CONTENUTI DEL BLOG

martedì 20 settembre 2011

THE TREE OF LIFE (Terrence Malick, 2011), di Pino Bertelli

Io non invento niente, leggo molto. La mia originalità, e il mio fardello,
sta nel credere che il cinema sia fatto più per pensare che per raccontare storie.
(Jean-Luc Godard)

I. Il cinema brucia! Viva il cinema!

Un’annotazione fuori margine. La macchina/cinema è un’industria zuccheriera (anche quando fabbrica terrori e violenze inaudite) atta alla domesticazione degli sguardi e prona a tutte le servitù mercantili che la incensano e la proiettano nel cielo della stupidità planetaria... la macchina/cinema è parte integrante della merda sociale e politica nella quale sguazzano produttori, registi, attori... il pubblico che sostiene questa macchina desiderante è un insieme di banalità mitologiche che in cambio di un paio di ore d’imbecillità fotografate (sovente male) ricambia col consenso e acquista ogni sorta di oggetto che gronda dallo schermo (merchandising)... i passaggi dei film in televisione poi fanno il resto... pochi si accorgono che là dove la vita è finzione manipolata, lì i sogni sono appestati dalla morte sociale. Occorrerebbe un’impresa di demolizione spontanea che, con eleganza e disinvoltura, mettesse fine a questa baracconata estetizzante o mediocre che è il cinema/merce nel suo insieme... e con la noncuranza dei maestri carbonari che sapevano guardare le stelle con i sogni negli occhi e il coltello nelle mani, passare all’incendio dello schermo (con produttori, registi, attori e pubblico compresi)... uno strappo alla regola significa ricercare la bellezza e la giustizia che sono all’interno di ogni arte autentica. Il cinema brucia! Viva il cinema!
Jean-Luca Godard, il grande demistificatore del cinema brutalizzato, ha scardinato i meccanismi della narrazione cinematografica e fatto saltare in aria le regole di ripresa, fotografia, montaggio, attorialità... la sua (prolifica) opera cinematografica non è mai definita, chiusa, conclusa... è una forma — cinema che trapassa i generi (documentario, finzione, pamphlet) e abbatte le barriere tra realtà e costruzione cinematografica... tutto è vero quando ogni frammento di pellicola disvela il falso e fa della politica uno strumento di sollevazione dell’immaginario collettivo. Si tratta di “usare suoni ed immagini come unghie e denti su cui graffiare... Il cinema è come una battaglia: amore... odio... azione... violenza... in una parola: emozione (Jean-Luc Godard) o non è niente. Il cinema di Godard è una requisitoria contro la società omologata e la svendita della memoria storica popolare (dei valori autentici)... il cinema libertario di Godard ha anticipato le turbolenze generazionali del  ’68 (Le Petit soldat, un apologo contro la guerra, proibito dalla censura francese per più di due anni e mai veramente distribuito, 1960; Week-end-Un uomo e una donna da Sabato a Domenica, 1967; La cinese, 1967) e affabulato un cinema eversivo di grande presa del reale (La gaia scienza, censurato dalla tv francese, 1968; British Sound, co-regia con Jean-Henri Roger, cortometraggio per la tv britannica, 1969; Pravda, in collaborazione con il Groupe Dziga Vertov, 1969; Vento dell'est, in collaborazione con il Groupe Dziga Vertov, 1969; Lotte in Italia, in collaborazione con il  Groupe Dziga Vertov, commissionato dalla tv italiana e mai trasmesso, 1969; Vladimir et Rosa, in collaborazione con il Groupe Dziga Vertov, 1971; Crepa padrone, tutto va bene, co-regia con Jean-Pierre Gorin, 1972)... l’intera opera di questo maestro della sovversione non sospetta è un invito al viaggio in anarchia in favore degli uomini e delle donne di ogni tempo che osano passare dall’indignazione alla rivolta sociale.
Quando anche i ciechi e i sordomuti della critica velinara si accorsero della grandezza epica di questo randagio del cinema, assegnarono il Leone d’Oro a Venezia a Prénom Carmen (1982), tra elogi, insulti e fesserie varie, ci fu quel coglione di Paolo Mereghetti che scrisse: “Intrighi incomprensibili, dialoghi strampalati e pieni di citazioni, musica classica, fanciulle con le tette di fuori”... aveva visto un altro film, forse era Las orgías inconfesables de Emmanuelle di Jesús Franco... è difficile stabilire il confine che separa il cinema dagli affari... l’arte autentica rivela il profondo di ogni attentatore ai templi della servitù volontaria. “È  ora di smetterla di di fare film che parlano di politica. È ora di fare film in modo politico” (Jean-Luc Godard). I ragazzi, i precari, i disoccupati... che si sono riversati nelle piazze italiane in questo inizio di secolo ed hanno incrinato l’arroganza e l’indecenza dei partiti e dei governi... fuoriescono anche dall’insorgenza (non solo) cinematografica di questo “cane sciolto” che ha anticipato le rivolte sociali degli internauti e a partire dal 1975 ha teorizzato e messo in pratica l’uso delle tecnologie elettroniche, la sperimentazione in video e costruito film personali, girati a bassissimo costo, nella propria casa, con amici, attori disposti a non recitare ma a vivere la storia che interpretano e mostrato che al cannibalismo dei dominatori si può contrapporre la fantasia, la meraviglia e lo stupore dei ladri di sogni.

