CONTENUTI DEL BLOG

venerdì 11 giugno 2010

CORRISPONDENZA POLITICO/ECONOMICA DAL PORTOGALLO, di Pier Francesco Zarcone

Volendo essere buoni, potremmo distinguere i ben pagati membri delle classi politiche nazionali e comunitaria in tre categorie: quelli che di fronte a una crisi economica epocale hanno semplicemente perso la testa; quelli che sono un po’ più lucidi ma non sanno che cosa fare – nel loro sconvolgente mix di arroganza e ignoranza, dalla quale ultima viene l’irresponsabile ossequio al neoliberalismo; e infine (non da ultimi) quelli che sanno benissimo cosa fare nell’interesse del capitale, però. L’ideologia ufficiale considera ancora politicamente scorretto mettere in discussione questi dogmi, pur tuttavia non mancano illustri economisti borghesi che in certi ambienti - ancora poco di massa – fanno sentire la loro voce critica nei confronti della dissennata nouvelle vague di provvedimenti di mero taglio della spesa pubblica e sociale che i vari governi dell’Unione Europea stanno adottando. Essi li mistificano come misure anticrisi, quando invece fungeranno da ulteriore moltiplicatore della crisi stessa e da propulsore per una massiccia recessione europea dai costi umani e sociali incalcolabili ma sicuramente tragici.
In termini finali il vecchio motto “socialismo o barbarie” resta più che mai valido; pur tuttavia sembra proprio che tecnicamente sarebbero possibili, senza intaccare i fondamentali del sistema capitalistico, reali misure anticrisi di carattere strutturale e dai costi umani e sociali di gran lunga minori. Ma sicuramente al di fuori dello schema neoliberale. In fondo aveva ragione il vecchio Presidente socialista portoghese, Jorge Sampaio, quando anni addietro ammonì che al di là del Bilancio dello Stato c’è vita. Nel numero di giugno di Le Monde Diplomatique edizione portoghese, per esempio, c’è un interessante articolo del prof. James K. Galbraith, della cattedra di Economia Politica della LBJ School of Public Affairs dell’Università del Texas. Non so se esista anche nell’edizione italiana. Il titolo è sintomatico: “Que Europa para controlar os mercados?”. Poiché la lingua batte dove il dente duole, nell’articolo si affronta una questione che attualmente occupa altresì le pagine politiche ed economiche della stampa lusitana: cioè la totale mancanza nell’Unione Europea di organismi e strutture idonei a coordinare la politica economica e sociale dell’Unione e soprattutto a metterla in con dizione di fare fronte agli attacchi dei mercati, prima di tutto finanziari. L’aspetto interessante dell’articolo nasce anche dal contenere specifiche alternative tecniche all’attuale condotta dei governi europei affinché – prima che sia troppo tardi – si blocchi l’economia dell’impoverimento che con zelo degno di miglior causa si sta perfezionando.
Ma un’altro argomento occupa gli spazi della stampa portoghese: quello dell’opportunità o meno di salvare la moneta unica europea. Chi se lo sarebbe aspettato dopo tanto can-can trionfalista?! E ormai si parla a chiare lettere di possibilità che la crisi dell’euro mandi a scatafascio la stessa Unione Europea.
Il paese estrema punta occidentale dell’Europa è notoriamente in crisi. Qui la crisi internazionale si combina con quella nazionale generando un sinergia perversa. Concretamente, la crisi nazionale nasce almeno da tre fattori: la perdita dell’impero d’oltremare (per quanto irrazionalmente sfruttato), l’assenza di gestione sociale della democrazia borghese dopo il 25 aprile del 1974, l’ingresso nell’Unione Europea. Per quanto riguarda il primo dei tre, c’è da dire che esso ha comportato la perdita di materie prime e di sbocchi di mercato; il secondo avendo dato vita alle inevitabili agitazioni dei salariati e a un balletto di nazionalizzazioni prima e di privatizzazioni dopo si è risolto in danni non riparati al tessuto economico portoghese; il terzo – l’entrata del paese più povero dell’Europa occidentale, con un apparato industriale debolissimo nello stesso mercato in cui operavano economie di ben diversa portata e consistenza – è equivalso a un’ulteriore perdita di capacità produttiva e di competizione.
