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sabato 15 maggio 2010

DOVE È ARRIVATA L'URSS DI ANDROPOV E LA NECESSITÀ DI UNA QUINTA INTERNAZIONALE, di Roberto Massari

[1983]

Il testo che segue è la sbobinatura (una trascrizione, rivista sotto il profilo formale e resa in linguaggio leggibile) della relazione che Roberto Massari fece il 13 marzo del 1983 a un gruppo di compagni della ex Fmr riuniti a Firenze.

RELAZIONE DI ROBERTO MASSARI ALL'INCONTRO DELLA EX FMR (FRAZIONE MARXISTA RIVOLUZIONARIA)

(Firenze, 13/14 marzo 1983 - nel centesimo anniversario della morte di Marx)

L’oggetto della discussione riguarda la funzione attuale della burocrazia sovietica nel mondo, l’aggiornamento della nostra analisi dell’Urss e, alla luce di questa, la necessità di un superamento del programma della Quarta internazionale di Trotsky, nella prospettiva di costruzione della Quinta.
La relazione è divisa in cinque parti.
La prima parte richiama alcuni riferimenti teorici, con rapidi cenni su ciò che abbiamo acquisito nel passato a proposito della natura della società sovietica.
La seconda riguarda la rettifica di alcune nostre posizioni sulla funzione storica dell’Urss e sulla sua politica estera.
La terza ribadisce il punto precedente, analizzando la situazione attuale dell’agricoltura dell’Urss, i suoi principali problemi economici e le cosiddette «nuove» posizioni di Andropov alla testa del Pcus.
La quarta ha un carattere operativo politico: come ci orientiamo oggigiorno nei confronti dell’Unione sovietica.
La quinta prende atto del superamento del programma storico della Quarta e la necessità di una nuova internazionale: la Quinta.

1. Natura sociale della burocrazia sovietica (il patrimonio acquisito).

Per quanto riguarda l’analisi della struttura sociale dell’Unione sovietica, vale a dire il sistema dei rapporti sociali di produzione, la dinamica delle forze sociali e delle forze produttive di questo Paese, non credo sia intervenuto alcun mutamento storico di rilievo rispetto all’analisi di Trotsky, tale da esigere cambi significativi nell’analisi tradizionale.
Proporrò invece un discorso nuovo e diverso rispetto a quanto scrivevamo nella Dichiarazione programmatica [elaborata nel 1975-1980, nota del 2010] rispetto all’orientamento politico da assumere nei confronti della burocrazia sovietica e del suo Stato, cercando di spiegare le ragioni per le quali a una conferma sostanziale dell’analisi della struttura sociale debba seguire oggi una rettifica nell’orientamente politico.
Per mettere meglio a fuoco la prima parte, riporterò alcune citazioni che considero essenziali. Le ho tratte dalle due opere fondamentali da Trotsky dedicate alla definizione della natura sociale dell’Urss: La rivoluzione tradita e In difesa del m arxismo.
Cito dalla prima, in cui Trotsky afferma che «Marx non prevedeva la vittoria della rivoluzione in un paese arretrato», dimostrando che questa visione era un limite dell’analisi marxiana. Un limite oggettivo non imputabile a Marx, che è stato poi superato dalla teoria della rivoluzione permanente di Parvus/Trotsky, dal consenso che questa ottenne presso Rosa Luxemburg e da alcuni aspetti dell’elaborazione leniniana. Ma Trotsky ci ricorda anche che Lenin non aveva previsto un isolamento così a lungo dello Stato sovietico. Due limiti teorici consecutivi nel tempo: Marx non aveva previsto la rivoluzione in un paese arretrato e Lenin non aveva previsto che sarebbe durato così a lungo l’isolamento dello Stato sovietico. Ai quali io aggiungerei di mio anche il fatto che Trotsky non aveva previsto che sarebbe durata così a lungo anche la degenerazione burocratica dello Stato sovietico. Ciò ci consente di riassumere la sequenza di queste tre fasi di mancate analisi, stabilendo fin dove era arrivato Marx, fin dove Lenin e fin dove Trotsky: oltre non sarebbero potuti andare per limiti oggettivi del tempo in cui vissero.
