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giovedì 17 marzo 2011

ARABIA SAUDITA E SIRIA (MONDO ARABO IN RIVOLTA V), di Pier Francesco Zarcone


L’oscurantismo e l’assolutismo dell’Arabia Saudita

È uno Stato noto per essere uno dei maggiori produttori di petrolio, per avere una monarchia assolutista fra le più oscurantiste, per il fatto di relegare le donne in una subordinazione/esclusione indegna (anche del buon senso), per la straordinaria ricchezza del re e degli sceicchi - pari solo alla loro insensibiltà sociale - e per essere un importante e fedele alleato di Washington nell’area (cosa che, nell’insieme, è forse il minore dei mali sauditi). Di questo poco popolato paese, luogo di nascita del Profeta dell’Islam, terra di deserti e beduini, si può dire anche altro, generalmente sottaciuto dai grandi mezzi di (dis)informazione di massa (al riguardo va detto che giocano interessi petroliferi e interessi statunitensi).
Anche il presente saudita viene spiegato dal suo passato, i cui momenti cardine stanno nel XVIII secolo e subito dopo la Grande guerra del ‘14-’18. La lontananza temporale è priva di rilievo, stante la linea di continuità che lega eventi antichi alla contemporaneità. Orbene, nel 1744 si realizzò un’alleanza strategica - mai più rotta - fra la dinastia beduina dei Saud e una specie di “restauratore della purezza originaria dell’Islam” dal nome Muhammad Ibn Adb al-Whhab. Costui, ispirandosi ai contenuti elaborati nel XIII secolo della nostra era da una scuola giuridica musulmana, si fece banditore di un’interpretazione assolutamente restrittiva e puritana del Corano e della legge islamica, detta appunto wahhabita, mediante la forza delle armi. In quell’epoca i wahhabiti furono sonoramente sconfitti, ma non furono distrutte né la famiglia saudita né la sua adesione a quel movimento (religioso e giuridico allo stesso tempo). Il ritorno offensivo e vendicativo dei Saud sulla scena araba si ebbe dopo la disintegrazione dell’impero ottomano nel 1918, ed ebbe il suo momento-chiave nella cacciata dalla Mecca dello Sceriffo Husayn Ibn Ali, della famiglia Hashimita e quindi discendente del Profeta. I vincitori si impadronirono di quasi tutta la penisola araba, imposero il loro credo e Ibn Saud divenne il primo monarca dell’Arabia Saudita wahhabita. Vale a dire (e questo è importante) del primo Stato islamico definibile (a seconda del sistema concettuale a cui si aderisce) integralista, fondamentalista, radicale, oscurantista da Medio Evo ecc.
La scoperta di immensi giacimenti petroliferi fece sì che i Saud, da signori di uno scatolone di sabbia di scarsa importanza (anche perché chiuso a nord dalle dinastie nemiche degli Hashimiti di Transgiordania e Iraq, e a sud dai possedimenti britannici) diventassero strategicamente importanti per l’imperialismo statunitense. L’alluvione di ricchezza - che ha interessato essenzialmente la famiglia reale, tanto numerosa (22.000 membri) da essere paragonabile a una legione (di parassiti) - per molto tempo non modificò di molto la cultura e la mentalità arcaica e chiusa di quell’angolo di mondo. Cioè di una società beduina rimasta per secoli poco collegata con l’esterno. Sulle difficoltà affrontate da Ibn Saud - con il boom petrolifero - per evitare reazioni popolari violente contro l’avvento di manifestazioni diaboliche come il telefono e la radio esiste una vasta aneddotica. Vale la pena ricordare che eventi drammatici legati all’inaugurazione del primo canale televisivo saudita in lingua inglese portarono all’uccisione di re Faisal nella seconda metà degli anni ’70.
