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domenica 15 maggio 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XV, di Pier Francesco Zarcone


EGITTO E TUNISIA; MAROCCO E GIORDANIA

Intanto in Egitto le cose vanno male
È assolutamente preoccupante quanto avvenuto al Cairo il 7 maggio scorso, quando i radicali islamici hanno incitato un’enorme folla all’assalto e incendio di due chiese cristiane copte con sparatorie e il risultato di ben 12 morti e 232 feriti. Tutto ciò solo avendo sparso la voce che i copti tenevano prigioniera una donna per impedirle di convertirsi all’Islām! E non si tratta del primo caso dopo l’abbattimento di Mubārak: ormai gli scontri fra islamici e copti (sarebbe meglio parlare di aggressioni di islamici a copti) vanno avanti da circa due mesi. La più prestigiosa stampa egiziana ha lanciato grida di allarme: per al-Ahram «il fuoco del fanatismo religoso mette in pericolo l’Egitto»; sulla stessa linea è al-Akhbar e al-Masri al-Yom sottolinea che «l’estremismo brucia la rivoluzione».
Dall’esercito, che ha la direzione del paese – cosa che non rassicura sullo svolgimento della transizione egiziana – è venuta una netta presa di posizione: a stretto giro un generale dinanzi alle telecamere del canale privato “On-Tv” ha dichiarato che i militari «non permetteranno a qualsivoglia corrente di imporre la sua egemonia in Egitto», e difatti c’è stata un’ondata di arresti tra i presunti responsabili dell’evento. A nome del governo, consapevole di quel che è in gioco, il ministro della Giustizia ‘Abd al-Aziz al-Ghindi – che dietro questi sanguinosi fatti vede la mano di seguaci del deposto Hosni Mubārak - ha annunciato l’immediato ricorso alla mano di ferro e l’applicazione delle leggi antiterrorrismo e di quelle a tutela dell’unità nazionale, che prevedono sanzioni fino alla pena di morte. Anche le massime autorità islamiche hanno manifestato la loro condanna. Da parte copta qualcuno ha osservato acutamente che questi atti servono agli estremisti più che altro per mostrare la loro esistenza. Con tutta probabilità è vero, ma resta il fatto che episodi del genere possono reiterarsi e magari essere fomentati da gruppi – non necessariamente religiosi – interessati a far tornare il paese sotto lo stato di emergenza per tornare a un regime alla Mubārak senza Mubārak.
Anche al-Ahram ritiene che il conflitto confessionale sia attizzato da gruppi controrivoluzionari che vedono i loro interessi minacciati dalla transizione in atto; il muftí ‘Alī Gomā (una delle maggiori autorità religiose islamiche) ha messo in guardia contro i fomentatori di una possibile guerra civile, e il Nobel Muhammad al-Baradai ha sottolineato l’urgenza di fare fronte «all’estremismo religioso e alle pratica da Medio Evo». Che non si tratti di questione da prendere sottogamba lo dimostra la decisione di rinviare la programmata visita al Bahrain e agli Emirati Arabi assunta dal Primo Ministro egiziano Essam Sharaf e il rinvio al Tribunale Militare di circa 200 arrestati dopo gli ultimi incidenti disposto dal Supremo Consiglio Militare (cioè l’organismo che detiene il vero potere dopo la caduta di Mubārak).
Che in un clima del genere aumenti fra i copti lo stimolo a emigrare è più che naturale, ma per l’Egitto sarebbe un danno enorme, a motivo del grande dinamismo sociale, culturale ed economico di questa minoranza.

