la realtà. Si ricordi, ad esempio, che l’invasione e la
spartizione della Polonia, in alleanza di fatto con la Germania nazista, venne
giustificata nel 1939 con la pretesa di proteggere le minoranze ucraina e
bielorussa nello Stato polacco a causa della «disintegrazione» di quest’ultimo,
peraltro conseguente al patto poco prima stipulato tra Ribbentrop e Molotov per
conto dei loro capi.
L’esistenza delle Repubbliche nazionali
sovietiche era considerata un esempio suscettibile di incitare l’agitazione tra
le minoranze nazionali presenti negli Stati confinanti. All’accerchiamento
imperialistico si rispondeva con un «controaccerchiamento» politico: le
Repubbliche nazionali di confine erano una sorta di «vetrina» del sistema
sovietico e le nazionalità disposte sui due lati dei confini agenti potenziali
della rivoluzione e dell’agitazione a favore dell’Urss.
Sotto gli aspetti dell’effetto dimostrativo,
da «vetrina», e di quello strategico-militare, la Repubblica più importante era
l’Ucraina, «bastione» sovietico occidentale confinante con la Polonia, la
Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Romania; la Bielorussia sovietica, confinante
con Polonia, Lituania e Estonia, copriva l’area nord-occidentale. I comunisti
ucraini ritennero che la loro repubblica potesse svolgere nei confronti del gruppo
nazionale ucraino oppresso in Polonia un ruolo di aggregazione nazionale
analogo a quello del Piemonte in Italia. Per quanto questa pretesa potesse
divenire fonte di problemi con le altre repubbliche sovietiche quando
pretendeva di svilupparsi anche nella loro direzione, il «principio Piemonte»
è, secondo Martin, utile per comprendere aspetti della politica sovietica delle
nazionalità negli anni Venti, in particolare sul confine occidentale e nei
confronti della Polonia.
Il «principio Piemonte» andò però in frantumi
nei primi anni Trenta. Con la collettivizzazione e le grandi deportazioni, da
Repubblica «vetrina» l’Ucraina si convertì in area da cui estrarre «rifiuti» da
trasportare nelle zone «discarica», quali erano quelle di destinazione dei deportati,
o dentro la quale eliminarli. Se la terribile carestia del 1933 non fu voluta
da Stalin, certamente essa venne aggravata da decisioni politiche, tra queste
il divieto di emigrare dall’Ucraina e dal Caucaso settentrionale decretato
dall’Ufficio politico il 22 gennaio 1933: decreto che si può interpretare come
soluzione più «economica» della deportazione al fine di eliminare parte di quei
«rifiuti» umani che Stalin, nei giorni precedenti, ritenne dovessero essere
repressi (42), anche a causa delle pericolose implicazioni del nazionalismo
nelle aree di confine.
Ma l’Ucraina e la Bielorussia non furono solo
oggetto di repressione e di «pulizia
etnica».
Abbiamo visto come dall’inizio delle
requisizioni di grano in tutta l’Urss i contadini furono anche soggetti di proteste e di rivolte, al
punto da determinare una parziale retrocessione della collettivizzazione,
espressa nel noto articolo di Stalin «La vertigine del successo» del marzo
1930, il cui effetto non previsto dall’Infallibile fu di demoralizzare gli
attivisti e di dare più forza alla lotta contadina. I contadini dell’Ucraina
furono particolarmente attivi e determinati, i disordini ampi e spesso
violenti.
Le rivolte contadine sui confini e tra le
nazionalità non-russe erano percepite come qualcosa di più di una ribellione
contro il centro e il sistema sovietico. Da carta favorevole da giocare
positivamente verso l’esterno, il «principio Piemonte» si era rovesciato
nell’opposto: nel rischio che le rivolte potessero essere pretesto per
conflitti interstatali e che le nazionalità non-russe potessero fungere da
«quinta colonna» del nemico, da ambiente e canale per la penetrazione di spie e
sabotatori. Sul confine occidentale il pericolo principale veniva dalla
Polonia, confinante con l’Ucraina: e in questa Repubblica, specie vicino al
confine, vivevano oltre 400 mila dei 636 mila cittadini sovietici di origine
polacca.
