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venerdì 20 gennaio 2012

L'«OPERAZIONE POLACCA» NEL QUADRO DEL GRANDE TERRORE DI STALIN, 1937-1938 (SULLA POLONIA, 3), di Michele Nobile

«Compagno Ežov. Questa sì che è una cosa ben fatta! Continuate a scavare, a ripulire e sradicare tutta questa porcheria polacca. Liquidatela completamente in nome degli interessi dell'Urss».
[I. Stalin, 14 settembre 1937 (in margine al rapporto sull'«operazione polacca» del Commissario del popolo agli Affari interni (Nkvd), Nikolaj Ežov)].

1. Il Grande terrore staliniano, un orrore multiforme.

Tra il luglio del 1937 e il novembre del 1938 ebbe luogo in Unione Sovietica una gigantesca e feroce serie di operazioni repressive nota come «Grande terrore» oppure ežovščina, dal nome del Commissario del popolo agli Affari interni (Nkvd) nel 1936-1938, Nikolaj Ežov. Con quasi 700 mila fucilati in 15 mesi, un ritmo di 1500-1600 esecuzioni giornaliere, le vittime immediate del Grande terrore staliniano furono di gran lunga più numerose di quelle del coevo terrorismo di Stato nazista almeno fino a quando, durante la guerra mondiale, quest’ultimo non diede inizio allo sterminio su scala industriale degli ebrei e di numerose altre categorie sociali e razziali considerate «inferiori» (1).

Per caratterizzare sinteticamente il Grande terrore sono stati proposti diversi termini, tra cui «genocidio» e «politicidio» ma, per una ragione o per l’altra, tutti risultano essere inadeguati. Se per il nazismo si può chiaramente identificare una politica genocida o sterministica su base razziale, l’immane orrore staliniano non si lascia racchiudere in un singolo termine che ne restituisca la complessità. Plasticamente esso potrebbe rappresentarsi come una bestia multiforme e dalle tante teste, alcune delle quali azzannano e divorano il proprio stesso corpo. Anche Ežov finì fucilato (nel 1940), come il predecessore Jagoda e il successore Berija, tutti a capo per alcuni periodi della macchina repressiva di Stalin.
Contesto sociale, cause e modalità del Grande terrore sovietico furono diversi dalle operazioni di sterminio nazista, ma dal punto di vista etico non è lecito fare graduatorie nell’ambito dell’orrore. Meno che mai ciò è accettabile da parte di chi pretende di liberare l’umanità dall’oppressione e dallo sfruttamento.
Per decenni l’attenzione sul Grande terrore si è concentrata sulle purghe politiche e sui processi-spettacolo moscoviti. Questi eventi notissimi erano però solo la cresta di una gigantesca ondata terroristica che investì tutta la società. Il Grande terrore fu un fenomeno multiforme e stratificato, nel quale confluirono epurazioni dell’élite politica e amministrativa sovietica, dell’apparato del Comintern, dei militanti e delle direzioni dei partiti «fratelli» ma anche e soprattutto una serie di «operazioni di massa» su scala molto più vasta che, in vario modo ma spesso letale, colpirono alcuni milioni di persone estranee alla nomenklatura. Tra le operazioni su vasta scala grande rilievo ebbero le «operazioni nazionali» contro alcuni gruppi etnici non-russi. Infatti, fu durante la ežovščina che la repressione staliniana iniziò a dirigersi massicciamente contro interi gruppi nazionali: bersagli, questi, destinati ad assumere crescente importanza quantitativa rispetto ai «trotskisti», ai «destri», ai «controrivoluzionari» e altre categorie definite in vaghi termini «sociali».
Con particolare durezza furono colpiti gli emigrati e gli esuli politici polacchi, e i comuni cittadini sovietici di origine polacca: complessivamente ne vennero fucilati centoundicimila (111.000), una frazione consistente della totalità delle vittime della ežovščina; è stato calcolato che nella regione (oblast) di Leningrado per un polacco le probabilità di essere ucciso erano 22 volte superiori a quelle di un non-polacco (2).

In questo oceano di sangue e di sofferenze confluì un rivolo: la liquidazione fisica dell’intero quadro dirigente del Partito comunista polacco (Kpp) e dei partiti comunisti dell’Ucraina occidentale (Kpzu) e della Bielorussia occidentale (Kpzb), allora regioni dello Stato polacco. Del Comitato centrale del Kpp vennero liquidati 46 membri e 24 candidati (3); ma le stime complessive della purga dei militanti della sezione polacca del Comintern oscillano tra alcune centinaia e circa 5 mila fucilati. Per dimensioni e qualità il caso del Kpp spicca come un esempio estremo delle montature e delle persecuzioni che colpirono i partiti «fratelli», compreso l’italiano, e lo stesso apparato centrale del Comintern (4).
Fatto unico nella storia del Comintern, l’annientamento dei quadri dei partiti polacchi fu coronato da un decreto di scioglimento, sicché in Polonia un’organizzazione agli ordini di Mosca (il Partito polacco dei lavoratori, Ppr) venne ricostituita solo nel 1941, dopo l’invasione nazista dell’Urss e dopo la spartizione della Polonia tra la Germania nazista e l’Unione sovietica staliniana. Ovviamente il nuovo partito avanzava insieme ai cannoni e ai fucili sovietici.
L’annientamento del Kpp e l’«operazione polacca» sulla base dell’ordine operativo n. 00485, concernente la «liquidazione totale delle reti spionistiche e terroristiche dell’Organizzazione militare polacca» (Pow, Polska Organizacja Wojskowa), emanato da Ežov l’11 agosto 1937, definiscono congiuntamente una «questione polacca» dentro il Grande terrore. Sue caratteristiche sono l’ampiezza e l’intensità della violenza esercitata sia sulla massa dei comuni cittadini di origine polacca sia sull’élite del comunismo polacco.
Il Grande terrore mal si presta a spiegazioni monocausali. In esso si intrecciavano e si confondevano motivazioni di politica interna e di politica estera, iniziativa centrale e spinte locali, volontà di controllo sociale ed economico, considerazioni strategiche e geopolitiche, ordini che pianificavano geograficamente le esecuzioni e caos amministrativo, paranoia dei capi, eccesso di zelo dei boia, credulità e sadismo.
In questo articolo mi propongo di disporre alcune tessere di un complesso puzzle, tracciando sommariamente la fisionomia del Grande terrore, il quadro d’insieme delle vittime, la caratterizzazione delle «operazioni nazionali» e in particolare della «linea polacca», e alcuni presupposti: le rivolte contadine in opposizione alla collettivizzazione, specie nelle aree di confine con la Polonia, il fallimento e quindi il rovesciamento della politica delle nazionalità. In un successivo articolo, in effetti continuazione di questo, saranno esposti alcuni aspetti della storia del Kpp rilevanti per comprenderne la distruzione, discusse le possibili spiegazioni della stessa, esaminate le stime circa la repressione che colpì la sezione polacca del Comintern.

2. Le oscillazioni del terrorismo di Stato e le tensioni non sciolte del regime staliniano.

La ežovščina (1936-1938) come vertice parossistico del terrorismo di Stato.

L’eliminazione sistematica dell’opposizione politica e il terrore di massa erano già tratti necessari del regime staliniano, ma quelli dell’ežovščina furono gli anni di massima intensità del terrorismo statale di massa, nei quali si concentrarono «quasi i tre quarti delle condanne a morte pronunciate tra la fine della guerra civile (1921) e la morte di Stalin (1953) da una giusrisdizione speciale dipendente dalla polizia politica o dai tribunali militari» (5).
Sia per le sue dimensioni che per la sua feroce qualità, l’ežovščina risalta quindi come un momento parossistico del terrorismo di Stato staliniano; tanto più quando si concordi sulla tesi che tra la fine del 1933 e la fine del 1936 (o ancora nei primi mesi del 1937) il regime aveva optato per una pratica più selettiva della repressione, da esercitarsi in modo regolarmente burocratico nell’ambito del sistema giudiziario piuttosto che con improvvisate campagne politiche di massa ed istituti extragiudiziari (6). Emblematica di questo corso più selettivo e regolato della repressione fu l’istituzione dell’ufficio della Procura generale sovietica (luglio 1933), con funzione di supervisione delle attività dei tribunali e delle polizie delle singole repubbliche, e del Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) pansovietico (febbraio 1934) in sostituzione dell’Ogpu. A differenza dell’Ogpu il Nkvd non poteva condannare a morte; ma al suo interno venne creato un «ufficio speciale», costituito da funzionari di polizia, con la possibilità di emettere, anche senza alcun confronto con l’imputato, pene non soggette ad appello fino a cinque anni di lavoro nei campi nei confronti di individui rientranti nella vaghissima fattispecie dei «socialmente pericolosi». In questo modo si istituzionalizzava un apparato repressivo extragiudiziario a fianco del sistema giudiziario (comunque soggetto a direttive politiche). Pur in una situazione di dittatura, nella quale non mancavano oscillazioni e segnali ambigui, si trattava di cambiamenti che andavano nella direzione di regolare l’esercizio della violenza, con l’effetto congiunturale di allentarne la pressione, e, specialmente, di rafforzarne il controllo diretto da parte del centro politico. Sottolineo che allentamento, istituzionalizzazione e normazione della repressione sono da intendersi in termini relativi, rispetto, cioè, ai primi anni Trenta; ad esempio, non si deve dimenticare che l’arcipelago dei lager stalinisti, l’«arcipelago Gulag» (dove Gulag sta per Direzione centrale dei lager dell’Ogpu-Nkvd dell’Urss), prese corpo proprio a causa delle deportazioni di massa di quegli anni [si rinvia a «Precisazioni sul Gulag», analisi di Roberto Massari del marzo 2010]. Dopo l’assassinio di Kirov nel 1934 si verificò un’impennata del terrore e, tanto per intendersi, nell’aprile 1935 il Politbjuro approvò una risoluzione che rendeva punibili con la pena di morte i fanciulli a partire dai 12 anni e istituiva colonie di lavoro anche per i minori (che «ospitavano» 38 mila ragazzi all’inizio del 1938); nell’agosto 1936 si svolse il primo dei grandi processi.
Detto questo, resta il fatto che la ežovščina fu una violentissima «inversione di marcia», fondata su «operazioni di massa» (massoperatsii) che superavano di gran lunga l’ambito della definitiva liquidazione dell’ex élite rivoluzionaria e degli oppositori che ancora sopravvivevano nel Gulag o di quelli che erano stati già spezzati; fu anche qualcosa di diverso dalle verifiche (proverki) o «ripuliture» (chistki) nel Partito intraprese nel 1935-1936. Il terrore tornò a investire direttamente grandi masse umane sull’intero teritorio sovietico, scalando altezze fino ad allora non raggiunte.

