La presente devastante fase del sistema capitalista vista dalla punta del naso dell’Europa rientra nella “casella” del classico quod erat demonstrandum, sia sul piano politico sia su quello economico. Cominciamo dalla superstruttura politica, che nella specie è quella europea. La cruda realtà ha rivelato appieno quel che già si sapeva, ma che la propaganda dei “politicamente corretti” ha mistificato: la crisi strutturale del mal combinato accrocco chiamato Unione europea. Si era detto che l’Ue aveva come fine politico la creazione di una realtà sopranazionale capace di creare un vincolo identitario per i popoli che ne facevano parte. Questo in un continente che ha visto nascere gli Stati-nazione i quali più volte lo hanno devastato con le guerre. Una delle conseguenze indiscusse - oltre al rafforzamento della pace continentale - avrebbe dovuto essere l’assurgere dell’Europa (famoso nano politico e gigante economico) all’oggettiva posizione di contraltare alla potenza statunitense, magari portatrice di interessi imperialistici propri e meno subordinati a quelli degli Usa. Questa realtà sovranazionale è rimasta fra i desiderata degli euro-ottimisti, e l’auspicio della pace è morto in Bosnia, nella Krajna e sotto i bombardamenti di Belgrado. Nei fatti si ha una specie di società economicista divisa in quote, talché chi detiene la quota maggiore più conta, alla faccia degli altri.
Non deve stupire che oggi i maggiori azionisti dell’Ue siano Germania e Francia. E anche questo era fatale, nei limiti in cui non si è proceduto con decisione verso la formazione di uno Stato federale che, pur con tutti i suoi limiti, avrebbe potuto operare come punto attivo di riferimento per la tanto conclamata identità europea supernazionale. C’è anche da domandarsi se, con le classi politiche esistenti (e qui la colpa è di quanti le votano), questo approdo sarebbe stato davvero possibile.
Era anche ovvio che per gli Stati meno forti d’Europa venisse delusa la speranza - entrando nell’Unione - di uscire da una situazione di dislivello rispetto a quelli economicamente e politicamente più forti. Dal Trattato di Maastricht alla creazione della moneta unica europea e poi al Trattato di Lisbona le fasi di “costruzione” dell’Unione si sono rivelate una tagliola per i piccoli e i deboli. Nel caso del Portogallo, il fossato plurisecolare che lo separa dalle società europee di maggior peso non solo non è stato colmato, ma si è approfondito ed esteso.
Ma va pure detto che l’Unione europea nel suo complesso non rappresenta certo uno dei poli più dinamici in termini di crescita economica e civile. Al suo interno mancano un coordinamento delle politiche economiche e sociali dei singoli paesi e una politica fiscale ugualmente coordinata e coerente; mentre esistono settori pubblici volutamente dispendiosi e inefficienti, deficit di competitività rispetto a economie concorrenti, e un sistema finanziario artificiale, speculativo e privo di corrispondenza con l’economia reale. La moneta unica - a cui, alla lunga, non hanno giovato le passate alte quotazioni rispetto al dollaro - è stata realizzata in ossequio a feticci finanziari da non mettere in discussione e senza meccanismi comunitari di supporto per quelle economie locali che andassero in crisi vuoi per la ribalderia truffaldina delle rispettive classi politiche, vuoi per assalti della speculazione internazionale, vuoi per la sinergia fra questi due fattori. In tutto questo a guadagnarci di più (finora) è stata sicuramente la Germania unita (cinicamente, nell’ottica della Realpolitik si deve dare ragione all’immortale Andreotti quando sostenne che con una Germania divisa si dormivano sogni più tranquilli). La crisi greca ha dimostrato tante cose, fra cui principalmente l’assoluta mancanza di solidarietà comunitaria da parte degli altri azionisti. Molti hanno accusato di egoismo la Germania; taluni invece la difendono sostenendo che non è tenuta a fare da pronto soccorso per situazioni di tipo greco; tutto è argomentabile, ma sta di fatto che questo deficit di solidarietà esiste e politicamente ha il suo devastante peso. Quando poi “andranno per stracci” le non floride economie dei paesi dell’ex Patto di Varsavia - fatti entrare quando la costruzione dell’Unione non era né terminata né collaudata - ne vedremo delle belle (in senso tragico). Per non parlare delle spade di Damocle incombenti su Portogallo, Spagna e Italia (il paese con il più consistente debito pubblico pro capite, dopo quello Usa).