È vero che esistono molti testi di Trotsky che si prestano a interpretazioni ambigue sulla natura dello Stato sovietico, sulla sua dinamica storica ecc. Ma oggi, verificando a posteriori come sono andate effettivamente le cose, dobbiamo valorizzare le intuizioni che maggiormente hanno trovato riscontro nel futuro. È un metodo questo che si deve applicare a tutti gli autori e che consiste nel non porre enfasi sugli aspetti di un pensatore che risultano errati in quanto arretrati rispetto all’epoca sua, ma nel soffermarsi su quegli aspetti che denotavano capacità d’intuizione rispetto alla prospettive future. È un metodo che viene usato normalmente sia che si parli degli atomisti greci sia di Robespierre (con tutto ciò che vi è in mezzo) ed è giusto che lo si applichi anche a Trotsky.
Ne La rivoluzione tradita la definizione che viene data dell’Urss non è quella che è stata adottata comunemente nell’affrontare questo genere di problematiche e che si ritrova in altri scritti di Trotsky. Lì non si parla di «Stato operaio degenerato» ma di «Dittatura burocratica», insieme a «dittatura bonapartista», «regime poliziesco», «arbitrio burocratico» ecc. C’è anche una frase di Trotsky che ora ho riscoperto e che desidero citare perché si rivelerà utile per la nostra discussione. Ve la cito integralmente:
«Ridotta alla sua base primordiale, la storia non è che la ricerca dell’economia del tempo di lavoro. Il socialismo non potrebbe giustificarsi con la sola soppressione dello sfruttamento. Bisogna che assicuri alla società un’economia di tempo maggiore di quella che ha assicurato il capitalismo» (La rivoluzione tradita, Samonà e Savelli, Roma 1968, p. 73).
Questo concetto espresso così chiaramente ci consente di non ripetere più le tante inutili discussioni con chi si arrabatta a dimostrare che in Urss c’è ancora lo sfruttamento (per poi dedurne la teoria del capitalismo di stato), in quanto l’analisi di Trotsky era già andata al di là della definizione del semplice modo di produzione, affermando che ciò che caratterizza il socialismo non è solo l’abolizione dello sfruttamento, ma il fatto che lo sviluppo tecnico, il progresso scientifico siano andati talmente al di là da aver superato sul piano dell’economia del tempo di lavoro il livello consentito dal capitalismo e dai modi di produzione precedenti. Stabiliva Trotsky in questa maniera un criterio di analisi oggettivo che, se noi oggi lo riempissimo di contenuti contemporanei, con ciò che sappiamo sull’informatica, sulle comunicazioni di massa e sull’economia del tempo di lavoro in società tecnologicamente molto progredite (come gli Usa, il giappone ecc.), ci troveremmo coinvolti non solo in una discussione ricchissima e importantissima, ma anche in qualcosa che renderebbe obsolete le discussioni sulla natura sociale dell’Urss e della sua burocrazia, anche se fatte con autori di grande competenza scientifica come Bruno Rizzi, Charles Bettelheim o con chi concentra la propria analisi sull’appropriazione del surplus piuttosto che sullo sfruttamento diretto ecc.
È questa la vera dimensione marxiana che, collocandosi tra l’alternativa ottimistica del progresso sociale e scientifico o la barbarie, considera lo sviluppo delle forze produttive come portatore di uno sviluppo della tecnologia che a sua volta incide sullo sviluppo stesso delle forze produttive. È una visione effettivamente dialettica della dinamica sociale che porta a definire un sistema sociale come superiore a un altro solo quando lo sviluppo delle sue forze produttive, dal punto di vista quantitativo e qualitativo - e dal punto di vista che scaturisce dal rapporto tra i due, cioè l’economia del tempo di lavoro, che è il rapporto quantità/tempo - sia superiore al precedente
Ciò supera in termini teorici le vecchie discussioni sul carattere più o meno giuridico della proprietà burocratica, sull’ereditarietà della proprietà dei mezzi di produzione (e cioè se il singolo burocrate sia in grado di trasferirla ai figli) ed altre sottigliezze terminologiche che nel passato sono state spesso utilizzate strumentalmente per non riconoscere la natura di casta della burocrazia che domina l’Urss e per estensione i paesi satelliti, ex o attuali.