Sospetti su manovre dell’Arabia Saudita?
Da una vita i più attenti osservatori delle politiche arabe quando trattano il problema dell’estremismo islamico – salafita, jihadista, terrorista o come pare meglio chiamarlo – indicano nel regno wahabita dell’Arabia Saudita, ufficialmente fedele alleato degli Stati Uniti, la maggiore centrale di appoggio propagandistico ideologico/religioso e di finanziamento proprio di tale estremismo. Se si considera infido il Pakistan, che dire allora dell’Arabia Saudita? Pur tuttavia gli Stati Uniti, sempre così pronti a bombardare e massacrare innocenti e colpevoli, finora non hanno mai mosso un dito; anzi. Non ci si chieda di spiegare l’arcano, poiché non ne abbiamo elementi e mezzi. Si spera solo che un giorno qualcuno sia in grado di farlo. Una cosa é certa, e la diciamo col cinismo della realpolitik: fino a quando esisterà il retrogrado, oscurantista, reazionario, antidemocratico e corrotto regime saudita ogni guerra, guerricciola, o raid contro il radicalismo islamico equivarrà a perdere vite umane, tempo e denaro nel fare rappezzature di qua e di là senza incidere sul bubbone fondamentale.
L’oscurantista versione wahabita dell’Islām sunnita – tale che se avesse prevalso fin dagli inizi della comunità musulmnana oggi nessuno storico o studioso delle religioni parlerebbe della grande civiltà arabo/islamica e al riguardo ci sarebbe al massimo una manciata di libri – si è formata nel XVIII secolo, fu un grande pericolo militare per il dominio turco in Arabia e Mesopotamia, e fu spazzato via solo grazie all’intervento dell’esercito pascià dell’Egitto ordinato dal sultano ottomano. Poi dopo la Grande Guerra, con l’appoggio britannico (Londra tradì ancora una volta lo sceriffo Hashimita della Mecca, Hussain) l’erede della dinastia dei Saūd che, fin dall’inizio era stata il braccio armato del wahabismo, si impadronì di quasi tutta la penisola araba (esclusi Yemen, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati del Golfo) fondando il primo Stato islamico integralista dell’epoca contemporanea. La scoperta del petrolio ha fatto sì che i Saūd e gli altri dinasti si trasformassero da pulciosi predoni beduini o ex pirati in ultraricchissimi signori dell’oro nero. E finché si sarà petrolio tali resteranno. Senza la rete mondiale di moschee, scuole islamiche, predicatori, finanziamenti, stazioni televisive e siti internet costituita dall’Arabia Saudita per la diffusione di un credo islamico obiettivamente di tipo salafita, oggi il radicalismo islamico avrebbe una consistenza non preoccupante e riducibile a un problema di polizia, più o meno grave a seconda dei posti . Oggi l’Arabia Saudita conduce una lotta senza tregua all’interno del mondo islamico per l’affermazione della sua ideologia religiosa e per la sconfitta delle altre versioni dell’Islām di tipo diverso, in primo luogo lo sciismo, nemico da sempre del sunnismo.

Un intreccio di conflitti sociali e manovre statuali
Nel mondo arabo sono in corso ribellioni non dirette né controllate da nuclei islamisti, ma è sempre bene non ipotecare il futuro e tenere presente, come la storia insegna, che per imprimere ai processi socio/politici una direzione invece di un’altra non è necessario trarre dalla propria parte la maggioranza della popolazione. I recenti scontri interconfessionali in Egitto stanno a dimostrare una ripresa dell’attività dei salafiti come perturbazione dell’ordine pubblico e creazione di premesse per destabilizzare il paese creando atmosfere di criminale fanatismo religioso. Al momento non si può affermare con certezza che dietro i fatti egiziani ci sia già la mano dei Sauditi, ma è certo che si tratta di una situazione il cui perdurare è utile ai loro interessi. In buona sostanza per l’Arabia Saudita sarebbe di primaria importanza incidere sul processo politico in atto in Egitto al fine di evitare che si stabilizzi in un assetto interno più democratico/borghese, produttivo di una politica estera diversa da quella effettuata da Mubārak.
L’Egitto è sempre stato un punto di riferimento per il mondo arabo al di là dell’esserne il paese più popoloso, e un’evoluzione nel senso sopra ipotizzato potrebbe essere sommamente pericoloso per l’arcaico regime saudita minandone ragion d’essere e legittimità. In fondo la custodia saudita dei Luoghi Santi islamici della Mecca e di Madinat an-Nabyyi (per gli italofoni “Medina”) nasce solo da una conquista militare che le ha strappate al citato Sceriffo della Mecca nel primo dopoguerra. Un discorso analogo può valere per gli altri Stati e micro-Stati della penisola araba.
In questa situazione l’Arabia Saudita - titolare di un sostanziale ruolo controtrivoluzionario, esercitabile sia verso l’Egitto sia verso la Tunisia – deve restare vigile e attiva anche nei confronti dell’Iran, centro fondamentale dello sciismo, onde evitare possibili convergenze ai suoi danni. Non vale obiettare che sarebbe come voler unire diavolo e acqua santa: la disinvoltura politica non è stata inventata dagli Arabi, ma anche loro hanno sempre saputo che il nemico del proprio nemico può diventare un alleato, soprattutto se non dispone di quinte colonne in casa del possibile alleato. E in Egitto non esistono minoranze sciite degne di menzione. Orbene, l’élite militare che controlla la transizione egiziana ha fornito chiari segnali della sua buona disposizione a riallacciare i rapporti diplomatici con Teheran, dopo una lunga interruzione a far tempo dal 1979. Il Ministro degli Esteri egiziano Nabil al-Arabi ha annunciato il suo prossimo incontro con il collega iraniano in occasione di una conferenza islamica in Idonesia. D’altro canto segni ulteriori di mutamenti nella politica estera egiziana ce ne sono, a cominciare dai rapporti con Israele; la riapertura del posto di frontiera con Gaza, governata da Hamas, va vista in quest’ottica.
L’Egitto, però, se davvero decidesse di imprimere una sterzata ai suoi rapporti internazionali, dovrà agire con estrema prudenza e in modo da ottenere compensazioni, giacché non si trova in una posizione di forza rispetto ai Sauditi e agli altri monarchi arabi. Infatti la sua disastrata economia ha bisogno degli investimenti dall’Arabia e di avere quei paesi come valvola di sfogo per le sue eccedenze di mano d’opera. Il problema è se l’Iran potrà sostituirsi ai magnati della penisola araba. Naturalmente le manovre saudite non saranno certo in grado di destabilizzare l’Egitto fino a salafitizzarlo, ma alle brutte la risposta egiziana sarà la meno proficua per gli interessi popolari: cioè una nuova dittatura militare.
  