E veniamo al vero “magma vulcanico”, dato dall’economia. Si diceva dianzi dell’insufficienza delle classi politiche. In relazione a esse non vale, a giudizio di chi scrive, ricorrere al pur giusto argomento dell’appartenenza delle crisi alla specifica fisiologia del sistema capitalista. Gli strumenti correttivi in teoria esistono, e per esempio dalla crisi del 1929 il sistema (in quanto tale) uscì fuori. Ma da almeno trenta anni il dio-neoliberista non si discute. Tanto il capitale finanziario ha capito che si fanno lucri anche affamando le popolazioni. Che valore hanno le vite umane di fronte al profitto? Secondo la Fao per mettere fine alla fame nel mondo sarebbero necessari 30.000 milioni di dollari, che “ovviamente” non si trovano; però sono saltati fuori senza difficoltà ben 900.000 milioni di dollari per salvare il sistema finanziario europeo (banche in prima posizione).
Così, ecco gli interventi governativi definiti “anticrisi”. Sulla giustezza di quest’aggettivo c’è da dubitare, e fondatamente, in virtù del mero buon senso, per quanto non abbia adepti fra i politici nazionali ed europei. Anche in Portogallo - paese a rischio - il governo “socialista” (!?) ha seguìto le ossessioni e gli esempi dei partners europei. Quindi alla popolazione viene servito il seguente usuale “banchetto”: diminuzione degli investimenti pubblici; riduzioni salariali sia mediante congelamenti dei livelli attuali nel settore pubblico sia mediante una politica di ribassi secchi in quello privato; diminuzione delle prestazioni sociali; chiusura delle scuole con pochi alunni (c cioè quelle rurali); riduzione dei costi ospedalieri (cioè diminuzione delle capacità operative dei centri sanitari pubblici). La tassazione delle plusvalenze in Borsa è stata rinviata a tempi migliori (cioè al giorno del poi e all’anno del mai). Che si tratti di opzioni le cui conseguenze saranno la stagnazione per abbassamento dei livelli di consumo o il sottosviluppo, l’aggravamento delle condizioni dei ceti piccoli e medi, l’aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali, è del tutto evidente. L’impossibilità di uscire dalla crisi con tali rimedi è tanto evidente quanto disattesa.
La ricerca di alternative meno traumatizzanti ancora non c’è. Dal canto loro i singoli paesi potrebbero effettuare interventi di stimolo per le rispettive economie, introdurre misure fiscali progressive e costringere i centri locali autarchici di spesa al rispetto di regole di razionalizzazione della spesa e di trasparenza. Chiaramente a monte sarebbe indispensabile la messa a punto a livello comunitario di un’apposita strategia che tenga conto delle caratteristiche delle economie coinvolte, a cominciare dal varo di un bilancio europeo con finalità anticicliche. Figuriamoci!
Comunque dall’interno del sistema cominciano a levarsi voci critiche contro la generalizzata e dogmatica politica di non ragionata (sul piano sociale innanzi tutto) austerità di bilancio. Per esempio i premi Nobel Paul Krugman e Stephen Stiglitz e Martin Wolf, columnists del Financial Times. Che la credibilità dei bilanci statali sia necessaria agli Stati per conseguire finanziamenti a tassi non usurari, è anche vero; ma se i soldi degli Stati non vengono utilizzati nelle fasi di crisi per sostenere l’economia con i soldi che essi ottengono e non siano socialmente utilizzati è assai arduo fare uscire un paese da una crisi, e c’è il rischio che questa si avviti su se stessa.
E in tutto questo i lavoratori? Tenuto conto della loro attuale collocazione, e di tante scelte politiche da essi fatte, forse sarebbe meglio chiedersi: e in tutto questo i cittadini europei? Anche perché oggi è in atto una guerra di classe del capitale (finanziario in primo luogo) che colpisce - plutocrati a parte - tutta la cittadinanza europea. Se non si forma una resistenza dei cittadini europei colpiti e/o minacciati da questa nuova fase della guerra di classe, in nome del principio che la stabilità dei mercati non può né deve fondarsi sulla destabilizzazione e distruzione delle speranze di vita di questi cittadini, capace di spingere quanti più governi sia possibile a svincolare e proteggere l’economia produttiva dal capitale finanziario e, correlativamente, a rimettere in discussione l’attuale insieme di assetto e fini dell’Unione europea, ebbene una cosa è certa: dietro l’angolo ci sarà l’aspettativa del “salvatore della patria” di turno, e l’instaurazione di nuove forme di fascismo.
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