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martedì 8 marzo 2011

LIBIA: UNA BATTAGLIA IN CORSO (MONDO ARABO IN RIVOLTA III), di Pier Francesco Zarcone


La Libia merita un discorso specifico anche perché le prime spallate popolari non hanno costretto a ritirarsi il dittatore locale, ed è in atto una guerra civile dalla durata e dagli esiti non prevedibili, che ha diviso il paese in zona controllata dai ribelli e zona ancora sotto il controllo di Tripoli. La Libia, poi, interessa molto più da vicino l’Italia, sia per il petrolio sia per i consistenti intrecci economico/finanziari costituitisi negli ultimi decenni. Cominciamo con questi ultimi.

Il tiranno che comprò l’Occidente
Poiché da sempre capitalisti e gestori del capitale hanno sostituito cuore e coscienza con portafogli-titoli e monetari,  non stupisce affatto l’imbarazzato sconcerto con cui i centri economici e finanziari d’Occidente hanno accolto la rivolta libica (che speriamo finisca bene). Una prestigiosa rivista portoghese ha dedicato a Muhammar Gheddafi (Khadafi, in arabo) un articolo dal titolo assolutamente azzeccato: “Il tiranno che comprò l’Occidente”. Al G20 realizzato all’Aquila nel luglio del 2009 è stato palese quanta importanza i cosiddetti “grandi della Terra” attribuissero al folklorico Colonnello travestito da umile beduino della Sirte; in realtà egli è ricco sfondato, in quanto il patrimonio all’estero del suo clan è ritenuto di  almeno 50.000 milioni di dollari; e in atto Gheddafi disporrebbe di liquidi in patria per 65.000 milioni di euro. Il suo sdoganamento internazionale si deve all’indimenticato George W.Bush, e da allora Gheddafi ne ha fatti di affari e di soldi. I Libici possono pure essere massacrati ma in Italia, Gran Bretagna, Germania e Turchia si fibrilla per la sorte del “cane pazzo di Tripoli”, ottimo partner economico e ancora in grado di fare brutti scherzi per vendetta. Oltre che a pensare al prossimo arrivo di profughi non certo per aiutarli.
L’Italia - e non solo grazie a Berlusconi, perché anche il centrosinistra è stato complice - costituisce il maggior partner commerciale della Libia; poi vengono Germania e Regno Unito.  Ma questi paesi non sono stati i soli ad aprire le porte a chi fino a non molto tempo fa era considerato un pericoloso fomentatore di aggressioni nell’Africa subsahariana e di terrorismo internazionale. La palma spetta però all’Italico stivale, con maggiore accelerazione dopo il Trattato di Amicizia dell’agosto del 2008.  Oggi il governo italiano sembra allineato con gli altri governi europei e con l’Onu per una politica sanzionatoria verso Gheddafi, ma ancora una volta la famosa doppiezza dei governi nostrani si è fatta vedere: l’Italia non ha ancora congelato i beni di Gheddafi e/o della Libia, mentre gli Usa lo hanno fatto per almeno 25.000 milioni. In Italia Gheddafi ha realizzato un bel pacchetto di investimenti, che giustifica la fasulla “chiusura tecnica” della Borsa di Milano del 22 febbraio scorso, in realtà dovuta alla paura che il potere del Colonnello venisse abbattuto.
Non ne faremo certo un noioso inventario; ricordiamo solo alcuni elementi: il Colonnello sirtico è il quinto investitore individuale (per volume di affari) alla Borsa di Milano; una sua impresa - la Lafico - ha il 2% del capitale della Fiat, 7,5% di quello della Juventus; la Lybian Investment Authority (Lia) ha l’1% dell’Eni; libico è il 7,5% del capitale dell’Unicredit (cioè della maggiore banca italiana) per 2.500 milioni di euro, e fra il 2008 e il 2010 la Central Bank of Lybia, la Lybian Foreign Bank e la Lia ne hanno comprato un ulteriore 6,9%; e mentre al Consiglio di sicurezza dell’Onu si sfogliava un’deale margherita per stabilire cosa fare verso il regime di Tripoli, si è saputo che la Libia aveva appena comprato il 2% delle azioni della Finmeccanica, cioè dell’ottavo produttore al mondo di armi e equipaggiamenti aoreospaziali, nonché uno dei principali fornitori del Pentagono. E non parliamo dei grossi investimenti in Gran Bretagna, Germania e Turchia. A proposito di Turchia, si è saputo due mesi fa che in Libia esiste addirittura un “Premio Gheddafi per i diritti umani” (sic!), con cui è stato premiato il premier turco Recep Tayyip Erdoğan, a fronte dei contratti multimiliardari del suo paese con la Libia. Va infine notato quanto poco senso abbia fare distinzioni fra patrimonio di Gheddafi e famiglia, da un lato, e dall’altro delle società libiche, perché in Libia Gheddafi è (era?) il padrone. L’ex ambasciatore Sergio Romano, giustamente, ha parlato in proposito di “Stato patrimoniale”.
L’Italia - che trova nell’immagine del baciamano di Berlusconi a Gheddafi una efficace allegoria della sua politica estera - sempre pronta a cambiare bandiera, tuttavia non deve fare molto la spiritosa col dittatore della “quarta sponda”, poiché se costui le facesse lo scherzetto di dare via a vendite massicce dei suoi investimenti italiani - magari per fare cassa e pagare mercenari, oltre che per ripicca - tutti gli osservatori economici concordano sul fatto che sarebbe un disastro economico per le Borse nostrane e per l’economia in genere. Comunque non pare che il governo Berlusconi si preoccupi più di tanto della cosa. Incoscienza o ne sa più di tanti altri? Peraltro i più “avveduti” finanzieri italiani (ed esteri) si arrovellano oggi sul problema: “ma se cade Gheddafi, con chi facciamo affari? Che tipi saranno i successori”? Purtroppo non si può ancora dire se questi tormentosi problemi si concretizzeranno, poiché il Libia la situazione è – nella migliore delle ipotesi – in fase di stallo. Gheddafi ha di fronte masse popolari armate alla bell’e meglio, e nelle mani una marea di soldi liquidi con cui potrebbe fare affluire, con una certa celerità, mercenari e armamenti. Ciò perché - quand’anche la rivolta, dal 15 febbraio a oggi, si sia impadronita della Cirenaica e sia estesa alla Tripolitania - Gheddafi mantiene il controllo della maggior parte degli aeroporti e delle basi aeree, con particolare riguardo a quella di Sebha nel Fezzan (cioè nel sud della Libia), utilizzabili senza problemi per fare arrivare mercenari africani.