    Rāshid al-Ghannūshī

Anche in Tunisia ci sono gravi problemi
In Tunisia le cose forse vanno ancora peggio. La notizia piè eclatante riguarda il coprifuoco a Tunisi e sobborghi dalle ore 21 alle 5 per un periodo indeterminato In un sobborgo degradato della capitale, Ettadhamen, bande di giovani si sono abbandonati al saccheggio di esercizi commerciali e gruppi di islamisti si sono subito costituiti in vigilantes; giovedì 4 maggio a Tunisi ci sono stati scontri fra polizia e manifestanti contro il governo provvisorio, con lanci di lagrimogeni, devastazioni, macchine bruciate e quant’altro. Incidenti si sono verificati anche in altre zone del centro e del sud della Tunisia. Le incursioni di bande giovanili continuano nelle periferie, e a fine luglio ci sarebbero le elezioni politiche, le prime dalla caduta della dittatura. Si terranno per quella data? Recenti dichiarazioni del capo del governo provvisorio, Béji Caïd Essebsi, mettono a rischio questa scadenza.
Si rincorrono le voci sui possibili fomentatori di questi disordini nell’estrema sinistra. Partigiani del defunto dittatore? Paesi vicini? Non manca chi addita come responsabe morale dei nuovi disordini colui che fu il primo Ministro dell’Interno dalla fuga di Ben ‘Alī, Farhat Rajhi. Uomo noto per la franchezza e l’onestà, aveva rilasciato un’intervista, poi diffusa su Facebook, in cui in buona sostanza veniva a dire – a livello di previsione - che su un eventuale vittoria elettorale del partito islamico Ennahda (Rinascita) di Rashid Gannushi (per lungo tempo esiliato da Ben ‘Alī) si proiettava l’ombra di un colpo di stato militare, supportato da ambienti della fascia costiera non disposti a cedere il potere. E su Farhat Rajhi si è scatenata la bufera. Già dimesso dalla carica di Ministro dell’Interno per aver cercato di fare pulizia nel suo Ministero, adesso il capo provvisorio dello Stato – Fuad Mebazza – che lo aveva nominato a capo di una commissione per i diritti umani, l’ha destituito anche da questo incarico. Sta di fatto che
in base ai sondaggi il 33,9% dei Tunisini ritiene che Farhat Rajhi non abbia detto niente di sballato, ed effettivamente la classe media guarda con estrema preoccupazione a una vittoria di Ennahda ccome atta a sconvolgere l’attuale assetto laico della società tunisina. Comunque un articolo del parigino Le Monde, pubblicato alla fine di aprile ha ripreso le dichiarazioni del capo di Ennahd, il sessantanovenne Rāshid al-Ghannūshī, dalle quali risulta una visione politica molto più affine al partito islamico oggi al governo in Turchia, e agli antipodi rispetto alle correnti islamiche salafite. Pur tuttavia nel suo partito esistono anche correnti ben più estreme, come quella del cofondatore di Ennahda, ‘Abd al-Fatah Moru, fautore della presa islamica del potere, che potrebbe anche presentare alle elezioni una propria lista.
Una cosa è certa, a mo’ di conclusione: Tunisia ed Egitto sono i due soli paesi finora liberatisi dalle dittature a furor di popolo, con parole d’ordine laiche e non religiose; questo ha creato enormi aspettative ed entusiasmi non solo nei paesi arabi, ma nel mondo intero; se per disgrazia in questi paesi si creassero o situazioni di instabilità criminale/ politica tale da portare a nuovi colpi di stato per restaurare un minimo di ordine civile, ovvero le elezioni dessero il potere a partiti islamici che poi si manifestino radicali e intolleranti, ovvero ancora le vittorie di partiti islamici dessero subito luogo a colpi di stato militari con o senza il bis dell’Algeria all’epoca della vittoria del Fronte Islamico di Saalvezza (Fis) – allora a suonare la campana a morto per le immediate speranze di tipo democratico, in occidente resteranno solo pochi testardi a contrapporsi a chi aveva guardato con eurocentrica diffidenza alle rivolte arabe del 2011. E quelle popolazioni resteranno abbandonate ai propri tiranni con o senza turbante, attirandosi fra l’altro le rappresaglie occidentali. 
                                                       
