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domenica 25 settembre 2011

TORNARE ALLA LIRA E CANCELLARE IL DEBITO?, di Michele Nobile


Quando si vuole gestire il capitalismo meglio della propria borghesia e si finisce invece nel più ingenuo nazionalsciovinismo

di Michele Nobile
(in base a discussioni e riflessioni svoltesi nella redazione di Utopia rossa) 

1. Due diverse prospettive politiche nella lotta contro l’«austerità».

Per necessità di sopravvivenza e senso di giustizia i lavoratori avvertono di non essere responsabili della crisi economica e di non doverne pagare i costi. È per questo motivo, dettato da un sano istinto di classe, che essi lottano contro le inique misure d’«austerità» del governo e rifiutano di pagare i costi del debito dello Stato, ora in gran parte conseguente dal salvataggio delle banche private.
Battersi contro l’«austerità» è però cosa molto diversa dal rivendicare che lo Stato capitalistico azzeri o «cancelli» i propri debiti con terzi, quali banche private, governi esteri, agenzie internazionali.
Quando lottano contro l’«austerità», i lavoratori affermano la propria autonomia come classe a fronte dello Stato capitalistico e dei padroni, nazionali ed esteri. Così facendo, infatti, essi si oppongono a un ulteriore tributo effettuato dallo Stato e destinato a finire nelle borse dei capitalisti e al circuito finanziario internazionale.
Se invece si rivendica che lo Stato «cancelli» i propri debiti, allora non si fa altro che attuare una versione «in grande» della logica per cui i lavoratori avrebbero interesse a difendere la «loro» impresa contro la concorrenza di altre imprese capitalistiche e dai creditori della stessa. Quel che un onesto sindacalista e l’istinto di classe trovano inaccettabile sul piano microeconomico aziendale, sembra invece essere diventato improvvisamente accettabile sul piano macroeconomico del debito statale: si crede di difendere gli interessi dei lavoratori, ma in realtà si «difende» lo Stato capitalistico dai suoi creditori. Il fatto è che la crisi economica è la crisi dei capitalisti privati e dello Stato capitalistico, entità socio-politiche del tutto separate dal mondo del lavoro fisico e mentale. Ragion per cui come i salariati non hanno alcun interesse a sacrificare la propria autonomia sindacale e politica per mettere il naso nella competizione intrapadronale, allo stesso modo essi non hanno alcun interesse a intrufolarsi nelle beghe tra governi, banche internazionali, istituzioni europee, Fondo monetario ecc. Rivendicare la «cancellazione» del debito, però, è proprio questo, con l’aggiunta di un pericoloso sentimento sciovinistico e nazionalistico.
L’autonomia di classe a fronte del «proprio» Stato e della propria borghesia è condizione per la solidarietà internazionale tra lavoratori. Inversamente, dalla difesa del «proprio» Stato capitalistico dai creditori esteri consegue che i creditori esteri dovranno «rifarsi» con i «loro» lavoratori, ovviamente con l’aiuto dei loro rispettivi Stati capitalistici: alla faccia dell’internazionalismo proletario di antica memoria…
Non dubito delle buone intenzioni di chi propone di cancellare il debito; ma, obiettivamente, abbiamo sul campo due opposte logiche politiche: una punta a determinare e rafforzare l’autonomia di classe contro lo Stato capitalistico, l’altra tende a identificare l’interesse di classe con quello dello Stato; l’una è orientata in senso internazionalistico, l’altra è implicitamente nazionalistica, e lo è per giunta all’interno di uno Stato imperialistico (italiano, nella fattispecie).