II. The Tree of Life

Il cinema di Terrence Malick figura un’anomalia all’interno della macchina/cinema hollywoodiana... tra il suo esordio sullo schermo, Lanton Mills (1969, cortometraggio) e The Tree of Life (2011, Palma d’oro al 64° Festival di Cannes) ha girato soltanto sei film (La rabbia giovane, 1973; I giorni del cielo, 1978; La sottile line rossa, 1998; The New WorldIl nuovo mondo, 2005 e The Tree of Life)... uno davvero brutto (The New WorldIl nuovo mondo e gli altri di notevole pregnanza etica/estetica... tuttavia, per noi, La rabbia giovane (tratto da un fatto di cronaca) resta un autentico gioiello libertario, quasi un manifesto contro l’ordine borghese, sospeso tra la rivolta dell’emarginazione e l’emarginazione del sistema spettacolare/parassitario che educa all’obbedienza e alla repressione i “cattivi soggetti”.
Malick è autore cinematografico (produttore, sceneggiatore, compositore) singolare, un visionario della “scatola delle illusioni”... non ama essere intervistato, fotografato e non va a ritirare i premi che qualche volta gli conferiscono (nemmeno a Cannes)... non ci è dato sapere se è per una naturale idiosincrasia verso la rapacità il mondo di cartapesta dorata di Hollywood o soltanto perché gli piace stare un po’ appartato da tutto quanto rappresenta la schiuma culturale che imperversa sui “tappeti rossi” delle rassegne, festival del cinema... ha fatto l’operaio ai pozzi di petrolio, professore di filosofia (al MIT), giornalista, ornitologo e tradotto alcuni saggi di Martin Heidegger... qualcuno lo ha affiancato all’autoisolamento di J.D. Salinger (il grande scrittore di Il giovane Holden)... non ci sembra così... la riservatezza di Malick non ci pare avere sfumature patologiche ma istanze etiche... la disperazione, la solitudine, la violenza (ma anche l’amore, la passione, la vitalità) dei personaggi dei suoi film, del resto, caratterizzano un fare — cinema intenso e complesso, che porta a riflettere sull’esistenza dell’uomo e la sopravvivenza del pianeta.
The Tree of Life è un film strano... anzi estraniante... gli interpreti (come accade nel grande cinema) sono secondari rispetto alla struttura filmica... Malick inserisce nell’opera un lungo documentario sulla nascita della vita sulla terra e altri frammenti visionari corredati da una musica insistente, scritta con la grandezza che gli è propria, dal francese  Alexandre Desplat (autore di colonne sonore cinematografiche di pregevole sensibilità, come quelle di La ragazza con l’orecchino di perla, 2003; The Queen, 2006; Il profeta, 2009 o Il discorso del re, 2010)... la storia è narrata per mezzo di flashback e incrocia la vita quotidiana di una famiglia con la grazia materica (laica) dell’universo come metafora dell’amore... Dio non c’entra e nemmeno i suoi profeti in terra... tantomeno le gerarchie ecclesiastiche... c’entra invece la possibilità di amare l’altro senza chiedere perché e di amare il mondo, e non violarlo nel profondo della sua bellezza.
Jack O'Brien è un ragazzo del Texas e insieme ai suoi fratelli riceve l’educazione autoritaria del padre (Brad Pitt, la cui interpretazione è piuttosto anonima, spesso fuori parte) che indica a tutti come avere successo nella vita... la madre dei ragazzi (Jessica Chastain) invece insegna loro i valori dell’amore e la pratica delle passioni e dei sentimenti... la famiglia appartiene al ceto medio, sono ferventi cattolici (siamo negli anni ’50) e il padre di Jack vuole da lui una crescita da adulto... i litigi con il figlio e la moglie sono frequenti, a volte imbarazzanti... accusa Jack di codardia e la moglie di passività... Jack rinnega l’esistenza di Dio e attraverso un tormentato percorso interiore desidera la morte del padre... la scomparsa (suicidio) del fratello di 19 anni lo angoscia e lo rende insicuro... quando è uomo (la forza interpretativa di Sean Penn è misurata, quanto straordinaria) è uno spirito perso all’interno di una società omologata e competitiva... cerca risposte al suo dolore di esistere e in chiusa del film Jack (in una lunga sequenza surreale/onirica) ritrova l’amore della madre, dei fratelli e si riconcilia con il padre.
