[Recensione de I Forchettoni rossi, Quaderni di Utopia Rossa, Massari editore]
LETTURE DI CLASSE
ROBERTO MASSARI (a cura di), I Forchettoni rossi, testi di Massimo Bontempelli, Michele Nobile, Marino Badiale, Antonella Marazzi, Andrea Furlan, Massari editore, Bolsena 2006.
Il Partito della Rifondazione Comunista, nato in opposizione alla svolta liberista e filoatlantica del Partito Comunista Italiano (Bolognina, 1989), in un breve volger di tempo, ne ha replicato la parabola, traendone pochi vantaggi (tutti per i dirigenti) e molti danni (tutti per i militanti).
L’approdo capitalistico del PCI fu lungo e travagliato. Fu un viaggio che, iniziato nel 1926, al congresso di Lione, raggiunse la meta nei primi anni ‘90, quando, nei frangenti di Tangentopoli, gli eredi del partito «di lotta e di governo» abbandonarono la lotta e divennero partito «di governo», sposando in toto le ragioni del capitalismo: coprirono la DC, sommersa dagli scandali (in primis il grande privatizzatore Prodi), si legarono ad alcune grandi banche, sostennero le privatizzazioni, aderirono alla NATO e bombardarono i Serbi.
Fu un essenziale salto di qualità, che pochi colsero in tutta la sua importanza, anche perché, da anni, il PCI aveva abbandonato ogni velleità rivoluzionaria, se mai ne ebbe; dagli anni ‘70, l’opinione pubblica considerava il PCI un partito riformista di stampo socialdemocratico; le uniche riserve riguardavano i suoi legami con Mosca, che si troncarono negli anni ‘80. Come altri partiti operai, il PCI aveva dato vita a una solida struttura economica, basata soprattutto sulle cooperative; un «modello» che, pur non essendo antagonista, si configurava come alternativo al dominante sistema capitalistico, alimentando molte illusioni su una gestione diversa dell’economia. Ma alimentava soprattutto quel solido ceto di funzionari, decritto all’inizio del Novecento, da Robert Michels, che ha impresso l’impronta riformista ai partiti socialisti.
Nel corso degli anni ‘90 avvenne il salto di qualità, che portò gli ex PCI alla piena fusione/assimilazione con il capitale, sfilacciando gli ormai tenui legami con la classe operaia e con i lavoratori in genere. In seno al capitale, i PDS-PD sono divenuti un ceto politico (una «casta», secondo l’attuale lessico politologico), che si autoriproduce, secondo logiche puramente amministrative, o meglio di potere, nella gestione della cosa pubblica, senza dar spazio ad alcuna prospettiva di riforme, se non a quelle volute dal capitale, che l’esperienza ci mostra essere delle controriforme. Non per nulla, per questo ceto politico, l’obiettivo primario è la conquista e il mantenimento del seggio in Parlamento, fonte di vantaggi, in termini di quattrini, carriera e affari.
Consequenziale all’evoluzione dei PDS-PD, è stata la rapida metamorfosi del PRC, che gli autori de I Forchettoni rossi descrivono con grande puntiglio. Essi ripercorrono le acrobazie ideologiche, e le vere e proprie menzogne, grazie alle quali, alle soglie del nuovo millennio (vedi il Comitato Politico Nazionale del 3-4 luglio 1999), il PRC ha via via accettato TUTTO il programma dell’Unione (privatizzazioni, missioni militari, concessioni alla Chiesa ecc.), ha partecipato al governo Prodi e infine ha votato i crediti per la guerra contro l’Afghanistan (19 luglio 2006). Secondo gli autori, tutte queste scelte, per lo meno contraddittorie, hanno la loro spiegazione nella rete di interessi che avvolge il gruppo dirigente del PRC, o meglio il gruppo parlamentare; il bandolo della matassa sta nei vantaggi, di natura squisitamente borghese, offerti dal seggio, che ha fatto degli occupanti una «sottocasta», subalterna a quelle più stagionate, di PD e PDL, e relative appendici. «Sottocasta» anche perché, a differenza di PD e PDL (inseriti appieno nella logica del capitale), i «forchettoni rossi» dovettero mantenere un margine di ambiguità, che gli consentisse di ingabbiare le spinte sociali antagoniste, nelle fabbriche e nelle piazze. Tuttavia, questa operazione di contenimento avrebbe presto mostrato la corda; le prime avvisaglie si ebbero in occasione della manifestazione contro la guerra del 9 giugno 2007, che vide fallire miseramente l’azione diversiva del PRC, per smorzarne i toni antigovernativi.
I Forchettoni rossi ci offre un quadro impietoso, che mostra tutte le miserie di un ceto politico arruffone, pronto ad abbandonare ogni ideale per il proprio tornaconto; tuttavia, ho qualche perplessità sulla tesi che gli autori sostengono, secondo la quale, sarebbe avvenuta una sorta di autonomizzazione della sfera politica, rispetto alla base sociale. Da cui ne discende una separazione, a mio avviso, troppo netta, tra il gruppo dirigente (la «sottocasta» parlamentare) e i militanti, come se questi ultimi si fossero bevute passivamente tutte le menzogne che, per circa un decennio, hanno giustificato i salti mortali, passando dalle manifestazioni contro la guerra al voto per i crediti di guerra, e tante altre porcherie. Secondo me, se non tutta, una parte (anche consistente) degli iscritti e degli elettori del PRC è stata consenziente, magari obtorto collo. Mi riferisco in particolare a quella parte che era (e in parte lo è ancora) avviluppata nella rete di interessi delle amministrazioni pubbliche, delle varie associazioni sindacali o culturali (ARCI) ecc. C’è comunque da precisare che il libro è del 2007, quando il tracollo del PRC alle elezioni dell’aprile 2008 doveva ancora avvenire; il tracollo, e quindi lo scollamento tra base e vertice, per certi versi può confermare la tesi avanzata in merito alla «sottocasta». Di pari passo, la crisi economica sta facendo saltare le ultime illusioni su una possibile gestione riformista, dando spazio, sul versante opposte, alle logiche amministrative dell’esistente, sostenute dal governatore della Puglia, Nichi Vendola.
Milano, 6 gennaio 2011
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