L’arretratezza è in buona parte rimasta, indipendentemente dalla successiva e massiccia introduzione delle tecnologie moderne, insieme a livelli enormi di corruzione. Ma non è questo a rendere l’Arabia Saudita una persistente fonte di pericolo per tutto il mondo. Lo è invece il fatto che essa da tempo finanzia a tutto spiano la costruzione di moschee e di scuole coraniche, nonché il mantenimento dei relativi imam di credo wahhabita là dove esistono comunità islamiche, in questo modo diffondendo una delle più reazionarie, oscurantiste e disumane versioni dell’Islam - prima per lo più confinata nella penisola araba - per tutta l’area di presenza musulmana nel mondo, Occidente compreso. Detto in sintesi, se il wahhabismo fosse stato dominante nel periodo dell’espansione musulmana fuori dalla penisola, oggi non si parlerebbe degli splendori della civiltà islamica fino agli Ottomani. Non è quindi senza significato la percentuale di sauditi assurti alla notorietà internazionale come attivi terroristi islamici (per la verità è significativa anche la presenza di Egiziani, ma per essi il profilo causale merita un discorso a parte). Di ciò assai poco si parla, come pure del “mistero” del persistere dell’appoggio statunitense al regime saudita. Forse si tratta di un mistero meno misterioso di quel che la logica dell’uomo della strada vorrebbe. Delle ragioni ci devono pur essere, essendo indiscutibile che i vertici politico/militari statunitensi ben conoscono il ruolo sovvertitore del wahhabismo saudita, e non mancherebbero consistenti scuse “umanitarie” per assimilare quel regno agli “Stati canaglia” di bushiana memoria. Evidentemente ci sono delle ragioni “superiori” per non fare fare all’Arabia Saudita la fine dell’Iraq; tanto più che anch’essa è piena di petrolio, e le si potrebbe applicare il motto coniato - con innegabile sensibilità politica - dai soldati Usa all’epoca della prima Guerra del Golfo: kick their ass and take their gas (dagli un calcio in culo e prendi il loro petrolio).
Per il regno wahhabita, però, questo non accade. Se andiamo un po’ a ritroso nel tempo riscontriamo il ruolo determinante proprio degli Stati Uniti nell’attivazione strumentale del radicalismo islamico, inizialmente usato contro la presenza sovietica in Afghanistan. Poi questa specie di “mostro di Frankenstein” alla fine (come era prevedibile) è fuoriuscito dal controllo del padrino a stelle e strisce, ma è continuata la sua utilità per gli interessi Usa come alibi per l’intervento in Afghanistan, per la politica perseguita in Iraq oltreché per l’appoggio ai regimi arabi dittatoriali (con la motivazione del loro ruolo di barriera contro islamismo radicale per la loro asserita laicità). E se si può quindi dire che un certo tasso di radicalismo islamico è servito all’imperialismo, va ricordato anche che l’Arabia Saudita sunnita svolge un’oggettivo ruolo anti-iraniano nel Golfo Persico.
Oggi cominciano a soffiare venti di ribellione anche contro la monarchia assoluta dei Saud, seppure lo scorso venerdì 11 marzo - dagli oppositori del regime preannunciato come ”venerdì della collera” - si sia risolto in un flop. Tuttavia è ancora presto per potere azzardare una qualche previsione sul corso degli eventi, ed è meglio limitarsi a comprendere quale sia la situazione sociopolitica all’interno di questa monarchia. Finora gli Stati Uniti sembrano tranquilli al riguardo, tant’è che Obama ha chiesto al Congresso di poter vendere all’Arabia Saudita, nei prossimi 20 anni, armi per 60 milioni di dollari (compresi 84 caccia F-15). I Saud saranno pure i pilastri della purezza islamica, tuttavia gli interventi effettuati da re Abdallah presso Obama al fine di evitare la caduta di Mubarak fanno capire quale sia il loro stato di preoccupazione, e anche il loro timore per un declino statunitense nella regione, per infedeli che siano gli yankees. Tanto più che finora Washington sulla questione del progetto atomico iraniano agli occhi dei Saud si è mostrato debole, non avendo dato seguito alle insistenze saudite per un attacco militare all’Iran. Forse è per un calo di fiducia negli Usa che a gennaio di quest’anno è stato assunto un atteggiamento morbido di fronte ai segnali di apertura del ministro degli esteri iraniano Ali Akbar Salehi.
Non è nota l’entità dei poveri in Arabia Saudita, ma lo è quella dei giovani - circa il 60%; se ne è parlato nella precedente corrispondenza - in possesso di una maggiore latitudine dell’orizzonte conoscitivo. Le donne sono la metà circa dei 25 milioni e settecentomila abitanti. Annualmente bussano alle porte del mercato del lavoro almeno 280.000 giovani e 270.000 ragazze, ma alta è la disoccupazione giovanile, e per chi riesce a trovare lavoro c’è uno stipendio medio di 830 dollari. Nulla rispetto all’ammontare dello stipendio mensile degli 8.000 principi di sangue reale: circa 250.000 dollari.
