CONTENUTI DEL BLOG

domenica 14 novembre 2010

SULLA CRISI ECONOMICA, di Michele Nobile

[risposta di Michele Nobile all'invio dell'articolo di Antonio Peredo, "Descubren a Marx" da parte di Enzo Valls, dall'Argentina.]

Carissimo,
vorrei rispondere all'invio dell'articolo che hai appena inviato.

Dal 2007-2008 vari editorialisti ed economisti hanno "riscoperto", dopo averli seppelliti, Keynes, Minsky e addirittura Marx.
Ciò perché "riscoprono" che il capitalismo è instabile e che l'incertezza ne è un dato di fondo; e anche perché, nel caso dei più sinistri, danno un'interpretazione essenzialmente sottoconsumistica della crisi, con terapia del tipo: ridurre la diseguaglianza per rilanciare i consumi, contenendo così la caduta della domanda aggregata.
Ora, che la distribuzione del valore e del plusvalore prodotto sia oggettivamente manifestazione dell'antagonismo di classe e della contraddittorietà del sistema è un fatto, così come, altra faccia della stessa medaglia, lo è la contraddizione tra progresso tecnologico e distribuzione del valore (che si esprime nella crescita della composizione organica del capitale).
Queste due contraddizioni strutturali evidenziate nel Capitale (insieme ad altre) danno luogo a due classi di teorie della crisi. Una essenzialmente sottoconsumistica (la crisi come effetto dell'iniqua diseguaglianza dei redditi) e politicamente di orientamento più riformista e keynesiano (con l'eccezione della "scuola" di Sweezy e Baran, Monthly review); l'altra più "fondamentalista" ma meccanicistica, ora in decisa minoranza, per cui la crisi, al limite il crollo sistemico, è espressione della automatica riduzione della massa e/o del saggio del plusvalore e della caduta del saggio di profitto (causa la crescita della composizione organica del capitale).
Ma il fatto è che nel Capitale si delineano contraddizioni strutturali del sistema e le ragioni dell'antagonismo tra le classi sociali, però non c'è una "teoria della crisi" congiunturale. In particolare, vi si nega esplicitamente che la crisi congiunturale dipenda dallo scarso consumo della forza lavoro. Se così fosse, allora, il capitalismo funzionerebbe meglio quando il saggio di plusvalore e/o di profitto è più basso. E infatti, per questi economisti di sinistra il problema è stabilire un saggio di profitto né troppo alto né troppo basso, frutto di un "compromesso socialdemocratico" tra capitale e lavoro.
Ora, il sostegno dell'occupazione, della spesa e dell'indebitamento dei salariati possono essere modi per temperare la crisi, ma non fattore determinante della stessa. Infatti, la prima risposta durante la crisi è aumentare la pressione sulla forza lavoro. Poi, per uscirne fuori, occorre un qualche fattore che rilanci l'investimento: dopo gli anni Trenta questo fu la guerra mondiale e la spesa per il riarmo (in Germania, che uscì dalla crisi prima degli Usa).
E ora? Questo è il dubbio amletico e l'impasse. Vedi i risultati delle elezioni di mid term negli Usa e i guai dell'Apostolo nero.
Poiché ritengo sia importante controllare le previsioni politiche ed economiche con gli sviluppi della realtà, per questa ragione e non per narcisismo mi cito dalla nota n. 1 sulla crisi, 8 marzo 2009, La crisi nel contesto storico e la neo-ortodossia di Obama, sesto e ultimo paragrafo:
«Gli effetti previsti sull’occupazione del piano proposto sembrano calibrati in modo da non raggiungere un tasso di disoccupazione "reaganiano" del 10%, che oggi implicherebbe circa 15 milioni di disoccupati: un livello comunque possibile, che sarebbe un indubbio fallimento politico.
Ma i capitalisti non gradiscono la piena occupazione, figuriamoci in una situazione di crisi».
Vedi anche le due note sulle previsioni circa la disoccupazione. Aggiungo il commento dello statunitense Economic policy institute sui dati del mercato del lavoro Usa di ottobre, fonte il rapporto mensile del Bureau of Labor Statistics (come produttori di informazione gli yankee sono infinitamente più democratici degli europei: le cazzate di un Berlusconi o di un Tremonti sulla necessità di limitare la diffusione di dati allarmistici sarebbero inconcepibili negli Usa):

«given the backlog of 14.8 million unemployed workers in this country, the pace of job growth is not strong enough to bring the unemployment rate down to prerecession levels anytime soon. To give this some context: If the rate of job growth were to continue at October’s rate, the economy would achieve prerecession unemployment rates (5% in December 2007) in roughly 20 years. For the fourth straight month, the unemployment rate held steady at 9.6%».

Dunque, siamo oramai a 15 milioni di disoccupati (nonostante la riduzione della popolazione attiva, cioè di coloro che lavorano o cercano lavoro), che salgono a 26,6 milioni contando anche i «sottoimpiegati» (sempre dati ufficiali del Bureau of Labor Statistics, che li produce da molti anni; in Europa non esistono statistiche ufficiali del genere, e recentemente Tremonti ha polemizzato con il governatore della Banca d’Italia che si è azzardato a fare una stima di questo tipo per l’Italia). Tra disoccupati e «sottoimpiegati» il tasso complessivo è il 17,6% delle forze di lavoro.
E, secondo l’Epi, al ritmo di crescita del Pil di ottobre 2010 occorreranno venti anni per riportare il tasso di disoccupazione al livello precrisi.
Si intende, quindi, il fallimento politico di Obama. Era prevedibilissimo, considerando le mosse di politica economica. Impediscono il crollo, salvaguardano il sistema finanziario, non risolvono il problema della disoccupazione delle bancarotte personali, né quello dell'incertezza degli investitori circa il futuro.
Tutto ciò aggrava il problema della domanda aggregata ma il vero problema è il rilancio dell’investimento: che accadrà se e quando sarà rilanciata una nuova bella bolla speculativa indebitamento-crescita della domanda e dell’investimento, o aumenteranno le esportazioni Usa (per dove?) o si inventeranno un qualche serio programma di investimenti finanziato dallo Stato federale (che non c’è). La relativa stabilità della Cina non è assolutamente sufficiente al rilancio della domanda mondiale (se ne approfitta solo la Germania, a scapito della domanda interna e del resto d’Europa).
Ti aspetto in Italia,
Michele