Sono temi, questi ultimi, sui quali è stato versato molto inchiostro a partire da Trotsky e dai primi critici russi della burocrazia, e sui quali non vale più la pena di continuare a discutere. Non solo perché il trascorrere del tempo ha dimostrato senza più ombra di dubbio il carattere sociale della nuova casta impadronitasi del potere in Urss sfruttando alcune conquiste sociali di quella (breve, brevissima) rivoluzione, ma anche perché lo stesso sviluppo delle forze produttive nei paesi imperialistici (capitalistici, per capirci) ci obbliga ad alzare il livello dell’analisi e del confronto. Personalmente non credo che tornerò più a discutere in termini astratti se il tipo di sfruttamento in vigore in Urss sia capitalistico, burocratico, collettivista burocratico o capitalista di stato. Solo la malafede può impedire di vedere la traiettoria storica della casta burocratica (incarnata originariamente dal partito bolscevico ancor vivo Lenin) e la continuità istituzionale (nonché fisica, nelle persone e nei dirigenti) che la caratterizza. Mentre solo l’ignoranza può consentire di paragonare i due sistemi sociali come se fossero di identica qualità sul piano dello sviluppo delle forze produttive. Il sistema autocratico e tendenzialmente autarchico dell’Urss e del suo impero non ha alcuna chance di poter competere con il sistema imperialistico mondiale, con la sua estensione internazionale, con il suo mercato, con le sue capacità di accumulazione, le sue possibilità di ulteriore espansione, con il ritmo della sua innovazione tecnologica.
È la dinamica generale dello sviluppo o dell’assestamento delle forze produttive che deve regolare principalmente la nostra analisi dei regimi burocratici che conosciamo (altri ne possono emergere e alcuni possono anche scomparire in seguito a sommovimenti internazionali, rivoluzioni di indipendenza nazionale ecc.). E questa dinamica si può e si deve misurare a partire dall’economia del tempo di lavoro. Mi scuso per ripetere la precedente citazione, ma è troppo chiara ed essenziale per la nostra riflessione: «Ridotta alla sua base primordiale, la storia non è che la ricerca dell’economia del tempo di lavoro. Il socialismo non potrebbe giustificarsi con la sola soppressione dello sfruttamento». Sottolineo queste ultime parole perché ci esimono definitivamente dal prendere in considerazione i significati d’ordine moraleggiante che sono stati sovrapposti alla definizione marxiana (qui trotskiana) di «sfruttamento».
«Bisogna che assicuri alla società un’economia di tempo maggiore di quella che ha assicurato il capitalismo. Se questa condizione non fosse assolta, l’abolizione dello sfruttamento non sarebe che un episodio privo di avvenire... tutte le affermazioni in contrario non sono che il frutto dell’ignoranza o della ciarlataneria». Appunto, come dicevasi sopra.
Un’altra citazione dallo stesso testo ci informa di quanta importanza Trotsky attribuisse alla questione civile, a quella che con termine odierno chiamiamo «la qualità della vita».
«La storia ci insegna molte cose sull’asservimento della donna all’uomo, di entrambi allo sfruttatore, e sugli sforzi dei lavoratori che, cercando a prezzo del loro sangue, di scuotere il giogo, non arrivano in realtà che a cambiare le catene. La storia, in definitiva, non racconta altro. Ma come liberare effettivamente il fanciullo, la donna, l’uomo? Ecco dove manchiamo di esempi positivi» (ibid., pp. 145-6).
Ricordo, per inciso, che alla ricerca di una risposta per l’ultimo interrogativo ha dedicato grandi risorse teoriche Wilhelm Reich, grande ammiratore di Trotsky e grande interprete della psicoanalisi sul versante rivoluzionario. E, sempre per inciso, richiamo l’attenzione a quel cenno sull’asservimento della donna all’uomo e sulla necessità di liberarla (allo stesso tempo in cui si libera l’uomo e la loro progenie giovanile) che non può non evocare alcune delle tematiche fondamentali del femminismo contemporaneo. Nonché sulla pregnante nuova definizione della «storia» che ingloba il sottofondo economico dello sfruttamento, ma anche la problematica della liberazione, femminile ed universale allo stesso tempo. In sintesi si afferma che il fine ultimo della storia si misura in termini di libertà, come corrispettivo di quanto veniva detto prima rispetto al tempo di lavoro come indice del grado di sviluppo di un sistema sociale. Tempo di lavoro e libertà costituiscono i due poli - interpretativi e propositivi - dell’analisi che come marxisti rivoluzionari siamo chiamati a compiere, o meglio ad aggiornare visto il lavoro dei grandi che ci hanno preceduto, di cui non vogliamo sbarazzarci, ma vogliamo fare tesoro per proseguire il lavoro da essi avviato.