Le svolte violente e contraddittorie come espressione dell’instabilità e contraddittorietà del sistema.

Nell’epoca staliniana gli improvvisi rovesciamenti di linea politica furono così frequenti e così importanti da costituirne, a livello descrittivo, un tratto caratteristico. Si pensi al passaggio dalla Nep nella versione «contadini arricchitevi!», alla «liquidazione come classe» di quegli stessi contadini che si era voluto «arricchire» (i kulaki, veri o presunti). Non meno violente e apparentemente incoerenti furono le oscillazioni della diplomazia sovietica e della linea del Comintern: dalla ricerca di un’intesa col Governo britannico e dal sostegno al Kuomintang e alla borghesia «nazionale», all’«ultrasinistrismo» dei primi anni Trenta e alla tesi della socialdemocrazia come forma di fascismo, il cui frutto maturo fu la vittoria del nazismo in Germania; ma a questo fece seguito il lancio della politica del «fronte unito» o «fronte popolare» con i partiti socialdemocratici (considerati improvvisamente non più «socialfascisti») e con i partiti borghesi antifascisti; poi il nuovo rovesciamento di prospettiva, dalla politica di «sicurezza collettiva» per confinare (non annientare) il nazismo, all’alleanza di fatto con la Germania nazista dal 1939 al 1941 e alla quarta spartizione della Polonia; infine, il nuovo voltafaccia, indotto dall’invasione nazista nel giugno 1941, con il rilancio della collaborazione con i partiti borghesi e l’accordo con Gran Bretagna e Stati Uniti per la divisione dell’Europa in zone d’influenza (conferenze di Teheran e di Yalta, 1943 e 1944).

Gli zig-zag staliniani in politica interna e internazionale non erano solo l’indice e il risultato dell’assenza di una visione strategica, della mancanza di un’autentica e razionale pianificazione, dell’inesistenza di una teoria degna di questo nome e di un sistema di valori capaci di orientare la pratica. Ciò vale per tutte le svolte e le piroette staliniane: non è possibile salvare svolte «buone» perché apparentemente antifasciste e «democratiche» e condannare quelle settarie o la collaborazione col nazismo. Tutte rispondevano al medesimo fine: la ricerca delle migliori condizioni, interne e internazionali, per assicurare la permanenza al potere della casta burocratica «in un solo paese» (e per preservare la posizione del singolo despota Stalin). Tutte presupponevano la lotta contro qualsiasi autonomo movimento etnico o di classe.
Le contraddittorie oscillazioni e le violente svolte dello stalinismo vanno comprese sia nella loro dimensione soggettiva, volontaristica e intenzionale, sia come reazioni convulse a processi che sfuggivano al controllo della burocrazia, ad effetti non intenzionali e a problemi determinati dalle politiche fino a quel momento seguite e contraddistinte da un susseguirsi di clamorosi fallimenti.

In questa prospettiva si può dire che come la relativa moderazione del terrorismo di Stato aveva fatto seguito al caos prodotto dalla collettivizzazione forzata, dalle deportazioni di massa e dalla marea di fucilazioni nel corso della «liquidazione dei kulaki come classe», così la brutalità e l’ampiezza del Grande terrore erano espressioni della fondamentale instabilità politica e sociale del regime, sia nella sua ossatura di dominio, entro la quale ricade la questione del ruolo specifico dell’individualità e dell’assolutismo di Stalin, che nella base umana della società dominata.
Le «organizzazioni controrivoluzionarie», spionistiche o addirittura insurrezionali, erano frutto di fantasia o creazioni deliberate, strumentali alla repressione, e non esisteva una vera opposizione interna al regime; ma il potere personale di Stalin aveva comunque da temere il cristallizzarsi della nomenklatura in casta, la sua pressione per una gestione più «collegiale» del potere, il formarsi di potentati locali e settoriali in grado di contrattare da posizioni forti con il centro. Questo conflitto latente all’interno della burocrazia spiega l’avviarsi di un processo «purgativo» nell’élite, l’espandersi della repressione dai vecchi oppositori agli stessi quadri del Partito e dell’amministrazione che avevano sostenuto Stalin, l’indirizzo della ricerca del «nemico di classe» all’interno degli apparati di potere. Il processo di avvitò su se stesso in modo cannibalesco, destabilizzando ulteriormente il sistema, privandolo di soggettività capaci e competenti, fino a quando non venne interrotto con la stessa brutalità con la quale era stato iniziato (7). Il Grande terrore, d’altronde, creò quei vuoti entro i quali fecero carriera i quadri che dirigeranno l’Unione Sovietica dei decenni a venire, compresi Nikita Chruščëv e Leonid Brežnev.

Funzionamento e prestazioni degli apparati statali non rispondevano pienamente ai comandi e alle aspettative del centro staliniano a causa della loro stessa natura, ma anche e specialmente per l’inerzia e la resistenza opposta in basso, nelle viscere della società. La «rivoluzione» burocratica di Stalin» nei primissimi anni Trenta era stata tutt’altro che un processo pianificato secondo criteri di efficienza e sotto controllo «totalitario»: la dekulakizzazione violenta e la collettivizzazione forzata avevano prodotto penuria e carestia, disfunzioni, emarginazione, anomia. Per quanto le categorie statistiche degli organi repressivi debbano essere prese con le pinze, non è difficile credere che il trauma della collettivizzazione, le migrazioni e le fughe dai lager e dagli «insediamenti speciali», abbiano alimentato la crescita veloce di settori formati da «elementi socialmente pericolosi» in ambiente urbano (8). All’inizio del 1939 a Mosca si arrestavano per reati vari 30 mila persone al mese, di cui 300-400 perché senza lavoro o senza fissa dimora; nel 1939 il Gulag «ospitava» 300 mila prigionieri definiti «socialmente dannosi» o «socialmente pericolosi» (9).
La collettivizzazione aveva prodotto anche proteste e rivolte di massa, uccisioni di attivisti e funzionari, sabotaggi e incendi. L’Ucraina ai confini con la Polonia ne era stata particolarmente interessata. Nel momento in cui vennero lanciate le «operazioni di massa» le comunità di villaggio e le famiglie contadine cercavano ancora di «manovrare» a loro favore dentro i kolchoz, mentre le ferite delle deportazioni erano vive e ancora aleggiava il ricordo della «febbre» delle rivolte del marzo 1930. I timori erano ravvivati dalle vicine elezioni. Nella tesissima situazione europea, particolarmente temibile doveva apparire agli occhi della burocrazia la possibilità di rivolte contadine da parte di nazionalità non-russe poste sui confini.

3. Alcune caratteristiche delle «operazioni di massa» e dati sulle vittime del Grande terrore.

L’iniziativa, purghe dell’élite e «operazioni di massa».
Il comando che diede inizio alle «operazioni di massa» fu il seguente telegramma di Stalin, a nome del Comitato centrale, indirizzato a Ežov, ai segretari regionali e ai comitati territoriali, ai Comitati centrali dei partiti comunisti nazionali, in data 3 luglio 1937:

  «Si rileva che una gran parte degli ex kulaki e criminali, esiliati nelle regioni del Nord e della Siberia e poi rientrati, allo scadere della pena, nei loro domicili, sono i principali istigatori dei crimini antisovietici sia nei kolchoz e nei sovchoz, sia nei trasporti e in alcuni settori dell’industria.
  Il Comitato centrale propone a tutti i segretari di partito delle regioni e delle repubbliche, così come a tutti i responsabili regionali del Nkvd, di schedare tutti i kulaki e i criminali che hanno fatto ritorno, affinché quelli tra di loro che sono più ostili possano essere immediatamente arrestati e fucilati per effetto di una procedura amministrativa semplificata davanti a una trojka; gli altri, quelli meno attivi, ma nondimeno ostili, siano esiliati in regioni lontane del paese su ordine del Nkvd.
  Il Comitato centrale v’invita, entro cinque giorni, a proporgli la composizione delle trojki, il numero degli elementi da fucilare e di quelli da esiliare.
  Il segretario del Comitato centrale, I. Stalin (10).

Una prima osservazione a proposito di questo telegramma è che esso faceva seguito alla decisione presa nell’Ufficio politico il giorno precedente, lo stesso giorno nel quale la Pravda pubblicava il nuovo regolamento per le elezioni a scrutinio segreto. Che se ne condivida o meno la tesi di fondo sul carattere improvvisato (oltre che improvviso) del Grande terrore, per spiegare il momento esatto in cui esso venne lanciato è interessante l’osservazione di John Getty secondo cui si sarebbe realizzato una sorta di scambio tra Stalin e i dirigenti regionali.
Dal plenum del CC del 23 febbraio/4 marzo i dirigenti regionali del Partito avevano chiaramente manifestato preoccupazione per le regole delle nuove elezioni, previste dalla Costituzione del 1936, che concedevano il diritto di voto alle categorie che ne erano prive: il timore era proprio che ex kulaki, preti e altri elementi «controrivoluzionari» potessero infiltrarsi nelle istituzioni sovietiche. Ma secondo Getty, nello stesso momento in cui Stalin forzava i dirigenti locali a tenere le elezioni, li autorizzava anche a «liberarsi» degli ex kulaki e degli altri soggetti «socialmente pericolosi». Jansen e Petrov citano a conferma un passo del rapporto di Stalin al XVIII congresso del partito, marzo 1939, nel quale il successo delle elezioni del dicembre 1937 veniva ricondotto alla tempestività della repressione (11). Se queste osservazioni sono giuste, allora saremmo in presenza del perverso paradosso, coerente con le oscillazioni e le «correzioni» tipiche del periodo staliniano. La Costituzione del 1936, adottata in un momento in cui si corteggiavano le «democrazie» e propagandata come «la più democratica del mondo» (salvaguardando però anche formalmente il regime di partito unico), sarebbe stata materialmente delimitata attraverso lo sterminio fisico dei potenziali oppositori e di parte della loro base umana: «soluzione finale» al persistente problema degli «elementi antisovietici». Una seconda osservazione riguarda proprio l’oggetto della persecuzione: «i kulaki e i criminali che hanno fatto ritorno». Allora non si trattava più di attuare un violento intervento socioeconomico come negli anni della collettivizzazione, ma di «liquidare» nel senso fisico degli individui che, se pure economicamente «declassati», erano percepiti come ostili al regime. Ostilità forte nel ricordo della «febbre di marzo» del 1930, dell’esplodere delle proteste e delle rivolte contadine di cui si dice avanti. Il riferimento ai «criminali» rimanda agli acuti problemi di controllo sociale nelle città, anch’essi conseguenti dalla collettivizzazione e dalle migrazioni.
Infine, è da notare che le categorie individuate sono solo due e che si chiede agli «organi» locali di definire le quantità da fucilare (in prima categoria) e da esiliare (in seconda categoria, da 8 a 10 anni). Di questo occorre tener conto per comprendere l’interazione tra centro e periferia nell’estensione della repressione.