Re Abdallah cerca di atteggiarsi a riformatore di fronte a rivendicazioni - da parte dei giovani e di un po’ di meno giovani - comuni a quelle di altre parti del mondo arabo. Nota esponente di questa corrente è l’imprenditrice trentatreenne Khulood Salah al-Fahad che ha inviato al Re una petizione in cui si rivendica una vita libera e degna in consonanza con le società più sviluppate del mondo, in termini democrazia e rispetto per i diritti umani, e in 14 punti si chiedono creazione di posti di lavoro, eliminazione della povertà mediante una più equa distribuzione delle ricchezze, incentivi per l’acquisto delle case, lotta alla corruzione, fine delle lotte tribali e interconfessionali, liberazione dei circa 8.000 prigionieri politici, parificazione dei diritti della donna compreso l’accesso alla vita politica. E ovviamente l’evoluzione verso una monarchia costituzionale, strutturata come Stato di diritto con separazione dei tre poteri classici. Sulla stabilità politica del paese un consistente pericolo incombe dall’alto: il Re ha 87 anni e il principe ereditario - Sultan - oltre ad averne 83 soffre di Alzheimer! I contrasti per la successione nella folta schiera dei pretendenti potrebbe gettare il regno in una guerra civile a più fronti, quindi nel caos con disastrosi effetti sul mercato petrolifero mondiale.
Stiamo a vedere quale sarà l’evolversi della situazione tra scontento dal basso e intrighi di palazzo. Forse il Re darà il via per qualche contentino immediato, privo di effetti sulle strutture del paese, ma forse demagogicamente efficaci nel breve tempo, oltre a dedicare ulteriori maggiori cure agli apparati repressivi. Strada che altri già stanno percorrendo: si apprende che il governo dell’Oman ha regalato 400 dollari a ogni impiegato e promesso 50 mila nuovi posti di lavoro, che il Re del Bahrein ha promesso 50 mila nuove case, e l’Algeria ha aumentato del 50% il salario dei poliziotti addirittura con effetto retroattivo a far tempo dal 2008 (!).
Ma va seguìto con attenzione anche cosa accade tra la monarchia saudita e la minoranza sciita, su cui la proiezione di un’influenza iraniana è tutt’altro che teorica. I musulmani sciiti dell’Arabia Saudita sono una minoranza discriminata, ma sono maggioritari nella Provincia Orientale, cioè nel luogo dove maggiori sono le risorse petrolifere. E ricordiamo che sciita è anche la maggioranza della popolazione del Bahrein in sommossa (sciiti esistono anche negli Emirati Arabi, e nello Yemen sono il 46%). Il vero pericolo dal basso per la monarchia viene proprio dalle zone sciite che, se si ribellassero e esercitassero un effetto-traino sullo scontento della popolazione sunnita, potrebbero scatenare una profonda crisi. In queste zone una diffusa agitazione è in atto, e avventati interventi delle forze di repressione potrebbero rafforzarle e magari estenderle. Tra le conseguenze che più interessano l’imperialismo ci sono gli aumenti del prezzo del petrolio, previsti in detta ipotesi tra il 20 e il 25%.
Ovviamente se nel Bahrein il re Hamad bin Issa al-Khalifa venisse costretto alle modifiche costituzionali richieste dalla maggioranza del popolo, le ripercussioni ci sarebbero anche nella vicina Arabia Saudita, oltre che negli altri paesi del Golfo. Cosa che lo stesso re Abdallah sa benissimo, tant’è che il 14 marzo mille soldati sauditi sono entrati in Bahrein su richiesta del locale governo sotto la copertura di missione di aiuto del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), organismo di cui fanno parte Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein. Il maggiore partito sciita di quest’ultimo paese - il Wefaq - ha parlato di atto di guerra e di occupazione. Staremo a vedere. Comunque appare certo che questo intervento militare ha vari significati: innanzi tutto nelle sfere politica interne, come segnale dei monarchi dell’area nel senso che non ci saranno mutamenti politici e sociali su pressione delle piazze, e che non si ripeteranno gli esiti tunisini ed egiziani; inoltre, per quanto riguarda la politica estera, si tratta di un segnale all’Iran nel senso che i governi locali faranno tutto il possibile affinché nel Golfo la riscossa sciita non prevalga. E come osservazione finale si potrebbe accennare all’insegnamento derivante dall’attuale successo della reazione di Gheddafi contro il suo popolo in rivolta.
I governi imperialisti, dal canto loro, non possono non pensare agli effetti a vasto raggio derivabili dalla destabilizzazione sia delle monarchia saudita sia delle altre della penisola, vuoi per l’esplodere di problemi dinastici, vuoi per sommosse sciite e/o di sudditi sunniti stanchi del regime. Nell’area gli interessi Usa sono enormi e accresciuti dalla sindrome-Iran. Si consideri che, se il regno saudita ha per Washington l’importanza che abbiamo descritto, nelle prossimità esistono presenze statunitensi cardine: come nell’Oman, nel Bahrein (dove c’è una grande base navale), in Kuwait (dove è installato il centro logistico di appoggio alle operazioni in Iraq) e nel Qatar (dove risiedono il Comando centrale Usa e un’importante base aerea).