2. Gli appelli per «cancellare il debito» e «uscire dall’euro», tra nazionalismo e confusionismo.

Nel caso dell’appello per l’assemblea di Chianciano, i cui obiettivi sono «fuori dal debito! fuori dall’euro!», il nazionalismo è tanto chiaro quanto confuse sono le prospettive politiche. 
Vi si legge infatti che cancellare il debito è necessario per «la rinascita dell’Italia, per rilanciare l’economia produttiva, pubblica e privata»: dove, ovviamente, la «rinascita» di cui si parla non può che essere quella dell’economia capitalistica italiana (l’unica al momento esistente in Italia). Che se ne sia consapevoli o meno, ci si atteggia in tal modo a consiglieri della borghesia, le cui capacità di comprendonio si devono presumere, nonostante la sua plurisecolare esperienza e la conquista del mondo, gravemente limitate (chiaro erroe di prospettiva, che porta a sottovalutare la capacità di analisi e di azione dell’avversario). Ma, forse per placare un rimorso di coscienza, s’aggiunge: «per gettare le fondamenta di un nuovo ordine sociale».
In questo appello si chiede anche di «tornare alla lira», come se la lira fosse un qualche feticcio meno capitalistico dell’euro. O forse si pensa che in una società integralmente monetaria come quella capitalistica «l’economia produttiva» possa essere separata dal finanziamento dell’investimento e dallo sviluppo del circuito finanziario mondiale?
In una società capitalistica la moneta è sempre un rapporto sociale, la forma dello sfruttamento del lavoro salariato, non un «oggetto» neutro. Scambiando l’euro con la lira si avanza verso il socialismo quanto giocando alle tre carte in una pubblica piazza.
L’appello per Chianciano ha un merito, anche se assai discutibile: è più esplicito e più coerente di quello dell’assemblea romana del Primo ottobre, indetta da Cremaschi e da fette della ex estrema sinistra (da tempo inserite nella logica del sistema parlamentare capitalistico) sotto lo slogan generico «Dobbiamo fermarli». Leggendo attentamente, si vede che il nocciolo di questo secondo appello è «non pagare il debito», ma esso si trova annegato in una lista di obiettivi, molti dei quali - in astratto e presi singolarmente - sono giusti e condivisibili. Forse si pensa che pretendere di non far pagare il debito allo Stato e a determinati settori di borghesia italiana possa conferire unità all’insieme degli obiettivi e costituirne un’efficace sintesi politica? Questa pia illusione è invece una vera disgrazia in campo ideologico. Per fortuna, grazie alla sua irrealizzabilità, essa non può avere però conseguenze pratiche (allo stato attuale delle cose e dati gli attuali rapporti di forze).
Occorre decidere tra lottare contro l’offensiva padronale e governativa lasciando alla Casta politica italiana il compito di regolare i suoi (propri) conti con l’oligarchia internazionale; oppure finire col fungere da involontari e indesiderati «sindacalisti» dello Stato italiano presso i suoi creditori. Mi auguro che tale contraddizione venga risolta positivamente, perché l’obiettivo della «cancellazione» del debito distoglie da altri compiti di lotta sociale, più necessari e fecondi, introducendo anche una distorsione politica. Anticapitalismo e antistatalismo devono marciare insieme.

Il manifesto per l’assemblea romana tace sull’uscita dall’eurozona. Ma se si rivendica la cancellazione del debito dello Stato non se ne possono ignorare le conseguenze, e questa è la maggiore, perché (sempre in astratto) se non si pagano i debiti si viene espulsi certamente dall’area dell’euro e dalla Ue (ma probabilmente non dalla Nato, dove si potrebbe continuare ad avere un ruolo “costruttivo”).
È mia convinzione che rivendicare l’uscita dall’eurosistema (in pratica il ritorno alla lira, che piaccia o no) e la cancellazione del debito sia errato e controproducente: il velleitario surrogato di una controffensiva popolare che non c’è e che se prendesse corpo andrebbe indirizzata verso altre mete, più realistiche, concrete, meno ambigue e contrapposte agli interessi “nazionalistici” dello Stato e della borghesia italiana.
Chi rivendica la fuoriuscita dall’euro e la «cancellazione» si pone di fatto come consigliere della classe dominante circa il modo migliore, ovviamente più «sociale» o di «compromesso», per uscire dalla sua crisi. Ma questa classe sa benissimo e da moltissimo tempo come fare i propri affari e risolvere le proprie crisi. È certamente un modo doloroso e contraddittorio, perché la borghesia è rigorosamente e duramente classista: non per nulla è la classe dominante, la classe egemone.