Il film è piuttosto lungo... due anni di ripensamenti e tagli del regista hanno permesso di giungere dai 480 minuti iniziali (dicono le veline—stampa) fino ai 138 attuali... tuttavia il flusso delle immagini è così accattivante, atonale, avvolgente... che sembra di vedere una sinfonia visiva nella quale lo spettatore partecipa fortemente agli avvenimenti che debordano dallo schermo... The Tree of Life è un film antitelevisivo per eccellenza, le inquadrature, gli stacchi, la narrazione aperta non sono per nulla dedicati a futuri smerciamenti televisivi e quando approderà nei “tinelli” di tutto il mondo, avrà poco o nulla a che fare con l’incantamento che fuoriesce dal grande schermo... i riferimenti a 2001.Odissea nello spazio di Stanley Kubrick o la tenerezza simbolica del finale felliniano di La dolce vita sono evidenti, per noi, tuttavia il film di Malick contiene filamenti personali, intimi, vicini ai lavori un po’ marginali del regista inglese Terence Davies che, in modo particolare, in The Terence Davies Trilogy (1984), scava nello stesso giardino esistenziale di Malick con strumenti espressivi (e mezzi produttivi) meno eclatanti ma ugualmente   afferrati all’autobiografia.
Malick firma il soggetto, la sceneggiatura e la regia, molte inquadrature sono di una forza costruttiva imponente e rendono il film indimenticabile... la fotografia di Emmanuel Lubezki Morgenstern (che aveva già lavorato con Malick per The New WorldIl nuovo mondo, è di straordinaria fattura cromatica... il montaggio di Hank Corwin, Daniel Rezende, Billy Weber, Mark Yoshikawa e Jay Rabinowitz esegue una sorta di ventaglio visuale a sostegno di una potenza descrittiva che accompagna la scenografia di Jack Fisk fin dove l’immaginazione del regista s’invola... la genialità autoriale di Malick (sorretta da pochi efficienti dialoghi) ha la capacità di attanagliare alla lettura gli spettatori più diversi... la lezione scritturale dei migliori film di Clint Eastwood (per quanto discutibili sul piano etico) non sembra estranea all’opera di Malick, che tuttavia riesce a riattualizzare le spinte di rottura dell’assoggettamento (in virtù del principio secondo cui il frammento esprime il tutto, la parte che significa l’insieme) e intrecciare intelligenza estetica e linguaggio filmico.
La nascita, l’infanzia, l’adolescenza, la memoria, il futuro, il divenire (l’aldilà...) che Malick tratta con maestria ereticale e da grande navigatore della surrealtà maledetta, anche... sono depositati sul piano comunicazionale dell’incertezza e decifrano la limitatezza della vita di fronte al mistero della nascita della terra (la voce fuori campo del resto raccoglie la filosofia metafisica del texano e accompagna lo spettatore fin dentro la bellezza possibile del vivere insieme)... l’albero della vita cresce comunque e l’uomo è solo una piccola parte di qualcosa di universale che lo assorbe e sovente lo annienta o mortifica... la sola via verso la felicità possibile è rimandata agli individui che si chiamano fuori dalle educazioni, dalle fedi, delle ideologie imposte e fanno della propria diversità una forma di viaggio alla conoscenza di sé. La carica sovversiva dell’ironia non fa difetto a Malick... decongestiona luoghi e persone in cui si manifesta e sembra dire che non ci sono rinascimenti senza rivoluzioni personali... l’atto creativo è anche la qualità dell’espressione liberata da tutti i ciarpami del conformismo ed esprime le lacrime, il riso, l’invettiva o la bellezza di qualcosa che libera i sogni della verità impossibile e attanaglia gli uomini a una storia già scritta come teatro della crudeltà. The Tree of Life sostiene che tutto crea senso e nulla è innocente. Solo la libertà di sé fuoriesce da un’etica del dispendio e convoca il peggio (ma anche i suoi opposti) nel corpo trasfigurato della sopravvivenza dell’uomo e del mondo.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 7 volte luglio 2011


Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com