Scombussolamenti di rilievo in Arabia Saudita creerebbero una situazione propizia all’estendersi dell’influenza iraniana nella zona, ma non solo. Per essere chiari, interessi oggettivi a colmare eventuali (e magari auspicati) vuoti di presenza Usa nel Golfo Persico fanno capo a grosse ed emergenti realtà politico/economiche di tre continenti: Cina, India, Russia e Brasile. Le stesse realtà - quando si dice il caso! - che non hanno manifestato alcun interesse a creare un efficace fronte comune contro Gheddafi.
Qui sono in gioco interessi di potenze regionali che - al di là di pericolosi interventi diretti - non lascerebbero in tragica solitudine volenterose masse di arrabbiati male armati, protesi a rovesciare la dinastia saudita o quella del Bahrein. L’area è geostrategicamente cruciale, a motivo sia delle risorse energetiche sia della possibilità di controllare gli essenziali punti di passaggio del commercio marittimo mondiale che sono il canale di Suez e gli stretti di Ormuz e di Bab al-Mandab. Finora gli Stati Uniti - impantanati in Iraq e Afghanistan, privi di voce in capitolo verso l’incancrenito problema palestinese, senza prospettive sul problema del nucleare iraniano al di là di un devastante intervento militare dagli esiti imprevedibili - hanno assistito agli avvenimenti arabi senza sapere “che pesci pigliare”. Resta da vedere come si comporteranno a tutela dei loro interessi in Arabia e nel Golfo Persico. E infine c’è l’incognita di Israele, che nell’Arabia Saudita ha un alleato di fatto: se lì ci fosse un cambio di regime lo Stato sionista si troverebbe con paesi ostili anche in tutta la zona a sud-est.

Anche in Siria si protesta e si muore
Prima di entrare in argomento, una considerazione generale. Il dato formale dell’appoggio di polizia ed esercito a una dittatura, in sé e per sé non dice molto. Maggiori contenuti si ricavano invece dall’analisi del rapporto esistente fra i governi dittatoriali e gli indispensabili uomini in uniforme. Questi rapporti possono essere di vario tipo già in periodi non burrascosi, per poi emergere in modo netto quando il popolo si ribella e scende in piazza sfidando gli apparati repressivi di regime. In questi casi l’appoggio attivo della polizia in genere non manca, ma si tratta di bassa manovalanza. Il vero ago della bilancia è l’esercito, sia che si disgreghi, sia che invece assuma un ruolo attivo che svela il vero tipo dei suoi legami col regime. Tale ruolo può consistere nel fare meglio della polizia e reprimere nel sangue le sommosse; oppure nel passare dalla parte della popolazione; o ancora nel fare da arbitratore ultimo dicendo “basta” al dittatore, così costringendolo ad andarsene. In questi ultimi due casi attribuire all’esercito il ruolo filmico del “buono” sarebbe solo infantilismo: in realtà la giusta conclusione starebbe nel dire che in concreto l’esercito occupava nel sistema di potere socio-economico una posizione propria, autonoma si potrebbe dire, cioè non dipendente dagli atti graziosi del dittatore. Quindi, strumentalità dell’appoggio dell’esercito al regime e non-identificazione esistenziale con esso. Questo vorrebbe dire anche, per il popolo “vittorioso”, doversela poi vedere col potere militare. In Tunisia ed Egitto è andata così; in Libia no.
Si estende alla Siria il contagio dell’oriente nordafricano? La manifestazione inscenata il 15 marzo a Damasco da un pugno di giovani non diceva nulla, se non che si trattava di giovani coraggiosi. Ma gli avvenimenti del 18 marzo nella città di Deraa (al confine con la Giordania) - 4 morti e centinaia di feriti a opera delle forze di sicurezza - potrebbero essere l’inizio di un capitolo siriano nell’ambito della rivolta araba. Ma nell’insieme il regime locale si presenta come un osso duro da rodere. Il paese è dominato dal partito “socialista” Baath (che tante speranze aveva suscitato verso la metà del secolo scorso nel mondo arabo), e da almeno 30 anni è nelle mani della “dinastia repubblicana” fondata dal generale d’aviazione Hafiz al-Assad. Alla sua morte, nel 2000, gli è succeduto il figlio Bashar, in precedenza oculista a Londra. Lo slogan baathista inneggiante a “unità, libertà, socialismo” è un vuoto fonema da non prendere in considerazione. Punto di arrivo di orde di turisti occidentali e giapponesi, la Siria (27.700.000 abitanti) ha un tasso di disoccupazione del 20%, e 8,5% della popolazione vive sotto il livello di povertà; dal 1963 esiste lo stato di emergenza, la magistratura non è indipendente nella sua attività, i livelli di corruzione sono elevati. Nel complesso è un paese di giovani, che hanno buone scuole, buone università e usano massicciamente le moderne tecnologie della comunicazione.