3. Ma chi e come dovrebbe «cancellare» il debito e rompere con l’euro?

Rivendicare la «cancellazione» del debito implica quasi certamente l’espulsione o l’uscita dall’eurosistema. Di questa possibilità e delle sue conseguenze occorre essere ben consapevoli, se si vuole mantenere i piedi ben piantati sulla Terra.
Osservo innanzitutto che nessun governo può semplicemente tirare un frego rosso sul debito e allegramente «cancellarlo» in toto (questo è il motivo per cui impiego le virgolette). Anche un governo socialista dovrebbe specificare i termini della «cancellazione»: ciò sia per giustizia nei confronti dei lavoratori-risparmiatori, nazionali ed esteri, sia perché, a meno che non ci si metta nella prospettiva dell’autarchia alla Enver Hoxha e del «socialismo in un solo paese», occorre pure contrattare con governi e capitale estero. Ovviamente, il governo di un’economia socializzata, tanto più se avanzata, contratterebbe da una posizione enormemente più forte di quello di un’economia capitalistica, e ben diversi sarebbero gli scopi.
Uscire dall’eurosistema o «cancellare» il debito sono misure che, a loro volta, concorrono a creare nuove condizioni nelle quali condurre un qualche tipo di politica economica.
La mia vaghezza è qui deliberata, perché per uno Stato ci sono diversi modi di dichiararsi insolvente (di fare default) e di uscire dall’euro, alcuni dei quali decisamente sgradevoli per i lavoratori, per essere eufemistici, e invece relativamente convenienti, almeno come male minore, per la classe dominante, settori della quale potrebbero vedersi sgravati da una sorta di ipoteca. Proprio per questo motivo, e se non si vuole finire dalla padella nella brace, chi punta sulla «cancellazione» del debito e/o sull’uscita dall’eurozona deve porsi come immediata la questione del potere o, più prosaicamente, del governo che sia alternativo a un fantomatico «governo unico delle banche» (appello per Roma) o che sia espressione di un ipotetico «blocco popolare» (appello per Chianciano).

Sorge allora una domanda: nell’Italia del 2012 o del 2013, da quali partiti o entità politiche sarebbe costituito questo governo?

