In quell’insieme dinamico di eventi e situazioni ricompresi nel concetto di “storia” i vuoti di potere e/o presenza, che di volta in volta si creano, generano iniziative e movimenti diretti a colmarli. È come se vigesse una ferrea legge fisica. Da qui il formarsi di assetti nuovi (o apparentemente tali) e magari nuovi vuoti. Come è accaduto in Europa dal 1989: caduta del muro di Berlino, implosione dell’Unione Sovietica, fine del blocco politico/militare dell’Est, disgregazione della Jugoslavia e sanguinosa guerra fra gli Slavi del Sud.
L’abbattimento del muro di Berlino fu occasione di giubilo e speranza; cosa normale quando crollano regimi tirannici o autoritari. E comprensibile, seppure sarebbe sempre opportuno riuscire a superare la fascinazione di accadimenti del genere – causa di miopia politica – e concentrarsi sulle loro possibili (e spesso necessitate) conseguenze. Con il suo cinismo clericale – spiacevole ma tante volte espressione di un crudo e disincantato iper-realismo – il nostrano Andreotti aveva vaticinato che un Germania divisa faceva dormire sonni più tranquilli. La sua conclusione non era fatale, ma senza dubbio possibile. Sta di fatto che si è ingenerato un dinamismo proprio nel senso previsto dal nostro immarcescibile politico democristiano. A fronte del vuoto determinato dal crollo del blocco orientale emerge in tutta la sua pienezza l’inconsistenza della cosiddetta Europa unita dell’epoca (e non solo). Nel 1989 si era creata dall’esterno un’occasione d’oro affinché si pianificasse – per lo meno – un concreto processo per la costituzione di un vero soggetto politico europeo, seppure limitato alla parte occidentale del continente. Ciò non è avvenuto. E non solo. Si è concretizzata una situazione che sembra essere più schizofrenica che dialettica: dall’accrocco europeo-occidentale – teoricamente orientato a realizzare un assetto transnazionale basato sui cittadini europei – nulla è pervenuto, nulla è stato fatto, in tale senso e in più si sono favorite a Est le frantumazioni statuali e (peggio ancora) la creazione di Stati etnici o fondati sul dominio del particolarismo religioso. Inoltre si sono avviati la distruzione dello Stato-sociale, la chiusura delle frontiere e il rafforzamento delle pratiche poliziesche.
Circa le frantumazioni statuali e l’avvento di Stati etnico/religiosi si deve distinguere (per quel che serve) fra responsabilità e colpa. La fresponsabilità è dei governi europei occidentali (troppo fantasmatica l’Europa “unita” per attribuirle alcunché); la colpa, invece, è delle popolazioni locali interessate, e delle loro classi politiche del tutto opportuniste, che hanno saputo mescolare “sapientemente” avventurismo e criminalità. Un’entità poderosa come la Germania unita (ed essa lo è davvero) non poteva non cogliere la sua occasione nel quadro generale così creatosi. Fargliene una colpa sarebbe solo ingenuità; la realpolitik è altra cosa. E con questo sia lecito, a chi scrive, mettere in chiaro il suo non essere antitedesco per principio.
La sua grande occasione la Germania l’ha avuta con l’avvio del processo di disfacimento di quella nazione mancata che si chiamava Jugoslavia. Al riguardo ha saputo giocare bene le sproprie carte, oltre a svolgere un ruolo attivo per il precipitare degli eventi (cosa risaputa, evidente e confermata da fonte non sospetta: un intervista data a Usa Today a giugno del 1993 dall’allora Segretario di Stato statunitense Warren Christopher). Con la separazione fra Slovacchia e Repubblica Ceca possiamo definire ormai finito nell’Europa orientale – quand’anche se ne siano accorti in pochi – l’assetto datole dai trattati di Versailles nel 1919/20, a conclusione della I Guerra Mondiale (in quell’area la fine del secondo coflitto mondiale aveva dato luogo solo a modifiche territoriali e a cambi di regimi politici). Assetto in linea di massima non alterato – in termini di soggetti esistenti – a parte la divisione della Germania in due Stati e la federazione coatta con l’Urss di Lituania, Estonia e Lettonia.
Nessun soggetto rilevante in Europa ha operato per impedire o fermare le digregazioni nazionaliste (sanguinosamente atroci nei Blacani), che aprono la porta all’autismo sociale, culturale e storico. Oggi l’area dell’Est è – con i suoi insignificanti mercati nazionali – è terreno di espansione commerciale e finanziaria tedesca, una volta morta l’eventualità anche teorica che un domani si potesse formare un mercato comune balcanico, e magari anche danubiano: cosa che la persistenza di una Jugoslavia unita e non traballante avrebbe potuto far prendere in considerazione (si pensi alla Turchia che a novembre del 1992 si è creato uno spazio economico del Mar Nero).
In più si è prodotta una situazione – al momento in quiescenza, ma potenzialmennte pericolosa – propizia al rinnovo del vecchio intreccio di rivendicazioni territoriali che sembravano appartenere a un passato quasi cinquantenario. Rivendicazioni che coinvolgono a vario titolo Croazia, Serbia, quell’aborto pseudo-federativo che è la Bosnia Erzegovina, Albania, Macedonia, Grecia, Bulgaria, Romania e (perché no?) Turchia. Al momento tutto tace, ma ci sono le premesse affinché un domani ci si torni a scannare.
Non va sottovalutato – anche e soprattutto a seguito dell’intervento Nato in Kóssovo – che, essendo saltato il principio dell’intangibilità delle frontiere nate dalla II Guerra Mondiale – si è aperto un pericoloso precedente per tutti gli Stati europei con problemi di minoranze etnico/religiose o con spinte secessioniste. Situazione aggravata dalla scomparsa di ogni principio di legalità internazionale. Infatti, se per l’Europa occidentale e gli Usa sono andate bene le secessioni della Slovenia, della Croazia, della Macedonia, della Bosnia-Erzegovina croato/musulmana, del Montenegro, del Kóssovo, della Slovacchia, a quale titolo negarne il diritto alle Krajne serbe, alla Bosnia serba, all’Ossezia del Sud o all’Abkhazia? “Ovviamente”, la Cecenia è affare interno della Russia. Non c’è un principio giuridico in opera: c’è solo la forza bruta.
Si potrebbe parlare anche di un altro aspetto: dall’Europa balcanica è venuto un altro segnale su cui non si è adeguatamente appuntata l’attenzione di chi di dovere; e cioè il fallimento di un multiculturalismo “per sommatoria”, e non già per inclusione di elementi diversi inseriti in un comune orizzonte storico/culturale “meticcio”. La multicultura per sommatoria implica sempre il rischio che prima o poi si debba optare tra un settore o un altro, così l’equilibrio precario finisce nello scontro e siamo da capo. Considerati i problemi posti dalla crescente immigrazione in Europa, e considerato che si è ancora ben lungi dal vedere costituita una cittadinanza europea – vale a dire una diffusa coscienza di appartenere a una realtà transnazionale – e anzi si assiste a revivals di regionalismi velleitari e/o egoisti, non è detto che il “virus balcanico” non si diffonda; sia pure con modalità particolari, se determinati e pesanti interessi economici lo richiederanno. E sempre con effetti traumatici e regressivi per coloro che le destre chiamano “la gente”.