La situazione di stallo gioca a favore di Gheddafi
Al momento gli oppositori non paiono prossimi alla conquista di Tripoli e Gheddafi risulta essere lungi dal rimettere celermente le mani sulla parte orientale del paese. Tuttavia egli prova a contrattaccare. Si ritiene che possa disporre, fra militari e mercenari, ancora di circa 12.000 combattenti. La Lega Araba è un bell’organismo che sta lì - ovviamente, anche tenuto conto di quel che sono i governi arabi. Certo è che lo stallo sul campo di battaglia influisce sulle teoriche opzioni a disposizione delle potenze straniere che abbiano interesse alla caduta di Gheddafi, ma in modo ancora non determinabile. Questo profilo va esaminato prima in sé e per sé, e quindi in base ai dati esistenti oggi. Nella prima ottica c’è da dire che  un intervento straniero all’area - cioè degli Usa o della Nato – potrebbe forse abbattere materialmente Gheddafi, ma con costi politici che sarebbero enormi per il popolo libico e in prospettiva pesanti per gli stessi Statunitensi, in quanto la Lega Araba si è espressa contro e Recep Tayyip Erdoğan (certo più riconoscente di Berlusconi) ha avuto modo di fare presente che la Nato non deve permettersi “nemmeno” di pensare a un intervento armato. Comunque non è escludibile in assoluto. Per un altro verso abbiamo che i ribelli chiedono disperatamente aiuti militari, almeno come invio di armamenti.
La fase di stallo gioca a favore di Gheddafi. Al di lá delle sue reiterate minacce di epocali bagni di sangue, forse non è azzardato pensare che egli sia consapevole della proficuità (per lui) di un negoziato che non lo veda ancora sconfitto. Si potrebbe parlare di una sua strategia specifica: in mancanza dell’attuale possibilità di riconquistare la Cirenaica, mantenere e rafforzare il controllo della Tripolitania. In questo modo potrebbe anche riuscire a dividere l’opinione pubblica araba, e dei rispettivi governi, attraverso il pericolo della divisione della Libia, e di una possibile balcanizzazione dell’area.
Una divisione della Libia con Gheddafi padrone della parte occidentale sarebbe come una bomba a tempo. Avere a che fare con un simile personaggio ancora in campo e imprevedibilmente ostile e desideroso di vendicarsi di tutti i suoi partner che l’hanno mollato nel momento del bisogno, suscita uno scenario facilmente immaginabile. E questo potrebbe spingere influenti governi arabi a mediare per una tregua e un negoziato fra Gheddafi e gli oppositori. Allontanerebbe l’ipotesi di interventi occidentali, ma - tenuto conto di come si comporterebbe certamente Gheddafi - sarebbe una mazzata per i ribelli. A meno che qualche Stato arabo non si decida a dare a questi ultimi aiuti militari tali da sconfiggere il dittatore.