Di certo non si pensa al centrodestra. Restando seri, allora non resta che il centrosinistra, che Paolo Ferrero ha già cominciato a chiamare «il nuovo Ulivo» (Cpn di Rifondazione del 24 settembre 2011). 
In tal caso saremmo di fronte a un allarmante caso di patologica smemoratezza.
Ricordo che dal gennaio 1995 al maggio 2001 il centrosinistra riuscì a realizzare il più grande successo del capitalismo italiano almeno da trent’anni a quella parte: la «convergenza» con i parametri di Maastricht e l’entrata dell’Italia nella zona dell’euro. In quei 2211 giorni, a fronte dei 226 del primo governo Berlusconi, il centrosinistra fece il grosso del lavoro sporco necessario al capitale nazionale e internazionale. In quel periodo la disoccupazione rimase per anni al livello medio del 10% (non inferiore a quello attuale, ma allora non mi pare che si parlasse di depressione o di crollo del sistema), la precarietà divenne norma, l’attacco ai diritti socioeconomici fu contrabbandato come necessaria «modernizzazione» per rilanciare la competitività dell’impresa-Italia, il rigore fiscale a danno dei servizi pubblici fu esaltato come virtù civile. Tutto questo e altro venne fatto in nome dell’entrata dell’Italia nel sistema monetario europeo. I bombardamenti e la guerra furono dichiarati «umanitari» e ammantati di retorica europeistica. In quegli stessi anni il Prc, il Pdci e i Verdi, sostennero il centrosinistra, fino all’ultimo e con ministri Pdci e Verdi, per tutta la fase cruciale anche il Prc. Si ricorderà che nel 2008 i postcomunisti e i Verdi furono di nuovo nella maggioranza e nel governo insieme a Prodi, il grande protagonista delle privatizzazioni, della «convergenza» e della convinta adesione ai vincoli esterni posti da Maastricht e dalla permanenza nell’eurosistema.
Si vuole forse scherzare sulla possibilità che questi partiti possano gestire una soluzione «popolare» della crisi? O non si è imparato nulla dalla pagliacciata della «sinistra radicale» circa il «ponte» tra «palazzo» e piazza, giustamente punita dall’elettorato quando mandò a casa i 110 Forchettoni rossi che si erano appena insediati in Parlamento?
Il fatto è che il centrosinistra è una frazione politica dell’imperialismo italiano; e per il capitalismo internazionale è anche la frazione politica più affidabile, innanzitutto per le maggiori capacità di prevenire e attutire il conflitto sociale. 
Ma se invece si vuole essere antagonisti a entrambe le frazioni politiche già esistenti dell’imperialismo italiano, sia di centrosinistra sia di centrodestra (e alla terza opzione che si va delineando al «centro» con Casini, Fini, Rutelli), allora chi si vuole che governi la «cancellazione» e la «fuoriuscita» e gestisca una nuova politica economica e sociale? Chi ha la presunzione di candidarsi al governo, non in un futuro indeterminato, ma nell’orizzonte temporale della crisi in corso, allo scopo di tornare alla lira e cancellare il debito?
Sembra incredibile che mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici italiane subisce i costi e i contraccolpi dellla crisi pressoché inerme (cioè non riuscendo a difendere nulla delle proprie conquiste passate, in salari, sanità, previdenza e occupazione), ci sia qualcuno così ingenuo da rivendicare una linea economica alternativa (ma al di là del ritorno alla lira, non si sa bene quale) e addirittura un qualche genere di governo «alternativo» (anche se poi sappiamo che tanto alternativo non è, visto che alla fine sempre al centrosinistra guardano le stesse correnti politiche che ora propongono il ritorno alla lira o la cancellazione del debito, e che domani accetteranno sicuramente il blocco elettorale col centrosinistra alla luce della tradizionale italianissima politica del «male minore», del «meno peggio). Se si usasse un minimo di fraseologia vetero-anticapitalistica, questo velleitarismo verrebbe a identificarsi con la rivendicazione della... rivoluzione.
Sarà simpatico, sarà gratificante, esprimerà un’identità antagonistica, ma si tratta di mero propagandismo che non sposta di un millimetro i rapporti di forza reali, una diversione di tempo, intelligenza ed energie. E il catastrofismo nell’analisi economica – che sottende tutta questa frenetica mobilitazione per il ritorno alla lira e il non-pagamento del debito - non accorcia di un metro la lunga strada verso la rivoluzione, anzi la ostacola teoricamente. Per costruire un grande movimento sociale anticapitalista occorrono tempi più lunghi di quelli della crisi del debito sovrano, passi più piccoli ma politicamente difficili e discriminanti. E ovviamente, una conoscenza precisa del rapporto tra Stato capitalistico e interessi economici dell’imperialismo italiano (a loro volta parte integrante dell’imperialismo internazionale, come si è confermato anche nella riunione del G20 a Washington).
Oppure, mentre il governo Berlusconi traballa e si affaccia l’eventualità di elezioni, questa della «cancellazione» del debito è una sorta di lancio pubblicitario per una nuova operazione elettorale? Ecco, che tutto ciò prefiguri una manovra per le prossime elezioni politiche, suona più realistico e concreto.