Per quel che concerne il rapporto tra purghe dell’élite e «operazioni di massa», si può dire che un primo segnale della tempesta imminente fu l’annuncio, dato dalla Pravda l’11 giugno, che il maresciallo Tuchačevskij e altri sette generali comandanti dell’Armata rossa erano stati arrestati per cospirazione e tradimento contro l’Unione Sovietica. A questo fece seguito il Plenum del Comitato centrale del 22-28 giugno durante il quale vennero denunciati diversi complotti. Durante l’ežovščina si svolsero importanti processi politici, montati come spettacoli d’impatto internazionale, come a gennaio 1937 contro il «centro parallelo antisovietico trotskista» (Radek, Pjatakov, ed altri 15 imputati) o a marzo 1938 contro la «deviazione di destra» (Bucharin, Rykov, Krestinskij, Jagoda, ed altri), con l’accompagnamento di decine e decine di altri «spettacolari» procedimenti giudiziari locali.
Con la «scoperta» di complotti nei più alti livelli del Partito e dello Stato, organi repressivi inclusi, nessuno poteva più considerarsi al sicuro: il sospetto si generalizzava, estendendosi dalla élite alle masse. Così Stalin rimediava all’insuccesso dell’attacco «populistico» portato nei mesi precedenti a quella parte della burocrazia che riteneva non fosse sufficientemente sotto controllo e che aspirava ad una dittatura «collegiale».
Il successo dell’epurazione staliniana dentro la casta dominante può spiegarsi a) con l’assenza di un nucleo che coagulasse l’aspirazione diffusa alla «normalizzazione» della dittatura, b) con la presunzione iniziale dei membri della stessa élite stalinista, a metà del 1937, di non poter essere liquidati come i tradizionali «nemici di classe» e i vecchi oppositori, c) successivamente col meccanismo dell’accettazione della condanna di altri nella speranza di salvare se stessi.

Dati sulle vittime.
Le ricerche archivistiche a partire dagli anni Novanta del secolo scorso (12) hanno gettato nuova luce sulle dimensioni del terrore, i suoi tempi, le procedure, le categorie delle vittime formalmente designate, numero e tipologia delle condanne inflitte. Come sempre accade quando la conoscenza si amplia la ricerca sul terrore non è affatto chiusa: nuove e più specifiche domande sorgono circa l’accertamento di fatti e di decisioni. Anche le interpretazioni sono messe alla prova e ridefinite. In sostanza, si tratta dell’alternativa tra la ežovščina intesa come realizzazione di una sorta di progetto voluto, premeditato e amministrato dal centro, oppure come congiuntura nella quale confluirono una serie di tensioni e contraddizioni che sfuggivano al controllo centrale, costretto a improvvisare un’azione violentissima nel tentativo di risolverle e di prevenire sviluppi futuri (in un contesto internazionale minaccioso), come processo nel quale gli «organi» e gli orientamenti politici locali giocarono volontariamente un ruolo attivo, non solo per servilismo nei confronti del centro moscovita. Una questione cruciale in questo dibattito è data dai dei motivi degli «eccessi» sulle quote autorizzate dal centro.

Sui numeri il consenso è generale: nel 1937-1938 gli organi del Nkvd arrestarono circa un milione e mezzo di persone, di cui oltre 1.300.000 furono condannate; a queste cifre si possono aggiungere «le 420-450 mila persone condannate a una pena che poteva arrivare a cinque anni di campo o relegazione inflitti dalle milicejskije trojki, giurisdizioni speciali della polizia ordinaria» (13). Secondo Oleg Chlevnjuk, negli stessi anni e considerando anche l’attività dei tribunali ordinari, «attraverso i diversi tribunali e organi extragiudiziari passarono, presumibilmente, circa tre milioni e mezzo di persone (molti dei condannati col beneficio della condizionale o ai lavori correzionali non venivano preventivamente arrestati)»; per il decennio 1930-1940 i condannati, compresi quelli a lavori correzionali o a pene condizionali senza carcerazione, sono stimati a circa 20 milioni (14).

Stando a dati ufficiali, le esecuzioni furono 681.692 o, sulla base di una stima più alta degli arresti, 752/741 mila. Questi conteggi non tengono conto dei morti in seguito a torture durante gli interrogatori e delle persone «scomparse» per denutrizione, malattia e maltrattamenti nei campi del Gulag o durante gli spostamenti verso i campi, nell’ordine di circa 200 mila nel 1937-1938. Infine, bisognerebbe conteggiare detenuti ed esiliati arrestati nel 1937-38 ma deceduti in prigionia negli anni seguenti. La stima complessiva dei detenuti morti nei lager, nei campi e nelle prigioni per gli anni dal 1930 al 1941, esclusi quelli morti nei trasferimenti, è di 500 mila persone. A questi si devono aggiungere i morti negli insediamenti speciali per i «kulaki», specposëlok, nell’ordine di 200 mila negli anni 1930-1931 e 389.521 nel periodo 1932-1940, secondo più precisi dati del Ogpu-Nkvd (sempre escludendo i decessi durante i trasferimenti e le fughe) (15). E anche queste sono stime e dati per difetto (ma che comunque stabiliscono degli ordini di grandezza).

Per quanto riguarda la purga della nomenklatura, le cifre relative agli anni della sola ežovščina, sono di 55.428 arresti di membri e candidati del Partito nel 1937 e di 61.457 nel 1938, un totale arrotondato di 117 mila, pari al 7-8% degli arresti complessivi (16). Queste, però, sono cifre relative alle sole condanne da parte del Collegio militare, attraverso il quale passava la maggior parte dei procedimenti contro membri del Partito, specialmente di quelli posti nelle posizioni più elevate; complessivamente, si stima che le esecuzioni di membri del Partito siano state 50-60 mila. All’inizio del 1939 erano in posizione da meno di un anno 293 su 333 segretari regionali, 26 mila su 33 mila funzionari della nomenklatura del Comitato centrale; degli incarichi di dirigente economico iscritti nell’elenco della nomenklatura del Comitato centrale, la metà era stata nominata da meno di due anni; nei ministeri degli esteri, commercio con l’estero, finanze, industria pesante, trasporti, agricoltura, industria leggera, era stato arrestato l’80-90% dei dirigenti (17).

Il processo decisionale: l’interazione tra centro e periferia e l’estensione delle categorie soggette a repressione.

I dettagli del processo decisionale relativi all’«operazione kulak» sono oggetto di discussione.
Una prima definizione delle quote da reprimere in prima e seconda categoria si ebbe nelle riunioni del 16-18 luglio a Mosca dei responsabili regionali del Nkvd (convocata dal telegramma di Frinovskij citato oltre). L’«operazione kulak» fu allargata a molte altre categorie ma per Getty le cifre, in particolare della prima categoria (condanna a morte), vennero ribassate relativamente alle proposte prima pervenute a Mosca per 40 regioni su 64. Il 30 luglio Ežov emanò l’ordine 00447 «sull’operazione di repressione degli ex kulaki, dei criminali e di altri elementi antisovietici». Le operazioni dovevano iniziare tra il 5 e il 15 agosto a seconda delle regioni e durare quattro mesi: durarono invece 15 mesi, fino al 17 novembre 1938. Getty nota che Mosca autorizzò in quei mesi la mostruosità di 236 mila esecuzioni ma che, in effetti, nell’ambito dell’«operazione kulak» vennero fucilate oltre 386 mila persone. Egli vede il rapporto tra centro e periferia in termini interattivi piuttosto che unilaterali, con le direzioni periferiche che avevano i propri motivi per reprimere e abbandonarsi a «eccessi» attuati autonomamente (18). Werth non è d’accordo con Getty sul punto che «i dirigenti regionali erano pronti a inviare cifre precise, perché sapevano già esattamente chi volevano reprimere» (19): che è un modo per contestarne l’interpretazione complessiva, in particolare sul ruolo attivo delle direzioni locali nel determinare l’escalation della repressione oltre le quote previste. Ma come già Getty, anche Werth cita il telegramma del 12 luglio di Frinovskij, vice commissario del Nkvd, ai responsabili regionali, che intimava al primo punto: «non cominciare l’operazione di repressione degli ex kulaki e criminali. Ripeto: non cominciare l’operazione» (20). L’interpretazione che Werth offre del telegramma non è diversa da quella di Getty:

«Stalin e la direzione centrale del Nkvd nutrivano un forte timore: vedere l’operazione prendere una direzione imprevista, sfuggire a ogni controllo, com’era in parte avvenuto al momento della dekulakizzazione, essendo stata lasciata agli attivisti locali una larghissima parte dell’iniziativa» (21).

Che è poi in parte quanto accadde, secondo Getty, e non perchè Stalin fosse un «terrorista riluttante». Che le «operazioni di massa» rassomiglino più a una sparatoria alla cieca sulla folla che a un fuoco ben controllato, «più a uno spasmo che a una politica, troppo imprecise e localmente arbitrarie nei loro bersagli per costituire un’operazione centralizzata d’ingegneria sociale» (22), non toglie nulla alla responsabilità personale di Stalin ma conferisce alla barbarie del Grande terrore un carattere più propriamente sistemico. È una valutazione che spinge a fare i conti anche con i tanti piccoli Stalin periferici. Quel che risalta è l’irrazionalità connaturata al dominio burocratico e il suo fallimento anche nei termini del controllo «totalitario».

Il modello «medievale» del Grande terrore: la figura del «tipo d’autore», la tortura, la delazione.