I primi anni Trenta segnarono dunque una
svolta anche nella politica delle nazionalità.
Alla xenofobia politica si sovrappose la
xenofobia tout court nei confronti di
determinate nazionalità percepite come «aliene» all’ordine sovietico.
A partire dall’ordine 00485 per l’«operazione
polacca», le operazioni di «pulizia etnica» furono sempre più spesso utilizzate
dal regime staliniano. Complessivamente, sono state contate 130 operazioni di
deportazione eseguite tra il 1920 e il 1953, raggruppabili in «53 cosiddette operazioni globali o campagne di deportazione» (43). La
progressione sotto Stalin è impressionante: se ne contano 4 tra il 1920 e il 1924-25, 11 fino al 1940, 19 negli anni di
guerra 1941-45 e altre 19 dalla fine della guerra al 1953, la maggior parte
delle quali con carattere etnico o di «pulizia» dei confini.
La rottura con la lotta di Lenin allo
sciovinismo grande-russo e per la libertà dei popoli non poteva essere più
totale.
Note.
* La citazione iniziale
di Stalin, in esergo, è tratta da Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio
di massa. Urss 1937-1938, il Mulino, Bologna 2011, p. 95.
L’annotazione è riportata anche da Petrov e Jansen nella biografia
di Ežov, Stalin’s loyal
executioner. People’s commissar Nikolai Ezhov 1895–1940, Hoover Institution Press, Stanford
2002, p. 96, ma tradotta con qualche differenza: «Very good! Dig up and purge this Polish espionage mud in the future as
well. Destroy
it in the interest of the USSR».
1) Si veda Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, a cura di Ian Kershaw e Moshe Lewin, Editori Riuniti, Roma
2002.
2) Terry Martin, «The origins of Soviet ethnic cleansing»,
The Journal of Modern History, dicembre 1998, p. 856, n. 266.
3) Nikita
Petrov e
Marc Jansen, Stalin’s loyal executioner, cit., p. 99, che rimandano ad Archive of Moscow
Province FSB Directorate, Archival investigation case n. 52668.
4) Sull’epurazione del Comintern: Enemies within the gates? The Comintern and the Stalinist repression,
1934-1939, New Haven , London ,
2001, di William J. Chase; Lo stalinismo. Origini storia conseguenze,
Mondadori, Milano 1972, di Roy Medvedev; «Il Comintern e il terrore
staliniano» di Fridrick Firsov in Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti (a cura di), Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli, Milano 2004.
5) Nicolas Werth, Nemici del popolo.
Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938, Il Mulino, Bologna,
2011, p. 14.
6) Si veda a proposito di Peter H. Solomon jr., Soviet criminal justice under
Stalin, Cambridge University press, Cambridge 1996.
7) Sulla genesi del Grande terrore e specialmente per le
purghe dell’apparato politico e amministrativo: John Arch Getty, Origins of the great purges. The Soviet communist party
reconsidered, 1933-1938,
Cambridge university press, Cambridge 1987; e dello stesso con Oleg V. Naumov, Road to terror. Stalin and the self-destruction of the bolsheviks,
1932-1939, Yale University Press, New Haven
and London
1999.
8) David
R. Shearer, «Social disorder, mass repression, and the Nkvd during the 1930s», Cahiers du Monde russe, 42/2-3-4, aprile-dicembre 2001, pp. 505-34. Nella contabilità dei
detenuti dei lager le evasioni figuravano tra le voci relative alle «partenze».
Erano nell’ordine delle decine di migliaia: 83 mila nel 1934, 67 mila nel 1935,
58 mila nel 1936 e 1937; nel 1938 si ridussero a 32 mila e a 12 mila nel 1939.
Questi ultimi sono dati sinistri, che possono ricondursi alla marea di
esecuzioni nei lager durante il Grande terrore. Ovviamente, gli evasi arrestati
rientravano come «presenze» «da evasioni». Dati ripresi dal prospetto dell’Mvd
dell’Urss sul movimento dei detenuti nei lager dell’Nkvd dell’Urss (classificato
rigorosamente segreto), riportato in Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, Einaudi, Torino 2006, p. 335, di Oleg V. Chlevnjuk. Riferimento
nell’Archivio di Stato della Federazione russa: GARF f. R-9414, op. I, d. 1155, l . 1.