4. Scenari realistici circa l’insolvenza, il ritorno alla lira, il crollo dell’eurozona.

Uscire dal sistema monetario europeo e «cancellare» il debito non solo non costituiscono una soluzione socialista della crisi economica, ma possono perfino portare al peggioramento della situazione e ad ancor più gravi misure di «austerità» per i comuni cittadini. Per quanto non sia la soluzione preferita, per governanti, banche e istituzioni internazionali il default (o insolvenza) e la ristrutturazione del debito estero sono sicuramente un’opzione accettabile come male minore.
Esaminiamo ora in quali circostanze potrebbero verificarsi e con quali conseguenze per i lavoratori.
L’ulteriore aggravarsi della crisi potrebbe precipitare l’insolvenza e l’uscita dall’eurosistema di un singolo paese, poniamo la Grecia. Che il governo sia di centrosinistra oppure di centrodestra, la differenza sarebbe minima. Sicuri, invece, i risultati. Quel che accadrebbe non è la «cancellazione», ma la ristrutturazione dei termini del pagamento del debito con l’estero (di cui una parte sarebbe cancellata), con i creditori in posizione forte, tale da garantire i propri interessi in senso finanziario e politico. Quanto ai comuni cittadini, sarebbero comunque essi a pagare per la ristrutturazione del debito: verrebbero imposte misure di «austerità» draconiane, ancora più gravi di quelle ora in essere. Stiamo già provando un assaggio. Quel poco che i capitalisti potrebbero guadagnare (loro, non i lavoratori) grazie alle esportazioni favorite dalla svalutazione sarebbe perso dall’impennata dei costi delle importazioni. Il servizio del debito risulterebbe ancor più gravoso, il finanziamento dell’investimento si arresterebbe, la disoccupazione crescerebbe ulteriormente. I salari reali crollerebbero sia a causa della disoccupazione che dell’inflazione. Il quadro, in sintesi, sarebbe quello di una depressione grave, prolungata, senza evidenti vie d’uscita se non dopo anni di «lacrime, sudore e - speriamo di no - sangue». A questo proposito disponiamo già della lunga e triste esperienza della «crisi del debito estero» dei cosiddetti «paesi in via di sviluppo», o di un paese «socialista» come la Polonia, negli anni Ottanta del secolo scorso.
Uscire dall’eurosistema e tornare alla lira non significa affatto sottrarsi a condizionalità antipopolari gravosissime. 

E se invece si verificasse il crollo dell’unione monetaria europea, ciascun paese tornando alla vecchia moneta?
Per questo caso occorre innanzitutto che chi propone l’uscita dall’euro chiarisca a se stesso e al prossimo il rapporto tra la prognosi e la terapia. Il punto è questo: se si prevede come inevitabile il crollo dell’eurosistema, tanto più in tempi relativamente brevi, allora premere per l’uscita anticipata e unilaterale è peggio che inutile, è decisamente dannoso per i lavoratori. Non è che il paese all’avanguardia nell’inesorabile processo conducente all’inevitabile crollo, che presumibilmente sarebbe un paese mediterraneo già inguaiato e poco competitivo, godrebbe di un qualche vantaggio. Al contrario, lo sventurato in oggetto sarebbe semplicemente il primo a essere investito dalla tempesta. Allora, è di gran lunga preferibile lasciare l’intera responsabilità ai governanti, se non si vuol finire, oltre che «mazziati» anche «cornificati». La casta politica europea, e in specie quella italiana, sarebbe infatti più che felice di alleggerire il proprio fallimento prendendosela con gli «irresponsabili» che, tra tante nefandezze, hanno pure fatto pressione per uscire dall’euro.
In ogni caso, il crollo della moneta comune non sarebbe affatto in se stesso un passo avanti verso una soluzione «popolare» della crisi. Tutti i capitalismi europei ne sarebbero danneggiati, ma alcuni meno di altri. Si verificherebbe un ciclo di svalutazioni competitive in un contesto di marasma finanziario, con accresciute pressioni sul contenimento del costo del lavoro e della domanda interna. Il divario tra la Germania e i paesi meno competitivi e più indebitati (come espresso, ad esempio, dai differenziali o spreads sul rendimento dei titoli di stato) aumenterebbe: la posizione dominante del capitalismo tedesco sarebbe ancora più forte. Viceversa, più gravi diventerebbero i problemi di finanziamento, dell’investimento, della produttività, dell’ambiente dei capitalismi più deboli.