Per quanto riguarda la crisi internazionale, non ci dilunghiamo sulle sue componenti finanziarie. Semmai c’è da dire qualcosa in ordine all’economia reale. L’Europa è sempre più affannata nella competizione con la produzione di paesi come India, Cina, Corea, etc., anche per i più bassi livelli salariali vigenti in questi ultimi. Si aggiunge a questo la tendenza (tutt’altro che in recessione) a delocalizzare altrove fabbriche e servizi, con la conseguenza di aumento della disoccupazione europea e di abbassamento dei salari nel nostro continente. Il che in un sistema globalizzato a vasi comunicanti genera effetti negativi ancora maggiori.
E veniamo ad alcuni aspetti politici del Portogallo dove, a differenza dell’Italia, esiste ancora un a sinistra abbastanza marxista, non collusa e (almeno al momento) poco avvezza all’uso delle “forchette”. Oltre al Partido Comunista Portugûes (Pcp) è presente in Parlamento il Bloco de Esquerda (Be), formato dall’unione di formazioni trotzkiste ed ex maoiste, che alle ultime elezioni politiche ha ricevuto un voto popolare (e relativa rappresentanza parlamentare) più consistente di quanto andato al Pcp. Il 23 maggio scorso la Commissione Politica del Be ha varato un documento sulla crisi economica e sul modo di uscirne se lo si volesse. Dopo aver analizzato il carattere socialmente recessivo delle misure governative (che pure assicurano al capitale finanziario i lucri da esso attesi), il documento attacca la strategia del governo tedesco di Angela Merkel volta a fare in modo che la disciplina dell’euro garantisca una finanziarizzazione senza fine e il perpetuarsi del saccheggio dell’economia europea. Osservando altresì che, rappresentando l’economia greca solo il 2,5% del Pib europeo e il 3,8% del debito totale (quindi poca cosa), la reazione alla crisi greca ha le connotazioni di un pretesto, in quanto un coordinamento delle politiche europee contro gli speculatori sarebbe stato possibilissimo. Si è preferito invece un piano di 750 milioni di euro con regole draconiane e contrarie alle esigenze delle economie dei paesi più deboli. D’altro canto già l’ex Ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer aveva detto che per il governo attuale della Germania l’unità europea (quel poco che c’è) rappresenta un mezzo ma non il contenuto e il fine di un progetto.
Il documento del Be si pronuncia anche sul problema della non inverosimile possibilità di una disaggregazione dell’area-euro; tanto è vero che in certi ambienti economico/finanziari si comincia a parlare della separazione dell’Europa comunitaria in due aree monetarie: una con moneta forte (Germania, Francia, Olanda) e una con moneta debole (tutti gli altri). Sul tema dell’uscita dall’euro – che trova accoglimento anche fra taluni economisti di sinistra – il Be esprime le sue riserve e le argomenta proprio in ordine alla Grecia, ferma restando però l’insostenibilità dell’attuale assetto (o non-assetto) monetario dell’Ue.
Sulla Grecia (caso dal valore paradigmatico) si osserva che se uscisse dalla zona euro, o ne venisse espulsa, dovrebbe immediatamente svalorizzare in modo significativo la propria moneta e, quand’anche procedesse a nazionalizzare banche e riuscisse a controllare i flussi di capitale verso l’estero, dovrebbe fare i conti con gli impatti recessivi in precedenza accumulati e magari aggravatisi. Infatti, la necessaria svalutazione monetaria farebbe aumentare i costi delle importazioni e quindi inciderebbe negativamente sul potere di acquisto dei salari, col risultato ulteriore di aggravamento del deficit per la scarsità degli introiti fiscali. Purtroppo per la Grecia sulla risorsa turistica si può fare un conto relativo, in quanto rappresenta solo il 20% del Pib ellenico, e la situazione di instabilità del paese potrebbe causare una contrazione delle entrate di questo settore. Per inciso si può osservare che una siffatto scenario avrebbe ricadute occupazionali anche nell’egoista Germania, a motivo dell’ovvio ridursi delle esportazioni in Grecia. Certo è che le conseguenze dell’eventuale uscita/espulsione greca dall’euro si risolverebbero in nuove misure restrittive per la popolazione.