Interventi “umanitari” e tribalismo
Lo stallo potrebbe finire con un Gheddafi che raccoglie forze ulteriori per poi passare alla riconquista dei territori orientali, e allora un aiuto militare esterno ai ribelli di Bengasi e Tobruk potrebbe prendere corpo. Il problema sta in “chi” lo attuerebbe, poiché al “chi” corrispondono i “prezzi” e la cosa sarebbe determinante per la popolazione e per il futuro del paese. Siamo troppo abituati alle lacrime di coccodrillo dell’imperialismo prima dei suoi “interventi umanitari”, che poi sono interventi militari classici, per credergli proprio riguardo alla Libia; tanto più che in questo caso ci troviamo di fronte a un atteggiamento diverso da quello tenuto di fronte ai fatti tunisini ed egiziani. A un certo punto Gheddafi ha scelto di fare affari con l’imperialismo e di fargliene fare. Tale disinvoltura non poteva certo garantirgli una perpetua affezione dei suoi partners, i quali oggi sono innanzi tutto preoccupati per le sorti delle enormi risorse energetiche della Libia, le maggiori dell’Africa.
Ma c’è qualcosa di più a gettare ombre sinistre su interventi “umanitari” attuati da potenze imperialistiche: riflettiamocile un momento. Le rivolte arabe in corso minacciano la “consolidata” cintura di governi arabi filostatunitensi, e in due punti nodali di essa - Tunisia ed Egitto - i garanti della “stabilità” sono caduti; quei paesi si trovano in una fase transitoria dagli esiti dubbi che potrebbe portare a un rafforzamento dei nazionalismi, quanto meno. Per questo la Libia assume un indiscutibile ruolo strategico in virtù della sua posizione mediana proprio fra Tunisia ed Egitto. Un’eventuale “normalizzazione” della crisi libica al preezzo di un’ipoteca politico/militare dell’imperialismo andrebbe davvero contro gli attuali regimi di Yemen, Bahrain, Oman ecc.? Favorirebbe le istanze di liberazione delle masse arabe?
La risposta positiva può provenire solo da un inveterato ingenuo. Si deve avere il coraggio storico di ribadire che i governi insediati a Washington, Londra, Parigi ecc. restano sempre dei comitati di affari delle rispettive borghesie e delle multinazionali, o dei loro esecutori. E quale sia l’agire di questi bei soggetti verso il mondo arabo (e non solo) ormai lo si dovrebbe sapere. Non è quindi casuale, ma significativo, che sul giornale conservatore britannico Daily Telegraph il 24 febbraio scorso sia stato scritto che, dopo la crisi economica del 2008, e dopo la caduta di due governi arabi strategicamente fondamentali, si vedrà con il comportamento di fronte alla crisi libica se gli Stati Uniti accetteranno la riduzione del loro statuto di grande potenza «con gentilezza, oppure se risponderanno con violenza, come gli imperi in difficoltà hanno la tendenza storica a fare». 
Una via di uscita meno drammatica e pericolosa potenzialmente esisterebbe, se qualcuno – non necessariamente occidentale - avesse l’intelligenza, la cultura e le capacità necessarie per sfruttare una caratteristica peculiare della Libia, che contribuisce a fare per essa un discorso a parte. Ci riferiamo al fatto dell’estrema tribalizzazione della società libica, in cui i rapporti di appartenenza alle singole tribù, e ai clan che le compongono, prevalgono su ogni altro legame sociale, privato e pubblico, ivi compreso quello nazionale. Già varie tribù si sono pronunciate contro Gheddafi, ma altre mancano all’appello. Si tratta di una situazione idonea a rendere il Colonnello estremamente vulnerabile, se solo si convincessero anche altre tribù - con strumenti materiali e non - a passare dalla parte dei ribelli, e allora tutto si risolverebbe fra Libici. Altrimenti, sarà comunque un disastro.