5. Un’ipotesi fantapolitica.

Facciamo ora un’ipotesi diversa, al momento decisamente fantapolitica. Immaginiamo pure che sui palazzi del potere di un qualche paese giunga a sventolare la bandiera rossa o, se si preferisce, una bella bandiera arcobaleno. Se l’ipotesi pare eccessiva, allora si può più modestamente immaginare un grande e potente movimento popolare, tale da fermare l’offensiva capitalistica e conseguire importanti vittorie parziali; e magari (?) che sussista un «governo amico» (nei cui confronti, dati i precedenti, dovrebbe però valere la massima «dagli amici mi guardi Iddio, che ai nemici ci penso io»). Ebbene, potrebbe un governo rosso-arcobaleno rimanere nell’eurosistema così come è ora? La risposta è no, non potrebbe rimanerci (per i fini di questo articolo non è necessario discutere la politica della Banca centrale europea e le contraddizioni congenite dell’Unione monetaria europea, ragion per cui sorvolo rimandando alla bibliografia). 
Ma tempi e modi della rottura non sono irrilevanti. In effetti la casta politica europea cercherebbe di espellere dall’eurozona alla massima velocità possibile il paese con tale governo, ciò al fine preciso di recargli il danno più grande. Per l’opposto motivo, il suddetto governo dovrebbe cercare di ritardare l’espulsione e di farsi cacciare in modo tale da chiarire in modo inequivocabile ai popoli d’Europa la natura integralmente capitalistica della Bce, espressione di Stati imperialistici, e la sua conseguente politica aggressiva nei confronti dei lavoratori. Dovrebbe compiere un’operazione propagandistica su scala continentale. Il ragionamento, ripeto, è fantapolitico, ma credo s’intenda la differenza tra farsi espellere e fare il favore di andarsene subito e tranquillamente di propria volontà.
Completo il punto notando che, nel caso dell’attuale costruzione europea, la critica teorica e pratica alla borghesia deve vertere sul fatto che essa è incapace di unificare realmente l’Europa, di costruire una comunità di popoli che non sia solo un’unione monetaria che riproduce gerarchie di potere nazionale e genera al suo interno ulteriori squilibri socioeconomici.  Una borghesia (un insieme di borghesie) che è perfino incapace di costruire un suo Stato europeo dotato di un bilancio e di poteri che gli permettano di affrontare crisi come quella in corso. L’europeismo borghese non è solo capitalistico, è anche fermo alla dimensione della sommatoria di Stati nazionali.  E tutti coloro che contrappongono al falso internazionalismo del capitale il ritorno al nazionalismo statuale (della propria borghesia), stanno proponendo soluzioni retrograde, più reazionarie di quelle giù in atto, anche se, per fortuna, sono ormai irrealizzabili concretamente.
Bisogna però riconoscere che non è una bella cosa vedere personalità di provenienza marxista o comunque «di sinistra» che propongono passi indietro di tipo autarchico e nazionalistico, facendosi così scavalcare sul piano ideologico dalla stessa borghesia che si dice di voler combattere. Sul carattere fallimentare di queste posizioni retrograde e antistoriche ci sono stati dei precedenti con lo stalinismo e ognuno ha potuto vedere come è andata a finire. Tornare a proporre soluzioni nazionalistiche nel 2011 mi sembra una prova di testardaggine molto poco politica e comunque da respingere con decisione.

La politica rivoluzionaria non può prendere posizione per una delle parti negli affari e nei regolamenti di conti tra padroni e tra Stati capitalistici, se non a prezzo di rinunciare al principio basilare dell’autonomia a fronte del nemico di classe: per questo non può rivendicare il non-pagamento del debito contratto proprio da quel «nemico». Ma non può neanche prescindere dall’utilizzare ogni occasione - dapprima in forma di propaganda e appena possibile come obiettivo immediato per cui lottare - per sostenere una prospettiva storica superiore a quella borghese. È per questo che l’idea del ritorno alla lira appare nettamente in contrasto anche con la prospettiva (al momento solo utopica o propagandistica) della costruzione di una comunità socialista continentale che abbia in comune la moneta e molto altro, superando lo statalismo nazionale.