Esiste comunque una spada di Damocle sospesa sopra tutti i paesi deboli dell’Unione: la possibilità che sia la stessa Germania a preferire di uscire dal circuito dell’euro piuttosto che sostenere i costi per sostenere la moneta unica nella presente situazione di crisi.
Il “che fare?” nell’immediato, politicamente e in termini contrappositivi, è tanto chiaro quanto arduo da realizzare. L’esigenza immediata sta in una strategia di interrelazione tra le lotte sociali ed economiche europee il cui obiettivo siano anche le istituzioni dell’Unione, in quanto esse stesse produttive di crisi e strumento di trasferimento di valore dal lavoro al capitale. Lotte, quindi, finalizzate anche a una ristrutturazione dell’Unione Europea. L’aspetto problematico consiste nei rapporti di forza, poiché non si vedono governi nazionali intenzionati a promuovere una rifondazione europea che attacchi Maastricht e il Trattato di Lisbona.
I concreti obiettivi di lotta proposti hanno una valenza che va al di là dei confini portoghesi. Oltre alle specifiche e usuali iniziative a difesa del lavoro e del salario, ci sono: l’emissione di titoli di debito europei scambiabili con un 10-15% dei titoli nazionali e altre misure tali da consentire ai governi di mantenere la responsabilità sui suoi debiti ma a tassi di interesse vantaggiosi e a condizioni negoziabili fuori dal ricatto dei mercati finanziari; opposizione al congelamento dei bilanci statali e avvio di una politica europea di sicurezza sociale complementare ai sistemi nazionali; creazione di un fondo permanente di appoggio ai lavoratori licenziati; misure di controllo del sistema finanziario e della circolazione dei capitali, unitamente all’imposizione di una tassa dello 0,1% sulle transazioni finanziarie, che dovrebbe portare a un introito di 920.000.000 di euro (superiore quindi a quanto stanziato dal piano europeo di sostegno); tassazione dei lucri bancari; piani pubblici di riabilitazione urbana; concorrenza della banca pubblica a quelle commerciali con politiche di interessi non speculativi; imposizione sui grandi patrimoni. Il tutto integrato da apposite campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
In tutta la penisola iberica i lavoratori sono in fermento, ma è ancora presto per avanzare previsioni. E comunque la situazione è brutta, e ancora non è adeguatamente diffusa la percezione di quel che è in ballo. In buona sostanza si va a una ristrutturazione delle economie capitaliste nel senso di distruggere del tutto le conquiste del lavoro conseguite durante il welfare state. Alcuni mezzi di informazione lusitani cominciano a preparare il terreno, avviando “traduzioni” della frase ormai in bocca a tutti i politici europei dei partiti di governo: il tipo di vita degli ultimi 50 anni non è più sostenibile. Infatti si comincia a dire che questo significa fine di quelle che sono definite oscenamente “regalie sociali”, talché ci si deve rassegnare a lavorare di più per guadagnare di meno, applicando il detto fatalistico messicano “quando non c’è soluzione non c’è nemmeno il problema”. E si predica che la soluzione non esiste, non la consente la globalizzazione. Per cui, ci si prepari a lavorare di più con salari ridotti del 10-30%, addio alla 13ª mensilità e – per chi l’abbia – alla 14ª, addio al salario minimo e ai sussidi di disoccupazione degni di questo nome, pensione a 70 anni (nasci, lavora, consuma poco e crepa), forse “lavoro” diverrà sinonimo di precarietà generalizzata, e tanti saluti all’assistenza sanitaria e alle ferie pagate. Si dice pure “protestare non vale la pena”, tanto non c’è soluzione. Sarà ancora vero che quanto più è fonda la notte tanto più è vicino il giorno? Ma forse la notte non ha raggiunto l’apice dell’oscurità.