Non sto qui a richiamare le tante altre parti importanti de La rivoluzione tradita (dedicate per es. alla nuova Costituzione, all’ordinamento economico, alla famiglia, la descrizione «antropologica» del burocrate ecc.) che si presume siano ormai note ed assimilate teoricamente da ciascuno di noi. Vale la pena, invece, di ricordare i brani profetici più salienti che sono quelli stranamente più sottovalutati, forse per l’orizzonte da incubo che essi lasciano intravedere. A p. 228:
«I mezzi di produzione appartengono allo Stato. Lo Stato “appartiene” in qualche modo alla burocrazia. Se questi rapporti, ancora del tutto recenti, si stabilizzassero, si legalizzassero, divenissero normali, senza resistenza o contro la resistenza dei lavoratori, porterebbero alla liquidazione completa delle conquiste della rivoluzione proletaria. Ma questa ipotesi è ancora prematura».
E nelle ultime righe di questo celebre saggio, scritte mentre divampava la guerra civile in Spagna:
«Se la burocrazia sovietica riesce, con la sua perfida politica dei “fronti popolari”, ad assicurare la vittoria della reazione, in Francia e in Ispagna - e l’Internazionale comunista fa tutto il possibile in qusto senso - l’Urss si troverà sull’orlo dell’abisso e sarà all’ordine del giorno più la controrivoluzione borghese che l’insurrezione degli operai contro la burocrazia» (p. 266).
È lo stesso Trotsky che nel saggio su «L’Urss in guerra» (incluso in In difesa del marxismo, Samonà e Savelli, Roma 1969) scritto a settembre del 1939, pochi giorni dopo la firma del patto Hitler-Stalin, mentre definiva ancora «oscura» la situazione venutasi a creare con l’invasione sovietica della Polonia, ha riformulato quella prospettiva in termini che considero tra i più lungimiranti che si possano rinvenire nel suo lascito teorico. Cito ampiamente dal nucleo centrale del saggio, ricordando che In difesa del marxismo è un’opera trotskiana molto ortodossa, a causa del momento in cui furono scritti i saggi che la compongono e per il tipo di avversari politici contro i quali era diretta: interlocutori di tutto rispetto come Burnham, Rizzi e altri che contestavano alcuni fondamenti del pensiero trotskiano (se più o meno giustificatamente è problema da discutere in sede storiografica) e per rispondere ai quali Trotsky fu costretto ad accentuare la definizione degli aspetti ancora «positivi» dell’Urss, tornando ancora una volta sui presupposti teorici della Quarta internazionale appena fondata e già in estinzione, prima che la mano del sicario staliniano ponesse termine ai suoi giorni:
«Se, contrariamente a tutte le probabilità, la rivoluzione d’Ottobre non riesce a trovare la sua continuazione, durante il corso dell’attuale guerra o immediatamente dopo, in uno qualsiasi dei paesi avanzati; e se, al contrario, il proletariato è rigettato indietro dovunque e su tutti i fronti, allora dovremmo senz’altro porre la questione della revisione della nostra attuale concezione e delle forze motrici della nostra epoca [formula inequivocabile che per un marxista significa rivedere tutto, né più né meno (n.d.a.)]. In questo caso non si tratterebbe solo di appiccicare con un colpo secco un’etichetta ull’Urss o sulla cricca staliniana, ma di rivedere la prospettiva storica mondiale per i prossimi decenni, e forse per i prossimi secoli: siamo entrati nell’epoca della rivoluzione sociale e della società socialista o, al contrario, nell’epoca della società decadente della burocrazia totalitaria?» (p. 55).
«Se tuttavia si ritiene che l’attuale guerra non provocherà una rivoluzione, ma un declino del proletariato [come effettivamente è accaduto (n.d.a.)], allora non rimane che un’alternativa: l’ulteriore decadimento del capitalismo monopolistico [...] un regime di declino contenente i germi dell’eclisse della civiltà. [...] Dovremo quindi riconoscere a malincuore che, se il proletariato mondiale dovesse realmente dimostrarsi incapace di compiere la missione che gli è stata affidata dal corso degli eventi, non rimarrebbe altro che riconoscere che il programma socialista basato sulle contraddizioni interne della società capitalistica si sarà risolto in un’utopia. È chiaro che si richiederebbe un nuovo programma minimo, per la difesa degli interessi degli schiavi della società totalitaria burocratica» (pp. 47-8).