6. Conclusione retrospettiva.

Al termine del mio libro del 2006, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, e nella serie di articoli sulla crisi (pubblicati nel blog di Utopia rossa: www.utopiarossa.blogspot.com) ho sostenuto con forza che gli orientamenti di politica economica detti molto impropriamente «neoliberisti» sono radicati nella struttura contemporanea dell’economia mondiale. Da questo consegue, scrivevo, che i governanti e le borghesie non avrebbero né potuto né voluto modificare tali orientamenti anche in caso di grave crisi.
Inoltre, a differenza della maggior parte dei commentatori, giornalisti ed economisti di sinistra, non ho affatto visto, nell’esplodere della crisi nell’autunno 2008, né l’approssimarsi della catastrofe imminente né la fine delle politiche «neoliberali» e l’occasione per un nuovo new deal, quando molti ingenui cantavano liricamente l’avvento del messia Obama.
 Al contrario, sostenevo che gli Stati imperialistici sarebbero intervenuti pesantemente per «salvare» il sistema dalla caduta nella depressione, ma che questo avrebbe anche implicato l’utilizzo della crisi per sferrare un ancor più feroce attacco ai diritti socioeconomici dei lavoratori. Che è esattamente quanto accaduto e sta accadendo.
Scrivevo anche che, tanto più a lungo sarebbero durate le illusioni in una qualche positiva «evoluzione» dei partiti di «sinistra» e di centrosinistra, il voto nella logica del «male minore», il «sostegno critico» o la partecipazione al governo delle formazioni «comuniste» ed ecologiste, tanto più difficile sarebbe stata un’efficace mobilitazione difensiva dei lavoratori e della cittadinanza e, a maggior ragione, la costruzione di una grande movimento sociale anticapitalistico. 
Ora non paghiamo solo e principalmente il berlusconismo: dovrebbe ormai essere palese anche ai ciechi l’inesistenza di uno specifico «regime» statuale di Berlusconi. Mentre è in corso la più grave crisi economica del dopoguerra paghiamo in tutti i sensi troppi anni di illusioni e opportunismo, elettoralismo e degenerazione etico-politica. Non è una situazione dalla quale si esca con le impennate velleitarie e il confusionismo venato di sciovinismo; tantomeno lanciando appelli e campagne fondate sulla pia illusione che, urlando in piazza buoni consigli alla borghesia e alla Casta politica – in tanti, magari tantissimi - si possa ricavare il benché minimo vantaggio per il mondo del lavoro fisico e mentale. Come ho cercato di dimostrare, si rischia addirittura di fare peggio. Le più celebri campagne degli scorsi decenni  (per es. quella sul fanfascismo» o quella sul Referendum «a perdere» sull’art. 18) stanno lì a dimostrarlo. Lo dimostrerà anche questa, se non la si ferma in tempo

Appendice. Notarella storica.
Poiché i riferimenti alla depressione degli anni Trenta sono cosa comune, mi si scuserà una breve nota storica.

Nel 1933, nel pieno della Grande depressione o Great crash, gli Stati Uniti abbandonarono il gold exchange standard (il sistema monetario internazionale tra le due guerre, basato sull’oro e sulle valute più importanti). Non erano i primi e non furono gli ultimi. L’abbandono del vincolo aureo e la svalutazione erano misure diffuse e connesse: l’intenzione iniziale era quella di bloccare la spirale depressiva con misure eccezionali che violassero solo temporaneamente l’ortodossia finanziaria vigente. Rompere le catene dell’oro si rivelò come un passo necessario perché potesse svilupparsi la nuova frontiera della politica economica, allora eterodossa, della creazione di domanda da parte dello Stato. Ciò avvenne col massiccio piano di riarmo della Germania nazista, i lavori pubblici del new deal roosveltiano e, infine, l’esplodere della Guerra mondiale.
In tempi, combinazioni ed efficacia differenti a seconda degli Stati, si affermò la nuova ortodossia della gestione macroeconomica cosiddetta «keynesiana», crebbero il peso dei posti di lavoro statali nell’occupazione totale e del bilancio pubblico sul prodotto interno, si svilupparono strumenti e istituti che tendevano a contrastare automaticamente le crisi.
Il capitalismo rischiò di cadere nel baratro, ma sopravvisse alla depressione e avviò un processo di profonda trasformazione strutturale dei rapporti tra Stato ed economia, i cui profondi effetti sono tuttora operanti. Il 1929 può ripetersi, ma ora è meno probabile.