A proposito del terrorismo di Stato staliniano e del Grande terrore, l’espressione «condanna a morte» è fuorviante perché evoca un procedimento giudiziario. Ma della vita e della morte si decideva prescindendo dai requisiti minimi di civiltà giuridica e della pratica investigativa. Non c’erano presunzione d’innocenza dell’imputato, diritto alla difesa e contraddittorio, ricerca di prove e accertamento materiale di un reato. La procedura era modernamente «medievale», di tipo inquisitoriale, basata sulla figura del «tipo d’autore» che esula dal verificarsi di un atto reale da parte dell’individuo, che era invece perseguito per il suo inserimento arbitrario in categorie sociali e politiche qualificate come «controrivoluzionarie» o «socialmente pericolose», tra le quali ex prigionieri di guerra, determinate nazionalità, esperantisti, filatelici. Si poteva finire con una palllottola in testa o ai lavori forzati non per quel che si era, ma per quel che si era stato, byvšije, alla lettera «ex» cioè «persona del passato». Aver avuto rapporti con un consolato del paese d’origine poteva divenire prova certa d’essere una spia e un sabotatore. Anche l’essere «moglie di» fu motivo di condanna: in base all’ordine n. 00486 (15 agosto 1937) le mogli dei «traditori della patria» potevano essere sanzionate con 5 od 8 anni di lavoro nei lager e «i figli maggiori di 15 anni “socialmente pericolosi e capaci di compiere azioni antisovietiche” dovevano essere inviati nei lager, nelle colonie di lavoro correzionale o in orfanotrofi a regime speciale» (23). La persecuzione di membri del nucleo famigliare era comunque un risultato logico non solo della generalizzazione del sospetto e della spirale delle accuse, ma della presunzione di colpevolezza estesa a categorie sociali e nazionali.

Nel rapporto a Stalin del 14 settembre 1937 sugli sviluppi dell’«operazione polacca» si ripete un ritornello: Gačinskij, arrestato a Kharkov, ha fatto il nome di 19 complici; Poniatovskij e Smertčinskij, già dipendenti di uno zuccherificio, «hanno rivelato i nomi di numerosi complici»; a Kiev l’agente dello spionaggio polacco Fornolskij ha rivelato di essere alla testa di un gruppo di 11 persone operanti nello zuccherificio di Selivankovo; grazie alla confessione della spia Matsievskij «è stato possibile smantellare l’intera cellula dell’Organizzazione militare polacca a Jitomir»; Kulino-Kulinovskij, che rendeva conto al consolato polacco di Kiev, ha confessato; la spia Finshval’ di Odessa ha confessato dodici nomi; di nuovo a Kiev, Mizernik «ha fatto i nomi di sei agenti dello spionaggio polacco»; e così via, a lungo (24).
Non è difficile capire quale fosse l’accurata pratica investigativa dei cui risultati Stalin si rallegrava con Ežov: la tortura. Le spie designate confessavano quel che gli inquisitori volevano sentire, aggiungendo i nomi necessari a costituire un gruppo di spie e sabotatori che confermasse le aspettative del centro e consentisse di liberarsi di personaggi localmente scomodi.
Nella risoluzione del Consiglio dei commissari del popolo dell’Urss e del Cc del 17 novembre 1938, che pose fine a «qualsivoglia operazione di massa» e quindi al Grande terrore, si legge, tra l’altro, che:

«un altro errore molto importante nel lavoro degli organi del Nkvd è l’abitudine presa dagli agenti di condurre un’inchiesta semplificata, nel corso della quale l’inquirente si accontenta della confessione dell’individuo arrestato senza preoccuparsi di trovare conferma con gli indispensabili elementi di fatto (testimonianze, perizie, prove materiali ecc.) (25)».

Ma l’inchiesta «semplificata» era connaturata alle procedure, alle fattispecie e ai fini delle «operazioni di massa» e, conseguentemente, doveva puntare sulla confessione e sulla delazione estorte agli inquisiti. Ma la risoluzione ignora il problema affermando che

«tutti questi fatti scandalosi commessi dagli organi del Nkvd e della procura si sono potuti produrre perché i nemici del popolo introdotti in tali organi sono arrivati a sottrarre il Nkvd e la procura al controllo del partito, la qual cosa consentiva loro di portare avanti le loro attività antisovietiche sotterranee».

Si deve dunque intendere che tra la metà del 1937 e la fine del 1938 i «nemici del popolo» abbiano di fatto esercitato la dittatura terroristica nella «patria del socialismo» all’insaputa dell’infallibile guida Stalin? E non sarebbe stato questo motivo sufficiente per «pensionare» lo stesso Stalin, così propenso ad affidare la guida della lotta alla controrivoluzione agli stessi controrivoluzionari?  In effetti Ežov, che aveva avuto il suo grande momento di pubblica gloria come cacciatore dei «nemici del popolo», di spie e di sabotatori, e nel cui regno cadde la fastosa celebrazione del ventesimo anniversario della Čeka nel teatro Bol’šoj, quando nei discorsi e sulla stampa gli agenti del Nkvd e lo stesso Ežov passavano per figli prediletti del popolo sovietico, venne a sua volta accusato di essere una spia al servizio della Germania, del Giappone, della Polonia e per buona misura, anche dell’Inghilterra; di voler assassinare Stalin e altri della sua cerchia ristretta, di cui pure aveva fatto parte; e, ciliegina sulla torta, anche di sodomia...
Eppure, non solo Stalin si era congratulato con Ežov per le confessioni e le delazioni; non solo aveva firmato liste di centinaia e centinaia di persone da condannare a morte; ma il 10 gennaio 1939, a nome del Comitato centrale, fece trasmettere al Nkvd un telegramma che recita così:

«Il Comitato centrale del partito comunista ricorda che l’uso di metodi di pressione fisica nella pratica del Nkvd è stato autorizzato nel 1937 con l’accordo del Comitato centrale [...] è risaputo che tutti i servizi d’informazione della borghesia utilizzano metodi di pressione fisica contro i rappresentanti del proletariato socialista e che ne fanno uso nel modo più scandaloso. Si pone il problema di sapere perché i servizi d’informazione socialista dovrebbero dare prova di umanità nei confronti dei nemici mortali della classe operaia e della classe contadina kolchoziana. Il Comitato centrale del Partito comunista ritiene che i metodi di pressione fisica debbono essere applicati senza restrizioni come metodo appropriato e del tutto giustificato contro i nemici riconosciuti e incalliti» (26).

Dunque la «pressione fisica», ovvero la tortura, da utilizzarsi «senza restrizioni come metodo appropriato e del tutto giustificato», era stata autorizzata dal vertice sovietico nel 1937 e nuovamente confermata da Stalin in persona nel 1939: necessariamente con l’obiettivo di ottenere la confessione dell’imputato in una «procedura» alquanto «semplificata». Che tale doveva essere, osservazione conclusiva, anche perché esplicitamente richiesto nell’ordine operativo 00447, paragrafo «IV. Modalità d’istruzione dei dossier», punto 1: «Ciascun individuo o gruppo d’individui è l’oggetto dell’apertura di un dossier istruttorio. Questa istruttoria ha luogo in modo semplificato e accelerato. L’istruttoria dovrà mostrare tutti i collegamenti criminali degli individui arrestati» (corsivo mio).

È un serpente che si morde la coda. Ma non si può pretendere un linguaggio logico da chi è capace di tale barbarie. E non ci si può aspettare né logica né buon senso da parte dei fossili viventi che in qualche modo continuano a «giustificare» con le circostanze storiche l’opera interna e internazionale di Stalin, e neppure dagli incoscienti o dagli ignoranti, vittime e del culto postmoderno dei simulacri, che rispolverano l’icona di Stalin come presunta antitesi «pura e dura» al capitalismo.

4. L’«operazione polacca» e le altre «operazioni nazionali».

Le prime operazioni repressive di massa dirette a colpire un gruppo nazionale precedono il Grande terrore: furono le deportazioni di polacchi e tedeschi dal confine occidentale nel 1930, condotte nel quadro della liquidazione dei kulaki e della collettivizzazione.
Il 5 marzo 1930 l’Ufficio politico deliberò la deportazione di altre 3.000-3.500 famiglie di kulaki effettivi o presunti tali dalla Bielorussia e di 10.000-15.000 famiglie dall’Ucraina, inclusi nobili polacchi indipendentemente dalla loro condizione materiale; l’11 marzo venne specificato, in rapporto alle rivolte e alle proteste in corso, che l’operazione andava condotta innanzitutto contro i kulaki di nazionalità polacca e che essa doveva essere eseguita in modo rapidissimo, «con il massimo di organizzazione e senza fanfara» (27), al fine di prevenire l’intervento del governo polacco. Nello stesso periodo un piano per reinsediare 88 mila coreani venne abbandonato per il timore della reazione del governo giapponese. Nel 1933 vennero arrestati a decine di migliaia presunti nazionalisti, specialmente tedeschi e polacchi, accusati di cospirare con la Germania per separare l’Ucraina dall’Urss. Per quanto avvenisse nel quadro della lotta al presunto «sabotaggio» del raccolto di grano da parte dei kulaki (era in corso la carestia) secondo Terry Martin a marcare il passaggio dalle deportazioni su base di «classe», prevalenti prima del 1933, alla deportazioni su base «etnica» prevalenti fino al 1953 fu l’ordine di deportare l’intera popolazione cosacca di Poltava nel dicembre 1933, seguito da analogo ordine per altre due città.
Nel corso della «pulizia» successiva all’omicidio di Kirov le nazionalità non-russe vennero colpite pesantemente: nel novembre 1934 l’Ufficio politico adottò una risoluzione volta a colpire gli «elementi fascisti» nelle colonie tedesche, in Ucraina e nel distretto siberiano di Slavgorod, con ampia presenza di mennoniti tedeschi; nel febbraio-marzo 1935 oltre 8 mila famiglie (41.650 persone), più di metà tedesche e polacche, vennero deportate dal confine nella zona più orientale dell’Ucraina.