9)
Sheila Fitzpatrick, «Social parasites». How
tramps, idle youth, and busy entrepreneurs
impeded the Soviet march to Communism, Cahiers du monde
russe, vol.
47, 2006/1, p. 380.
10) Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938,
p. 49; il telegramma di Stalin è riportato e discusso anche in Getty e Naumov, Road to terror. Stalin and the self-destruction of the bolsheviks, 1932-1939, op. cit., documento n. 169, p. 470. Si trova nell’Archivio di Stato russo di storia sociale e politica
(RGASPI), f. 17, op. 162, d. 21,
l . 89.
11) Nikita Petrov e
Marc Jansen, Stalin’s loyal executioner. People’s commissar Nikolai Ezhov 1895–1940, pp. 107-108.
12) La prima menzione parziale
dell’ordine operativo n. 00447 fu in Trud
del 4 giugno 1992; l’ordine fu pubblicato integralmente nel 1996; altri
documenti sulle operazioni di massa furono pubblicati in Moskovskie novosti nel 1992. Qui utilizzo l’ordine integrale in
traduzione francese, riportato in Nicolas Werth, Les opérations de masse de la Grande Terreur en URSS,
1937-1938, Bulletin de l’IHTP n. 86, 2006, documento n. 13, pp. 45-52. L’originale è
nell’Archivio del Servizio di sicurezza federale (FSB).
13) Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938, cit., pp. 157 e 159.
14) Oleg V. Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, cit., pp. 187-188 e 332.
15) Ibidem, p. 351.
16) Nikita Petrov e
Marc Jansen, Stalin’s loyal executioner. People’s
commissar Nikolai Ezhov 1895–1940, op. cit., p. 105; Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938,
op. cit., p. 31.
17) Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit., pp. 27-8. In italiano si vedano
anche il classico di Robert Conquest, Il
Grande Terrore (1968), Mondadori, Milano 1970 e Rizzoli, Milano 1999 e il
dettagliato capitolo «L’assalto ai quadri del partito e dello Stato» in Lo stalinismo. Origini storia
conseguenze, cit., di Roy Medvedev.
Mi sembra giusto riportare
anche i dati del bilancio del primo Dipartimento del Nkvd degli
arresti e delle condanne tra il 1 ottobre 1936 e il luglio 1938. Tra gli
arresti per «colore politico» effettuati al di fuori delle «operazioni» si
riportano questi dati: trotskisti: 55.943; destri: 28.913;
socialisti-rivoluzionari: 25.814; anarchici: 838; altri (cadetti, monarchici
ecc.) 9.392; in Nicolas Werth, Les opérations de masse de la Grande Terreur en URSS,
1937-1938, cit. p.141, documento n. 95. L’originale è nell’Archivio del Servizio di sicurezza
federale (FSB).
18) John Arch Getty, «”Excesses are not
permitted": mass terror and Stalinist governance in the late 1930s», Russian Review, n. 1, 2002.
19) Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit., p. 52; Werth fa
riferimento alla p. 127 dell’articolo di Getty.
20) Ibidem, p. 56; il telegramma è discusso
in Getty, ibid., pp. 127-8.
21) Ibidem, p. 55.
22) John Arch
Getty, «”Excesses are not permitted"», cit., p. 136.
23) Oleg V. Chlevnjuk, Storia del
Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, cit.,
p. 167.
24) Nicolas Werth, Les opérations de masse, cit., p. 122 sgg.: Document 84, Extraits du rapport de N. Iejov
à Staline sur le déroulement de «l’opération polonaise», 14 septembre 1937.