Ma i lavoratori statunitensi lottavano forse per la fuoriuscita dal sistema monetario internazionale e l’abbandono dell’odiata catena aurea? La risposta è un secco no. Quello era «affare» dei padroni. Nel popolo dei poveri, chi poteva si organizzava per sopravvivere in reti di  reciproco aiuto materiale. Gli operai scioperavano e a volte occupavano le fabbriche; si scontravano con la polizia, le guardie private e la milizia; si opponevano ai licenziamenti, rivendicavano aumenti salariali e chiedevano nuovi posti di lavoro, che durante il new deal vennero effettivamente creati direttamente dallo Stat. Mentre le amministrazioni roosveltiane cercavano a tentoni di stabilizzare l’economia capitalistica, i lavoratori nordamericani utilizzavano le normative come meglio potevano, forzandone l’applicazione, ma non si ponevano loro il compito di salvare il sistema o di riformare il sistema monetario internazionale. Quello era il compito di Franklin Delano Roosevelt e del suo staff. Salariati e disoccupati lottavano, invece, contro gli effetti sociali del sistema capitalistico, per i loro bisogni immediati, cercavano di darsi un’organizzazione autonoma di classe: e se alcune normative del new deal favorirono l’organizzazione sindacale in un quadro procedurale «neocorporativo», gli scioperi e le occupazioni di fabbriche maggiori avvennero senza o contro la volontà dei sindacati. Quanto più si radicalizzavano tanto meno i lavoratori si ponevano la questione di inventare loro una politica economica: con una coscienza di classe sviluppata comprendevano che per attuare una politica economica occorre avere in mano le leve del governo, del potere.
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Piccola bibliografia personale cui rinviare il lettore che voglia approfondire i temi qui accennati.

Nobile, Michele, Merce-natura ed ecosocialismo. Per la critica del «capitalismo reale», Erre emme/Massari editore, Roma 1993.
Id.Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, (collana Utopia rossa), Massari editore, Bolsena 2006.
Id.,  «La crisi nel contesto storico e la neo-ortodossia di Obama. Nota 1 sulla crisi», 8 marzo 2009, pubblicata nei Quaderni del Craet n. 9, marzo 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel blog di Utopia Rossa http://www.utopiarossa.org/Nobile%20note%sulla%20crisi%201.pdf.
Id.,  «Previsioni sui tassi di disoccupazione nei prossimi anni. Nota 2 sulla crisi. 10 aprile 2009», pubblicata nei Quaderni del Craet n. 10, giugno 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel blog di Utopia Rossa
Id.,  «Una pia illusione: la crisi economica come catarsi politica. Nota 3 sulla crisi. Giugno 2009», pubblicata nei Quaderni del Craet n. 11, settembre 2009, in rete nel sito www.craet.it e nel blog di Utopia Rossa
Id.,  «La disoccupazione, durante e oltre la crisi. Previsioni per i prossimi anni. Nota 4 sulla crisi. 26 giugno 2009», in rete nel blog di Utopia Rossa,
Id., «Sulla crisi economica», 14 novembre 2010, [risposta di Michele Nobile all'invio dell'articolo di Antonio Peredo, "Descubren a Marx" da parte di Enzo Valls, dall'Argentina.] in rete nel blog di Utopia Rossa,
Id., «La crisi dell’Irlanda, un esempio delle contraddizioni dell’Unione Europea. Nota 5 sulla crisi», aprile 2011, in rete nel blog di Utopia Rossa,