In Unione Sovietica la caccia alla «spia» e all’agente controrivoluzionario non era certo una novità ma, con il cambiamento del quadro politico internazionale determinato dall’avvento del nazismo al potere e il patto di non-aggressione tra Polonia e Germania del 1934, le operazioni repressive di massa iniziarono ad assumere un immediato valore geopolitico e strategico. Si trattava di assicurare i confini, innanzitutto quello occidentale. Ovviamente, nelle fasce frontaliere, oltre tutto ancora «porose», erano più numerose le nazionalità non-russe, sempre più percepite come potenziali alleate del nemico. Tra queste, quella polacca era da tempo sospetta, e lo divenne anche quella tedesca; nello stesso tempo si intensificarono i controlli interni, le «verifiche» dei membri dei partiti «fratelli» e dell’apparato del Comintern. La crescente preoccupazione per la «porosità» dei confini si può intendere anche dall’ampliamento dello status speciale delle aree frontaliere nelle quali la polizia aveva carta bianca: nel 1923 queste erano organizzate per fasce di 4 metri, 500 metri, 7,5 e 16 chilometri, per complessivi 22 chilometri; nel 1929 vennero ampliate fino a includere non solo i raiony (distretti) di confine ma quelli ad essi adiacenti; nel 1934 vennero create le «zone proibite» di 7,5 chilometri nelle quali nessuno poteva entrare senza permesso del Nkvd; nel 1937 il regime venne esteso ai confini dell’Iran e dell’Afghanistan. La «pulizia etnica» era obiettivamente nella logica della «chiusura» dei confini, e fu facilitata dall’introduzione dei passaporti interni per gli abitanti delle zone urbane e i membri dei sovchoz nel 1932-1933.
Nel 1935-1936 i distretti alla frontiera tra Ucraina e la Polonia vennero ripuliti di almeno 23 mila famiglie di origine polacca e tedesca, deportate in Kazachistan, e stessa sorte toccò a 30 mila cittadini d’origine finlandese nell’area di Leningrado.

Il primo ordine con un contenuto «nazionale» durante il Grande terrore, 24 luglio 1937, fu quello circa l’epurazione degli addetti ad acquedotti, stazioni batteriologiche, istituti e laboratori di ricerca microbiologica, che ordinava di arrestare immediatamente gli stranieri e i cittadini sovietici di origine straniera o con contatti con l’estero. Il giorno successivo Ežov emanò l’ordine n. 00493 concernente spie e sabotatori tedeschi e al servizio della Germania. Il 9 agosto l’Ufficio politico confermò la disposizione «Sulla liquidazione dei gruppi spionistici e diversivi polacchi e delle strutture della Pow», cui il giorno 11 fece seguito l’ordine operativo n. 00485 (28), accompagnato da una lunga lettera segreta di Ežov (trenta pagine) riguardo «attività fasciste, deviazionistiche, disfattiste, terroristiche, di sabotaggio e spionaggio, condotte dai servizi d’informazione polacchi in Urss». Il 21 agosto venne firmato l’ordine di deportazione per 135 mila coreani (ma a ottobre erano già stati deportati in 170 mila); il 22 ottobre l’ordine 00698 ordinò l’arresto, nel quadro delle «operazioni nazionali», di tutti coloro che avessero avuto un qualche contatto, anche epistolare, con consolati e ambasciate; il giorno seguente l’ordine n. 00693, «Sulla repressione degli immigrati che hanno varcato legalmente o illegalmente la frontiera dello Stato sovietico», permetteva di estendere l’azione repressiva a qualsiasi immigrato. Con questa sequela di ordini l’essere non-russo o straniero o aver contatti con le rappresentanze estere divenivano motivi di sospetto e d’arresto.
A quelle citate occorre aggiungere le «operazioni nazionali» contro finlandesi, lettoni, estoni, greci, bulgari, rumeni, macedoni, cinesi, giapponesi, curdi, iraniani, afghani. Non tutti gli arrestati in queste operazioni appartenevano realmente alle nazionalità perseguite.
Gli arresti durante le diverse «operazioni nazionali» ammontarono a 1/5 del totale di quelli effettuati durante il Grande terrore; nello stesso periodo 1937-1938 le esecuzioni conseguenti dall’ordine 00447 furono 386.798, il 54% del totale, quelle nel quadro «operazioni nazionali» 247.157, il 36%. Ma se si guarda al rapporto tra arresti ed esecuzioni risalta evidentemente la particolare letalità delle «operazioni nazionali», eccezionale anche per quel periodo terribile. Il rapporto complessivo tra arresti ed esecuzioni per il Grande terrore è del 19%; per l’«operazione kulak» è del 49% ma per l’insieme delle «operazioni nazionali» è del 73,7%. Le percentuali dei condannati a morte, in «prima categoria» sul totale dei condannati sono: il 79% per l’«operazione polacca» (111 mila su 140 mila); il 76% per l’«operazione tedesca» (42 mila su 55 mila); il 65% per l’«operazione di Čarbin» (21.200 su 33 mila; erano gli ex dipendenti della compagnia ferroviaria della Cina orientale, con sede a Čarbin). Al 10 settembre 1938 (quindi quando ancora mancavano due mesi alla fine della ežovščina) il rapporto giustiziati/condannati era dell’84% per l’«operazione greca» (9.450 su 11.261), 81,5% per l’«operazione finlandese» (5.724 su 7.023), 82% per l’«operazione estone» (4.672 su 5.680), 64% per l’«operazione romena» (4.021 su 6.292).
Se si guarda al rapporto tra condannati e popolazione, allora la regione più colpita fu la Carelia, con un rapporto pari al 2,8% (14 mila su mezzo milione). Fattori determinanti il sinistro record furono l’essere la Carelia regione di frontiera con la Finlandia e pure ospitante una consistente popolazione di detunuti. Qui scomparve un quarto della comunità finnica (40% dei condannati); quasi un quarto dei condannati vennero liquidati nell’«azione speciale» di «pulizia» dei campi, interna all’ordine 00447. Al secondo posto e per le stesse ragioni figura la Siberia (29).

L’operazione polacca non fu solo la più ampia tra le «operazioni nazionali» e tra le più letali delle operazioni condotte nel Grande terrore. L’ordine 00485 fu il modello organizzativo per le altre «operazioni nazionali».
Le tipologie soggette ad arresto immediato erano le seguenti:
«a) i membri attivi dell’Organizzazione militare polacca smascherati in sede istruttoria, ma non ancora presi;
b) tutti i prigionieri di guerra dell’esercito polacco rimasti in Urss;
c) tutti gli emigrati polacchi in Urss;
d) tutti gli emigrati politici polacchi in Urss;
e) tutti i vecchi membri del Partito socialista polacco e dei vecchi partiti politici polacchi antisovietici;
f) i più attivi elementi antisovietici e nazionalisti dei distretti polacchi dell’Urss» (30).  

L’Organizzazione militare polacca di cui al punto a) nel 1937 aveva cessato d’esistere da tempo.
La tipologia b) venne poi ampliata fino a comprendere, come poi accadrà dopo la Seconda guerra mondiale, anche i prigionieri di guerra sovietici rimpatriati dalla Polonia.
Perché la repressione colpisse a livello di massa era già sufficiente la tipologia c).
Nell’ordine si rilevava che «numerosi contingenti di spie e sabotatori polacchi sono perfino sfuggiti a ogni tipo di schedatura (sui 15 mila emigrati politici venuti dalla Polonia in Urss, appena 9000 sono stati oggetto di schedatura). In Siberia occidentale solo 1000 dei 5000 emigrati sono stati debitamente schedati»(corsivo mio). Fatto a quanto mi risulta unico nella Terza internazionale, il Partito comunista polacco era nato non da una scissione ma dalla fusione del partito di Rosa Luxemburg, il Sdkpil, con la sinistra del Partito socialista polacco. Benché non nominati, molti membri del Partito comunista polacco erano già automaticamente coinvolti, come gruppo, dalla tipologia e), oltre che dalla d).
La tipologia f), concernente «i più attivi elementi antisovietici e nazionalisti dei distretti polacchi dell’Urss», aveva un significato sociale e politico molto più ampio di quanto possa sembrare a prima vista. Come si vedrà nel paragrafo seguente, nel 1930 i distretti dell’Ucraina e della Bielorussia sovietiche confinanti con la Polonia erano stati protagonisti di numerose proteste contadine e anche di rivolte (assai male) armate. Si trattava ora di completare la «pulizia» in quei distretti e tra i deportati.
Un telegramma a Ežov da parte del capo del Nkvd della Siberia occidentale, in data 13 settembre 1937, indicava queste tipologie di arrestati nel corso dell’esecuzione locale dell’ordine operativo n. 00485: totale di 1490 individui, di cui 944 emigrati polacchi, 30 ex prigionieri di guerra polacchi, 30 emigrati politici, 471 membri del Partito socialista polacco e altri «controrivoluzionari». Si comunicava anche che 144 degli arrestati lavoravano in «aziende militari», 22 «sulle vie di comunicazione», 368 in «aziende militari» (di nuovo), 6 nell’Armata rossa, 954 nell’agricoltura e nell’amministrazione. Anche in questo caso gli elementi di prova erano confessioni (31).

Dalle categorie fatte oggetto di repressione indicate nell’ordine modello dell’«operazione polacca» è evidente la dimensione strategica delle «operazioni nazionali». Non si trattava di categorie sociali ma politiche; non si trattava di eliminare gli «elementi socialmente pericolosi» e «criminali» o «controrivoluzionari» che costituivano una potenziale minaccia essenzialmente sul piano del controllo sociale e politico interno, ma di liquidare soggetti per definizione «alieni» in quanto appartenenti o riconducibili all’ambiente di nazionalità non-russe comuni con gli Stati confinanti e per questo presunti membri di una «quinta colonna» nemica. Con le «operazioni nazionali» l’equazione «trotskisti uguale agenti al servizio dello straniero» venne estesa di fatto alla dimensione di massa della nazionalità.

A differenza dell’ordine n. 00447, l’ordine 00485 per l’«operazione polacca» e gli altri su essa ricalcati non contemplavano l’indicazione di quote, il cui senso era di costituire limiti (limity) di carattere orientativo (orientirovochnije), con valore di tetto massimo al fine, non conseguito, di tenere sotto controllo centrale la repressione. La procedura richiedeva la compilazione di schede dattiloscritte contenenti succinte note personali degli arrestati, materiali istruttori, e l’attribuzione in prima o seconda categoria decisa da una coppia costituita dal capo del Nkvd e dal procuratore della repubblica o della regione, una dvojka invece che l’usuale trojka; le schede venivano poi raccolte in grossi quaderni, gli «album», inviati a Mosca per la firma da parte del commissario del popolo agli interni dell’Urss (Ežov) e dal procuratore generale (Andrej Vyšinskij): il che avveniva, come nel caso delle trojki, in modo del tutto meccanico, per liste di centinaia e centinaia di nomi. Ma anche così gli «album» si accumulavano e si rese necessario un cambiamento della procedura: il 15 settembre 1938 le dvojki vennero sostituite da trojki dette «speciali» che condannavano senza conferma da Mosca. A quella data l’«operazione polacca» era già stata estesa più volte nel tempo: stando al primo ordine doveva essere portata a termine entro il 20 novembre 1937, ma nei primi giorni del mese venne estesa al 10 dicembre; poi fu prolungata fino al 1 gennaio 1938, ma il 31 l’Ufficio politico prolungò ancora l’insieme delle «operazioni nazionali» fino al 15 aprile, estendendole a macedoni e bulgari. Il 26 aprile una nuova proroga estese le stesse operazioni al 1 agosto, includendovi gli afghani. 