Questa la sintesi all’inizio del rapporto: «Al 10 settembre, nell’Urss sono
stati arrestati 23.216 elementi sotto la linea polacca: re-emigrati (sic), ex
prigionieri di guerra, con relazioni consolari, e altri contingenti, tutti
sospettati di spionaggio e sabotaggio. La ripartizione geografica degli elementi
arrestati si presenta così: RSS Ucraina: 7.651 (1.138 hanno confessato);
Leningrado: 1.832 (673 hanno confessato); Mosca e la sua regione: 1.070 (216
hanno confessato); RSS Bielorussia: 4.124; Regione occidentale: 837; Siberia
occidentale: 1.325; ferrovie: 2.943».
Il rapporto conclude così: «Al 10 settembre 1937, 1.251
agenti polacchi sono già stati condannati a morte e fucilati».
25) Nicolas Werth, Nemici
del popolo, cit., p. 201.
26) Ibidem, p. 212.
Corsivi miei.
27) Terry
Martin, The affirmative action empire. Nations and nationalism in the Soviet
Union, 1923-1939, Cornell university press, Ithaca 2001, pp. 322-323. Si veda anche Andrea Graziosi,
«Collectivisation, révolte paysannes et politiques gouvernementales à travers
les rapports du Gpu d’Ukraine de février-mars 1930», Cahiers du Monde Russe n. 3, 1994.
28) L’ordine è riportato in Nicolas Werth, Nemici del
popolo, cit., pp. 88-90. Venne pubblicato su Moskovskije
novosti il 21 giugno 1992.
29) Dati da Nicolas
Werth, Nemici del popolo, cit. Per le
cifre delle «operazioni nazionali» al 10 settembre
1938, ibidem, p. 255.
Per due «linee» delle
«operazioni nazionali» Werth riporta anche altri dati parziali diversi da
quelli indicati: per la «linea romena», indica anche che tra l’ottobre 1937 e
l’agosto del 1938 fu giustiziato l’87% delle 7.810 «spie romene» condannate:
6.795 persone; e per la «linea finlandese» indica, pure al 10 settembre
1938, 5.880 condannati e 5.224 fucilati, cioè il 90% in «prima categoria», p.
272.
30) Ibidem, p. 89.
31) Nicolas Werth, Les opérations de masse, cit., documento n. 85,
pp. 125-6, riferimento Archivio del Presidente della Federazione russa (APRF),
3/58/254/193-195.
32) Andrea Graziosi, «Collectivisation, révolte…», cit.
33) Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit., p. 241.
34) Viola Lynne, Stalin e i ribelli contadini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, p. 245,
tabella 5-1.
35) Ibidem, p. 249 e tabella 5-4, p.
250.
36) Ibidem, tabella
4-1, p. 195.
37) Ibidem, tabella
4-8, p. 211.
38) Il contrasto tra la direzione
dell’apparato statistico-demografico (Direzione della contabilità dell’economia
nazionale, Cunhu) e l’Nkvd nel 1934-1936 e la purga a cui fu sottoposto il
primo meritano attenzione perché sintomatici di una contraddizione strutturale
del regime sovietico e, in particolare, staliniano: quella tra la volontà di
tutto controllare e amministrare e l’impossibilità di usare e di rendere
pubblici i dati reali. In definitiva si tratta dell’impossibilità di
un’autentica pianificazione in regime di dittatura burocratica perché questa
non può che essere nemica della verità e bisognosa di menzogna e di
autoinganno. Sull’argomento si veda Alain Blum, «À l'origine des purges de
1937», Cahiers du monde russe, vol.
39, nn. 1-2, 1998.
39) Sul punto delle precedenti esperienze di lotta
insiste in particolare Graziosi.
40) Si
veda Moshe Lewin, L'ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari, 1969.
41) Su questo rimando al mio «Rosa Luxemburg e la questione nazionale (sulla Polonia, 2)», utopiarossa.blogspot.it, 17 settembre 2011.
42) Così è per Michael
Ellman, «Stalin and the Soviet famine of 1932-33 revisited», Europe-Asia Studies, 59,
(4), 2007.
43) Lista in «Le
repressioni contro gli stranieri in Unione Sovietica: Grande Terrore, Gulag,
deportazioni», in Gulag. Storia e
memoria, cit., pp. 114-7.
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