Dal punto di vista socio-politico sarebbe potenzialmente una polveriera, presentandosi come sintesi di tutti i mali delle varie società arabe: ha una situazione socio-economica di tipo egiziano, il potere supremo è ereditario come in Giordania (che almeno è una monarchia) e come nell’Egitto prerivolta; l’apparato repressivo è maggiore di quelli tunisini, egiziani e libici messi insieme, e come il Bahrein è governato dittatorialmente da una minoranza religiosa: nella specie si tratta degli alauiti, seguaci di un’eresia musulmana di antica origine sciita, per la quale il defunto Hafiz al-Assad pensò bene di farsi rilasciare dall’ayatollah Khomeini una patente ricognitiva dell’appartenenza allo sciismo a tutti gli effetti. Ma il paese presenta sue specificità.
La società siriana è assai composita, sia religiosamente sia etnicamente. La maggioranza della popolazione è musulmana sunnita, ma il potere è degli alauiti; esistono minoranze crisitiane copte e ortodosse (il Natale è festa nazionale); oltre ai Siriani autoctoni (per così dire) ci sono minoranze curde, circasse e turcomanne. Naturalmente, in una situazione del genere, la tecnica del divide et impera viene utilizzata dal regime baathista con l’accortezza di chi dietro di sé ha secoli e secoli di gestione del potere assoluto.
Esistono anche i radicali islamici, nella specie la Fratellanza Musulmana, che al momento sembra poco in grado di nuocere, a seguito degli avvenimenti del 1982 nella città di Hama, pressocché dimenticata in Occidente. All’epoca i Fratelli Musulmani avevano scelto la pericolosa strada degli attentati e delle azioni armate, e proprio in Hama avevano il loro maggiore centro operativo e di diffusione. In tale situazione, Hafiz al-Hassad - detto “il leone di Damasco” - non si limitò a ruggire e mandò l’esercito in quella città per fare piazza pulita degli integralisti. Dopo tre giorni di bombardamenti indiscriminati, sostanziale devastazione di Hama e almeno 30.000 morti di ogni sesso ed età, la Fratellanza Musulmana fu messa a tacere.
Il fatto è che in Siria l’esercito, anch’esso ferreamente in mani alauite (insieme ai servizi di sicurezza), si identifica completamente col regime; i militari in quanto tali sono dei privilegiati e ben sanno che una vittoriosa riscossa sunnita porterebbe a un bagno di sangue alauita. Inoltre, la prospettiva di una caduta del regime - oltre a non trovare entusiaste le minoranze non-musulmane per ovvi motivi - viene vista con timore anche da settori borghesi e popolari della società siriana a motivo del disordine politico-sociale che ne deriverebbe. Gioca molto, in questo, l’esperienza derivante dalle centinaia di migliaia di profughi iracheni rifugiatisi in Siria dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003.
La solidità del regime (quanto meno fino a oggi) non deriva solo dalla forza e dall’efficienza dei servizi di sicurezza e dell’esercito, ma anche dal fatto che, a differenza di Mubarak, gli Assad non hanno commesso l’errore (dal punto di vista di una dittatura) di lasciare spazi alla società civile: quindi, niente giornali più o meno indipendenti, niente sindacati capaci di ritagliarsi margini autonomi, niente organizzazioni non-governative, chiusura dei forum di dialogo. Grandi forze di opposizione non sembrano esserci. Oggi la Fratellanza Musulmana viene ritenuta debole, e i Curdi - la cui capacità di mobilitazione in sé esiste - ancora ricordano come le loro agitazioni furono duramente represse da Bashar al-Assad.
Di recente un giornale portoghese ha dedicato alla Siria un articolo dal titolo “Non ci sarà Primavera a Damasco”, che è realistico solo se riferito all’immediato. Per i tempi medi è meglio non fare previsioni, stante lo spontaneismo delle rivolte arabe finora esplose. Molto dipenderà anche dal contesto arabo globale, fermo restando che dopo il sostanziale fallimento della rivolta libica e l’intervento militare saudita in Bahrein l’atmosfera non è per nulla buona. Anzi, c’è un duplice rischio: che la Tunisia e l’Egitto restino delle eccezioni, e che in essi si inneschino processi di retrocessione (cioè reazionari). Però il futuro resta imprevedibile.

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