5. Il Grande terrore e la «febbre» delle rivolte contadine del 1930, in particolare nei distretti della frontiera con la Polonia.

Non ritengo sia possibile comprendere le ragioni delle grandi operazioni di massa, sia «kulak» sia delle «linee nazionali», prescindendo dagli effetti e dai problemi determinati dalla collettivizzazione forzata dei primi anni Trenta.
Non si trattava solo di problemi economici. Nonostante l’ampiezza e la durezza della repressione, le deportazioni di massa e le esecuzioni dei primi anni Trenta, nella seconda metà del decennio era ancora vivo il ricordo della resistenza attiva, anche violenta, che centinaia di migliaia di contadini e centinaia di comunità contadine avevano opposto negli anni tra il 1928 e il 1930 alle requisizioni di grano, alla dekulakizzazione, alla collettivizzazione forzata, alla chiusura di chiese e, nei termini più generali, all’«invasione» dello Stato nella vita quotidiana e sociale dei villaggi. Il culmine della rivolta contadina fu la «febbre di marzo» del 1930. Quella fu una vera e propria esplosione della lotta della classe contadina contro l’azione «colonizzatrice» da parte dello Stato, la più importante dopo la rivoluzione e la guerra civile. Dopo la «febbre» del 1930 e fino alla sua dissoluzione, in Unione Sovietica non si verificarono mai più fenomeni così ampi e aperti di lotta di classe. Si deve concordare con Graziosi che i fatti degli anni 1918-1922 e 1929-1933 costituirono «la più grande guerra contadina europea del secolo» (32), e aggiungo: fu anche l’ultima di una lunga storia di guerre contadine nel senso stretto del termine (altrimenti si dovrebbe aggiungere la lotta contadina in Spagna, anch’essa soffocata dallo stalinismo, che così condannò la rivoluzione spagnola).

La resistenza contadina fu, nell’immediato, un problema politico e sociale d’ordine interno. Ma nelle Repubbliche  sovietiche poste sui confini, specialmente in quelle sul confine occidentale, l’Ucraina e la Bielorussia, la lotta contadina aveva anche una dimensione strategica, a cavaliere tra politica interna e politica internazionale, tra consolidamento del dominio burocratico interno e difesa di questo stesso dominio dalla minaccia esterna. Nella seconda metà degli anni Trenta questa dimensione strategica divenne sempre più importante, fino a esplodere nelle «operazioni nazionali», persecuzione di nazionalità considerate potenziali «quinte colonne» dello straniero.
Poiché la lotta contadina contro la collettivizzazione forzata è stata a lungo ignorata o trascurata nella letteratura storica, è opportuno fornire alcuni dettagli. La fonte che utilizzo è il libro di Lynne Viola, Peasants rebels under Stalin. Collectivization and the culture of peasant resistance, pubblicato nel 1996 e tradotto in italiano nel 2000.   

Si tenga presente che al momento della «crisi delle forbici» e dell’inizio della collettivizzazione forzata la struttura sociale dei villaggi sovietici era molto più egualitaria di quanto fosse prima della rivoluzione e che la definizione di «kulak» impiegata dalle autorità era molto soggettiva. La categoria non faceva riferimento solo a una generica posizione sociale ma comprendeva anche soggetti individuati dalla posizione politica e ideologica che era loro automaticamente imputata: preti, ex guardie bianche, ex banditi, membri dei consigli ecclesiastici e chiunque «manifesti attività controrivoluzionarie». Venne addirittura coniato il termine podkulačnik per indicare tutti coloro, anche contadini poveri, che fossero «sotto il kulak», ovvero presentassero una «mentalità kulak». In altri termini, la «liquidazione dei kulaki come classe» non fu solo una violenta operazione di ristrutturazione sociale ma anche un massiccio intervento di controllo sociale e di repressione politica nei confronti di tutti i contadini che si opponevano all’iniziativa dall’alto. Questa è una delle ragioni per cui un fenomeno di massa come quello della migrazione volontaria di «ex kulak» non è da sottovalutare nella spiegazione del Grande terrore: «ex kulak» e podkulačniki migrati continuavano ad essere sentiti dalla casta staliniana come potenziali nemici. A questi si aggiungevano gli «ex kulak» che si sottraevano alla deportazione («confinati speciali»): altre centinaia di migliaia, secondo dati di Werth 200-300 mila nel 1930-1931, 630 mila nel periodo 1932-1939 (33). Questi ex kulaki divennero l’«archetipo del “nemico”».
La lotta contadina alla «liquidazione dei kulaki» e alla collettivizzazione assunse molte forme. Una di queste era l’«auto-dekulakizzazione», ovvero la vendita o l’abbattimento del bestiame da parte dei presunti kulaki, a cui poteva seguire il trasferimento volontario in città o in altre aree. Ma le reazioni alla collettivizzazione forzata non furono solo individuali e passive. Esse furono anche collettive e politiche, disponendosi su una vasta gamma di modalità che andavano dal disturbo, solo apparentemente apolitico, delle riunioni convocate dai funzionari venuti dalle città (rumori, ubriachezza vera o finta) alle contestazioni verbali aperte, fino alle marce di protesta, all’aggressione fisica, all’omicidio, all’incendio, alla rivolta armata. I contadini potevano ritorcere contro l’avversario lo stereotipo del nekulturny mužik, del contadino ignorante, analfabeta, gretto e stupido, ma anche scrivere volantini, solidarizzare con i vicini, insorgere dando vita a fuochi di rivolta che si estendevano su interi distretti. Attivissime erano le donne.
Le statistiche dell’Ogpu mostrano un’impressionante procedere dei «disordini di massa» (massovye vystuplenija) sull’intero territorio sovietico: da 709 nel 1928 a 1.307 nel 1.929 a 13.754 nel 1930. Nel marzo 1930, culmine delle rivolte contadine, i «disordini di massa» furono 6.528, protraendosi ancora molto numerosi fino a luglio, restando frequenti per il resto dell’anno (34). Il numero dei partecipanti andò crescendo con analoga veloce progressione, dai 244 mila del 1929 ai 2.468.625 del 1930, ma per soli 10.071 incidenti su un totale più grande (35). Nel solo marzo 1930 i contadini sovietici in rivolta erano 1.434.588, quasi sette volte più numerosi che nel mese precedente (con la limitazione già indicata).
Cause prevalenti scatenanti i disordini del 1929 furono le requisizioni del raccolto e la chiusura delle chiese, centri di riferimento morale e sociale dei villaggi (rispettivamente per il 30% e il 25% dei disordini); nel 1930 fu invece nettamente prevalente la lotta contro la colletivizzazione forzata (70% dei casi), seguita dalle lotte contro la dekulakizzazione, la chiusura di chiese e la carenza di cibo.
Altrettanto notevole fu la progressione della violenza contadina in reazione alla violenza statale. I fatti di terrorismo, omicidio, aggressione e tentato omicidio, incendio, furono 339 nel 1924 e 902 nel 1925, anno di picco fino al 1928; tra gennaio 1924 e settembre 1927 se ne contarono 2.532 sull’intero territorio sovietico. Nel 1928 salirono a 1.027, nel 1929 balzarono a 9.093 e nel 1930 a 13.794, con un massimo nei mesi di marzo e aprile (36). Nel 1930 gli omicidi furono 1.198, le aggressioni e i tentati omicidi 5.720, gli incendi, il «gallo rosso», 6.324. Su funzionari statali e attivisti di partito gravava l’incubo del contro-terrore contadino, nella forma tradizionale del samosud, il linciaggio, o del solitario colpo di fucile nell’attraversamento del bosco. D’altra parte, con il progredire della violenza statale, l’estendersi delle deportazioni e la pressione a requisire anche il grano necessario alla semina, non solo il fronte contadino si consolidava al di là delle differenze di condizione sociale effettiva, ma non furono pochi gli attivisti locali che presero le parti del villaggio.

I dati ufficiali della Ogpu circa la caratterizazione delle proteste contadine vanno considerati con prudenza; ciò vale, in particolare, per la definizione sociale attribuita ai singoli «terroristi» contadini identificati. Stando ai dati ufficiali del 1930, questi ultimi erano per la metà kulaki (su oltre 13 mila), circa il 20% era classificato tra i contadini medi, il 6% tra i contadini poveri, il resto erano byvšije kiudi (gente del passato), elementi antisovietici e criminali (37); ma, a parte le precedenti considerazioni sull’arbitrarietà dell’attribuzione sociale da parte del Nkvd, il regime aveva tutto l’interesse nel dipingere i «terroristi» come «kulaki» e nel minimizzare il coinvolgimento dei contadini poveri (38). Dalle statistiche i contadini medi e poveri risultano essere stati particolarmente attivi come «terroristi» in Ucraina, Bielorussia, il Caucaso settentrionale, la Crimea, la regione di Mosca.
Il quadro complessivo emergente dai dati del 1930 per l’intero territorio sovietico è dunque quello di un’estesa resistenza contadina alla collettivizzazione forzata, di scoppi di jacqueries non coordinati nazionalmente ma, in taluni casi, capaci di estendersi su vari distretti e di assumere carattere di vera e propria insurrezione. Le rivolte coinvolgevano l’intera comunità di villaggio a prescindere dalla condizione sociale prerivoluzionaria e dalle ineguaglianze reali esistenti. La collettivizzazione non fu un momento di lotta di classe interno al mondo rurale tra contadini, tra poveri e ricchi, tanto che il culmine della rivolta si verificò quando già moltissimi contadini si erano «autodekulakizzati».
Nelle zone con una più lunga tradizione di ribellione e che già durante la rivoluzione e la guerra civile avevano visto movimenti contadini, la protesta contadina assunse dimensioni più ampie, collettive e insurrezionali (39); si trattò, però, di un fenomeno ampiamente spontaneo, nel quale i «politici» nel senso stretto (ex guardie bianche, menscevichi e socialisti-rivoluzionari) svolsero un ruolo assai limitato.
Insieme alla tradizione storica e alle più recenti esperienze di lotta nella rivoluzione e nella guerra civile, le differenze geografiche nell’ampiezza e radicalità delle rivolte si spiegano anche con il peso delle diverse regioni nella produzione cerealicola sovietica, che determinò i ritmi progettati delle requisizioni di grano e della collettivizzazione, e con la presenza di significative minoranze nazionali: si trattava di fattori che si rafforzavano a vicenda per dare origine ad ampie reazioni di protesta. Questi fattori sono direttamente pertinenti per la comprensione della «questione polacca» dentro il Grande terrore sovietico. 