Marocco, Giordania e Golfo Persico.

Muhāmmad VI
del Marocco 
I primi due paesi geograficamente non hanno nulla in comune con quelli del Golfo. Politicamente, invece, il discorso è più articolato e ha a che fare con quello che abbiamo già definito “l’autunno arabo”, cioè lo stallo delle rivolte popolari e le contromisure che i regimi a rischio vanno attuando. I paesi arabi che si affacciano sul Golfo Persico – cioè Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar, Bahrain e Kuwait - 30 anni fa costituirono un organismo difensivo per la mutua assistenza in caso di aggressione a uno di essi: il Consiglio di Cooperazione del Golfo Arabico (infatti è Persico per l’Iran e Arabico per gli Arabi). Questa organizzazione dispone di un braccio armato detto “lo Scudo della Penisola” al momento di circa 40.000 uomini. Originariamente era in funzione antiraniana e antirachena.
Il 10 maggio di quest’anno i Ministri degli Esteri dei paesi uniti nel Ccg hanno invitato il lontano regno del Marocco a entrare in questa spoecie di club delle monarchie conservatrici arabe, e hanno espresso parere favorevole all’ingresso della Giordania. L’attuale situazione del mondo arabo spiega “che ci azzecchino” due paesi non appartenenti all’area (il Marocco dista 5.200 km dal Golfo!) all’interno di un organismo politico/militare locale: semplicemente il Ccg sta diventando la Santa Alleanza dei re arabi. Al Marocco l’appartenenza a un’alleanza interaraba può essere utile per appoggi diplomatici e finanziari – non certo per un supporto militare stante la distanza – essenzialmente in funzione antispagnola, a motivo dell’essere ancora aperto il contenzioso territoriale per zone marocchine appartenenti alla Spagna. L’interesse della Giordania può riguardare solo l’aiuto per le minacce interne, non correndo, oggi come oggi, rischi di attacchi esterni. Si tenga presente che qualche migliaio di militari giordani in pensione occupano posti di rilievo negli apparati di sicurezza dei paesi del Golfo. Ma sono in gioco anche forti aiuti economici da parte dei signori del petrolio.
Abdallāh II
di Giordania
Riguardo al Marocco sarà interessante vedere la risposta di Rabat all’offerta del Ccg. Infatti l’adesione non è sicura, per due concorrenti ordini di motivi: la monarchia alauita marocchina ci tiene a presentarsi come liberaleggiante e riformatrice, aura che la partecipazione a un club di trinariciuti reazionari vanificherebbe, poiché non vi è dubbio che il prezzo da pagare per Rabat (e per Amman) sarebbe la fine di ogni velleità di riforma; inoltre il Ccg è fortemente collegato con gli Stati Uniti (per es, il Bahrain ospita il comando della V Flotta degli Usa), ed essendo la Francia il principale partner politico/economico del Marocco, come reagirebbe Parigi a un evento in palese contrasto con i suoi interessi?