Con 4098 «disordini», pari a un terzo del totale ufficiale, nel 1930 l’Ucraina figurava di gran lunga come la zona più turbolenta. La stima dell’Ogpu, relativa a tre quarti dei disordini ucraini, è di un milione di partecipanti, con una media di 298 soggetti per disordine: il che testimonia il carattere comunitario della protesta (questa media è inferiore solo a quella delle Terre nere, importantissima regione produttrice di grano, dove il dato è di 316 individui).
Nello stesso anno, gli episodi di «terrorismo» furono in Ucraina 2.779, il 20% del totale, di cui 176 gli omicidi e 708 i tentati omicidi e le aggressioni. Anche il «gallo rosso» dell’incendio doloso si fece sentire in Ucraina più che altrove, con circa 1/3 degli oltre 6 mila casi registrati nel solo 1930.
Duramente colpiti furono i distretti alla frontiera con la Polonia e la Romania. In una riunione ristretta del 24 marzo nel distretto di Herson, Sergo Ordžonikidze affermò che senza la recentissima «ritirata» nei tempi della collettivizzazione l’insurrezione contadina ai confini con la Polonia avrebbe potuto aprire la strada all’intervento straniero.

6. La dimensione strategica delle «operazioni nazionali».

Il timore espresso da Ordžonikidze nel marzo 1930 spinge verso la considerazione della dimensione strategica delle «operazioni nazionali» del 1937-1938 e della correlazione tra aspetti interni e internazionali della politica sovietica delle nazionalità. 
La Russia rivoluzionaria decretò l’indipendenza delle nazionalità oppresse nel caduto Impero zarista. Certo, si trattò anche (ma niente affatto solo di questo) del riconoscimento della situazione di fatto determinatasi nel corso delle vicende belliche e della quasi impotenza della rivoluzione sul piano militare, a guerra mondiale ancora in corso e nell’immediato dopoguerra; certamente la guerra civile e l’aggressione esterna portarono ad atti in contrasto con quel principio; e la prima azione propriamente «stalinista» di Stalin in qualità di Commissario per le nazionalità, Lenin malato ma ancora vivo (quella contro Stalin fu la sua «ultima battaglia»), fu in rapporto alla Georgia (40). Nondimeno, l’attuazione del principio di autodeterminazione nazionale non fu un «machiavellico» espediente tattico: al contrario, fu proprio questo il campo nel quale il bolscevismo rimase fedele a se stesso e alle sue promesse, nonostante non fosse un mistero che l’autodeterminazione avrebbe potuto portare alla formazione di nuovi e assolutamente nuovi Stati borghesi, in contrasto con gli interessi strategici immediati della Repubblica sovietica. Lo stesso principio di autodeterminazione nazionale proiettava la rivoluzione sulla scena mondiale: esso spingeva alla ribellione i popoli sottoposti a dominio coloniale, facendo della repubblica dei soviet un esempio e un sicuro alleato; esso fu essenziale per l’estensione dell’Internazionale comunista. 
Ciò fu vero fino a quando Lenin non fu paralizzato dalla malattia. Da quel momento la politica sovietica delle nazionalità si fece sempre più contraddittoria, finché negli anni Trenta si rovesciò nei fatti, benché non nei proclami, in una politica antinazionalitaria. Secondo Terry Martin nella storia sovietica si sviluppò un paradosso: da una parte, la volontà di costruire un grande Stato multinazionale, nel quale tutte le nazionalità potessero conservare la propria identità e insediarsi in ambiti territoriali determinati; dall’altra, una particolare forma sovietica di xenofobia, non etnica ma politico-ideologica, che in ultimo portò a perseguire distruttivamente determinate nazionalità.
Già nel corso degli anni Venti si può individuare una contraddizione: allora la formazione di una moltitudine di entità nazionali a tutti i livelli (dalle repubbliche ai distretti fino alle cittadine) portò, in alcuni casi, allo spostamento di gruppi etnici dalla sede originaria al fine di concentrarli territorialmente. Concepita come applicazione del principio dell’autodeterminazione e della libertà delle nazionalità, nei casi in cui la nazionalità re-insediata venne percepita dagli autoctoni come privilegiata, questa politica alimentò i contrasti interetnici. A proposito di questo effetto non voluto dell’applicazione dall’alto e con una sorta di «eccesso di zelo» del principio di autodeterminazione, è utile ricordare gli avvertimenti di metodo Rosa Luxemburg (41).
Il principio di autodeterminazione nazionale rimase una bandiera sovietica agitata nei confronti degli Stati vicini anche quando tutt’altra era la realtà. Si ricordi, ad esempio, che l’invasione e la spartizione della Polonia, in alleanza di fatto con la Germania nazista, venne giustificata nel 1939 con la pretesa di proteggere le minoranze ucraina e bielorussa nello Stato polacco a causa della «disintegrazione» di quest’ultimo, peraltro conseguente al patto poco prima stipulato tra Ribbentrop e Molotov per conto dei loro capi.
L’esistenza delle Repubbliche nazionali sovietiche era considerata un esempio suscettibile di incitare l’agitazione tra le minoranze nazionali presenti negli Stati confinanti. All’accerchiamento imperialistico si rispondeva con un «controaccerchiamento» politico: le Repubbliche nazionali di confine erano una sorta di «vetrina» del sistema sovietico e le nazionalità disposte sui due lati dei confini agenti potenziali della rivoluzione e dell’agitazione a favore dell’Urss.
Sotto gli aspetti dell’effetto dimostrativo, da «vetrina», e di quello strategico-militare, la Repubblica più importante era l’Ucraina, «bastione» sovietico occidentale confinante con la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Romania; la Bielorussia sovietica, confinante con Polonia, Lituania e Estonia, copriva l’area nord-occidentale. I comunisti ucraini ritennero che la loro repubblica potesse svolgere nei confronti del gruppo nazionale ucraino oppresso in Polonia un ruolo di aggregazione nazionale analogo a quello del Piemonte in Italia. Per quanto questa pretesa potesse divenire fonte di problemi con le altre repubbliche sovietiche quando pretendeva di svilupparsi anche nella loro direzione, il «principio Piemonte» è, secondo Martin, utile per comprendere aspetti della politica sovietica delle nazionalità negli anni Venti, in particolare sul confine occidentale e nei confronti della Polonia.
Il «principio Piemonte» andò però in frantumi nei primi anni Trenta. Con la collettivizzazione e le grandi deportazioni, da Repubblica «vetrina» l’Ucraina si convertì in area da cui estrarre «rifiuti» da trasportare nelle zone «discarica», quali erano quelle di destinazione dei deportati, o dentro la quale eliminarli. Se la terribile carestia del 1933 non fu voluta da Stalin, certamente essa venne aggravata da decisioni politiche, tra queste il divieto di emigrare dall’Ucraina e dal Caucaso settentrionale decretato dall’Ufficio politico il 22 gennaio 1933: decreto che si può interpretare come soluzione più «economica» della deportazione al fine di eliminare parte di quei «rifiuti» umani che Stalin, nei giorni precedenti, ritenne dovessero essere repressi (42), anche a causa delle pericolose implicazioni del nazionalismo nelle aree di confine.
Ma l’Ucraina e la Bielorussia non furono solo oggetto di repressione e di «pulizia etnica».
Abbiamo visto come dall’inizio delle requisizioni di grano in tutta l’Urss i contadini furono anche soggetti di proteste e di rivolte, al punto da determinare una parziale retrocessione della collettivizzazione, espressa nel noto articolo di Stalin «La vertigine del successo» del marzo 1930, il cui effetto non previsto dall’Infallibile fu di demoralizzare gli attivisti e di dare più forza alla lotta contadina. I contadini dell’Ucraina furono particolarmente attivi e determinati, i disordini ampi e spesso violenti.
Le rivolte contadine sui confini e tra le nazionalità non-russe erano percepite come qualcosa di più di una ribellione contro il centro e il sistema sovietico. Da carta favorevole da giocare positivamente verso l’esterno, il «principio Piemonte» si era rovesciato nell’opposto: nel rischio che le rivolte potessero essere pretesto per conflitti interstatali e che le nazionalità non-russe potessero fungere da «quinta colonna» del nemico, da ambiente e canale per la penetrazione di spie e sabotatori. Sul confine occidentale il pericolo principale veniva dalla Polonia, confinante con l’Ucraina: e in questa Repubblica, specie vicino al confine, vivevano oltre 400 mila dei 636 mila cittadini sovietici di origine polacca.
I primi anni Trenta segnarono dunque una svolta anche nella politica delle nazionalità.
Alla xenofobia politica si sovrappose la xenofobia tout court nei confronti di determinate nazionalità percepite come «aliene» all’ordine sovietico.
A partire dall’ordine 00485 per l’«operazione polacca», le operazioni di «pulizia etnica» furono sempre più spesso utilizzate dal regime staliniano. Complessivamente, sono state contate 130 operazioni di deportazione eseguite tra il 1920 e il 1953, raggruppabili in «53 cosiddette operazioni globali o campagne di deportazione» (43). La progressione sotto Stalin è impressionante: se ne contano 4 tra il 1920 e il 1924-25, 11 fino al 1940, 19 negli anni di guerra 1941-45 e altre 19 dalla fine della guerra al 1953, la maggior parte delle quali con carattere etnico o di «pulizia» dei confini.
La rottura con la lotta di Lenin allo sciovinismo grande-russo e per la libertà dei popoli non poteva essere più totale.

Note.

* La citazione iniziale di Stalin, in esergo, è tratta da Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938, il Mulino, Bologna 2011, p. 95. L’annotazione è riportata anche da Petrov e Jansen nella biografia di Ežov, Stalin’s loyal executioner. People’s commissar Nikolai Ezhov 1895–1940, Hoover Institution Press, Stanford 2002, p. 96, ma tradotta con qualche differenza: «Very good! Dig up and purge this Polish espionage mud in the future as well. Destroy it in the interest of the USSR».

1) Si veda Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, a cura di Ian Kershaw e Moshe Lewin, Editori Riuniti, Roma 2002.
2) Terry Martin, «The origins of Soviet ethnic cleansing», The Journal of Modern History, dicembre 1998, p. 856, n. 266.
3) Nikita Petrov e Marc Jansen, Stalin’s loyal executioner, cit., p. 99, che rimandano ad Archive of Moscow Province FSB Directorate, Archival investigation case n. 52668.
4) Sull’epurazione del Comintern: Enemies within the gates? The Comintern and the Stalinist repression, 1934-1939, New Haven, London, 2001, di William J. Chase; Lo stalinismo. Origini storia conseguenze, Mondadori, Milano 1972, di Roy Medvedev; «Il Comintern e il terrore staliniano» di Fridrick Firsov in Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti (a cura di), Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli, Milano 2004.
5) Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 14.
6) Si veda a proposito di Peter H. Solomon jr., Soviet criminal justice under Stalin, Cambridge University press, Cambridge 1996.
7) Sulla genesi del Grande terrore e specialmente per le purghe dell’apparato politico e amministrativo: John Arch Getty, Origins of the great purges. The Soviet communist party reconsidered, 1933-1938, Cambridge university press, Cambridge 1987; e dello stesso con Oleg V. Naumov, Road to terror. Stalin and the self-destruction of the bolsheviks, 1932-1939, Yale University Press, New Haven and London 1999.
8) David R. Shearer, «Social disorder, mass repression, and the Nkvd during the 1930s», Cahiers du Monde russe, 42/2-3-4, aprile-dicembre 2001, pp. 505-34. Nella contabilità dei detenuti dei lager le evasioni figuravano tra le voci relative alle «partenze». Erano nell’ordine delle decine di migliaia: 83 mila nel 1934, 67 mila nel 1935, 58 mila nel 1936 e 1937; nel 1938 si ridussero a 32 mila e a 12 mila nel 1939. Questi ultimi sono dati sinistri, che possono ricondursi alla marea di esecuzioni nei lager durante il Grande terrore. Ovviamente, gli evasi arrestati rientravano come «presenze» «da evasioni». Dati ripresi dal prospetto dell’Mvd dell’Urss sul movimento dei detenuti nei lager dell’Nkvd dell’Urss (classificato rigorosamente segreto), riportato in Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, Einaudi, Torino 2006, p. 335, di Oleg V. Chlevnjuk. Riferimento nell’Archivio di Stato della Federazione russa: GARF f. R-9414, op. I, d. 1155, l. 1.
9) Sheila Fitzpatrick, «Social parasites». How tramps, idle youth, and busy entrepreneurs  impeded the Soviet march to Communism, Cahiers du monde russe, vol. 47, 2006/1, p. 380.
10) Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938, p. 49; il telegramma di Stalin è riportato e discusso anche in Getty e Naumov, Road to terror. Stalin and the self-destruction of the bolsheviks, 1932-1939, op. cit., documento n. 169, p. 470. Si trova nell’Archivio di Stato russo di storia sociale e politica (RGASPI), f. 17, op. 162, d. 21, l. 89.
11) Nikita Petrov e Marc Jansen, Stalin’s loyal executioner. People’s commissar Nikolai Ezhov 1895–1940, pp. 107-108.
12) La prima menzione parziale dell’ordine operativo n. 00447 fu in Trud del 4 giugno 1992; l’ordine fu pubblicato integralmente nel 1996; altri documenti sulle operazioni di massa furono pubblicati in Moskovskie novosti nel 1992. Qui utilizzo l’ordine integrale in traduzione francese, riportato in Nicolas Werth, Les opérations de masse de la Grande Terreur en URSS, 1937-1938, Bulletin de l’IHTP n. 86, 2006, documento n. 13, pp. 45-52. L’originale è nell’Archivio del Servizio di sicurezza federale (FSB).
13) Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938, cit., pp. 157 e 159.
14) Oleg V. Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, cit., pp. 187-188 e 332.
15) Ibidem, p. 351.
16) Nikita Petrov e Marc Jansen, Stalin’s loyal executioner. People’s commissar Nikolai Ezhov 1895–1940, op. cit., p. 105; Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938, op. cit., p. 31.
17) Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit., pp. 27-8. In italiano si vedano anche il classico di Robert Conquest, Il Grande Terrore (1968), Mondadori, Milano 1970 e Rizzoli, Milano 1999 e il dettagliato capitolo «L’assalto ai quadri del partito e dello Stato» in Lo stalinismo. Origini storia conseguenze, cit., di Roy Medvedev. 
Mi sembra giusto riportare anche i dati del bilancio del primo Dipartimento del Nkvd degli arresti e delle condanne tra il 1 ottobre 1936 e il luglio 1938. Tra gli arresti per «colore politico» effettuati al di fuori delle «operazioni» si riportano questi dati: trotskisti: 55.943; destri: 28.913; socialisti-rivoluzionari: 25.814; anarchici: 838; altri (cadetti, monarchici ecc.) 9.392; in Nicolas Werth, Les opérations de masse de la Grande Terreur en URSS, 1937-1938, cit. p.141, documento n. 95. L’originale è nell’Archivio del Servizio di sicurezza federale (FSB).
18) John Arch Getty, «”Excesses are not permitted": mass terror and Stalinist governance in the late 1930s», Russian Review, n. 1, 2002.
19) Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit., p. 52; Werth fa riferimento alla p. 127 dell’articolo di Getty.
20) Ibidem, p. 56; il telegramma è discusso in Getty, ibid., pp. 127-8.
21) Ibidem, p. 55.
22) John Arch Getty, «”Excesses are not permitted"», cit., p. 136.
23) Oleg V. Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, cit., p. 167.
24) Nicolas Werth, Les opérations de masse, cit., p. 122 sgg.: Document 84, Extraits du rapport de N. Iejov à Staline sur le déroulement de «l’opération polonaise», 14 septembre 1937. Questa la sintesi all’inizio del rapporto: «Al 10 settembre, nell’Urss sono stati arrestati 23.216 elementi sotto la linea polacca: re-emigrati (sic), ex prigionieri di guerra, con relazioni consolari, e altri contingenti, tutti sospettati di spionaggio e sabotaggio. La ripartizione geografica degli elementi arrestati si presenta così: RSS Ucraina: 7.651 (1.138 hanno confessato); Leningrado: 1.832 (673 hanno confessato); Mosca e la sua regione: 1.070 (216 hanno confessato); RSS Bielorussia: 4.124; Regione occidentale: 837; Siberia occidentale: 1.325; ferrovie: 2.943».
Il rapporto conclude così: «Al 10 settembre 1937, 1.251 agenti polacchi sono già stati condannati a morte e fucilati».
25) Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit., p. 201.
26) Ibidem, p. 212. Corsivi miei.
27) Terry Martin, The affirmative action empire. Nations and nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Cornell university press, Ithaca 2001, pp. 322-323. Si veda anche Andrea Graziosi, «Collectivisation, révolte paysannes et politiques gouvernementales à travers les rapports du Gpu d’Ukraine de février-mars 1930», Cahiers du Monde Russe n. 3, 1994.  
28) L’ordine è riportato in Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit., pp. 88-90. Venne pubblicato su Moskovskije novosti il 21 giugno 1992.
29) Dati da Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit. Per le cifre delle «operazioni nazionali» al 10 settembre 1938, ibidem, p. 255.
Per due «linee» delle «operazioni nazionali» Werth riporta anche altri dati parziali diversi da quelli indicati: per la «linea romena», indica anche che tra l’ottobre 1937 e l’agosto del 1938 fu giustiziato l’87% delle 7.810 «spie romene» condannate: 6.795 persone; e per la «linea finlandese» indica, pure al 10 settembre 1938, 5.880 condannati e 5.224 fucilati, cioè il 90% in «prima categoria», p. 272.
30) Ibidem, p. 89.
31) Nicolas Werth, Les opérations de masse, cit., documento n. 85, pp. 125-6, riferimento Archivio del Presidente della Federazione russa (APRF), 3/58/254/193-195.
32) Andrea Graziosi, «Collectivisation, révolte…», cit.
33) Nicolas Werth, Nemici del popolo, cit., p. 241.
34) Viola Lynne, Stalin e i ribelli contadini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, p. 245, tabella 5-1.
35) Ibidem, p. 249 e tabella 5-4, p. 250.
36) Ibidem, tabella 4-1, p. 195.
37) Ibidem, tabella 4-8, p. 211.
38) Il contrasto tra la direzione dell’apparato statistico-demografico (Direzione della contabilità dell’economia nazionale, Cunhu) e l’Nkvd nel 1934-1936 e la purga a cui fu sottoposto il primo meritano attenzione perché sintomatici di una contraddizione strutturale del regime sovietico e, in particolare, staliniano: quella tra la volontà di tutto controllare e amministrare e l’impossibilità di usare e di rendere pubblici i dati reali. In definitiva si tratta dell’impossibilità di un’autentica pianificazione in regime di dittatura burocratica perché questa non può che essere nemica della verità e bisognosa di menzogna e di autoinganno. Sull’argomento si veda Alain Blum, «À l'origine des purges de 1937», Cahiers du monde russe, vol. 39, nn. 1-2, 1998. 
39) Sul punto delle precedenti esperienze di lotta insiste in particolare Graziosi.
40) Si veda Moshe Lewin, L'ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari, 1969.
41) Su questo rimando al mio «Rosa Luxemburg e la questione nazionale (sulla Polonia, 2)», utopiarossa.blogspot.it, 17 settembre 2011.
42) Così è per Michael Ellman, «Stalin and the Soviet famine of 1932-33 revisited», Europe-Asia Studies, 59, (4), 2007.
43) Lista in «Le repressioni contro gli stranieri in Unione Sovietica: Grande Terrore, Gulag, deportazioni», in Gulag. Storia e memoria, cit., pp. 114-7.

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Zarcone, Pier Francesco, Spagna libertaria. Storia di collettivizzazioni e di una rivoluzione sociale interrotta (1936-1938), Massari editore, Bolsena 2007.

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