Vorrei che tutte queste affermazioni più o meno profetiche venissero esaminate alla luce di quel concetto di «prematurità» già ricordato. Perché per il resto non vi sono critiche fondamentali o epocali da rivolgere all’analisi trotskiana. Sappiamo che Trotsky aveva formulato una delle più compiute analisi dei fascismi, sia in termini sociologici, sia seguendo con continuità nel tempo la loro trasformazione politica. Aveva previsto la guerra mondiale e aveva un’analisi della guerra - che si rivelerà in parte fallace, ma solo perché a causa della propria morte Trotsky non poté assistere alle trasformazioni delle successive fasi del conflitto. Se ne avesse avuto il tempo avrebbe certamente rivisto alcune sue illusioni sulla possibilità di trasformare la guerra interimperialistica in rivoluzione, a cominciare dal paese che più gli stava a cuore, e cioè l’Urss.
Con il privilegio dei posteri sappiamo che in nessun paese capitalista avanzato la guerra è sfociata in rivoluzione (anche per il contributo decisivo dato in tal senso dai partiti comunisti staliniani, come in Italia e in Francia), che nell’Urss le necessità della difesa dall’invasione hitleriana hanno soffocato il risentimento delle popolazioni verso la burocrazia criminale che prima si era accordata con il nazismo e poi si era dimostrata incapace di organizzare la resistenza all’invasore se non al prezzo mostruoso di milioni di vite umane e, infine, che in alcuni paesi arretrati la lotta di liberazione nazionale antinazista o antigiapponese ha portato all’instaurazione di regimi burocratici totalitari inizialmente sottoposti all’egemonia dello stalinismo sovietico, come in Cina, Vietnam, Corea, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Albania. Ma il nucleo delle aspettative trotskiane - e cioè che i lavoratori russi avrebbero tratto profitto dalla crisi bellica per sbarazzarsi della casta criminale detentrice del potere, non si è realizzata, con conseguenze per Trotsky imprevedibili sia nel senso del rafforzamento temporaneo (parliamo di decenni) della casta, sia nel senso di una definitiva degenerazione di tutti i partiti cosiddetti «comunisti» legati all’Urss e agli interessi della sua diplomazia estera. La storia della concorrenza economica tra Urss e Usa e le vicende contraddittorie della Guerra fredda sono arcinote e non abbiamo bisogno di richiamarle in questa sede.
A me, personalmente, interessava ricordare l’invito (sconsolato quanto si vuole, ma realistico) contenuto nella variante negativa della profezia trotskiana: a fronte dell’incapacità del proletariato di assolvere ai propri compiti storici in Urss e nel mondo, occorre rivedere i fondamenti teorici sui quali si è costruito il programma del socialismo ed occorre procedere a una nuova definizione delle classi sottoposto alla schiavitù della società totalitaria. Un’apertura teorica non da poco per qualcuno proveniente dalla file della Seconda internazionale, passato come fondatore nella Terza e nella Quarta, che basterebbe da sola a coprire di ridicolo tutti coloro che continuano ad appellarsi alla lettera delle citazioni trotskiane, ignorando l’appello antidogmatico, radicalmente eterodosso e storicamente aperto a ogni nuova ipotesi rivoluzionaria contenuto nelle parole appena citate. Gli epigoni, impegnati a «ricostruire» la Quarta internazionale dopo la grave sconfitta bellica, non solo non hanno fatto tesoro di quelle parole, ma hanno fatto e continuano a fare di tutto per impedire alle nuove generazioni marxiste rivoluzionarie di valorizzare sino in fondo il significato storico di quelle parole. E ciò anche a costo di scissioni ed espulsioni, vale a dire anche a costo di veder fallire la possibilità d’incontro fra il vecchio patrimonio del comunismo prestaliniano e i nuovi movimenti sorti in gran parte del mondo alla fine degli anni ‘60.
Ma torniamo ancora un istante al brano profetico de La rivoluzione tradita da me già citato, quando si afferma che se il sistema sociale della burocrazia sovietica si stabilizzasse o divenisse normale (legale), con o senza resistenza da parte dei lavoratori, si avrebbe una «liquidazione completa delle conquiste della rivoluzione proletaria», cioè la fine di qualsiasi carattere progressista nell’operato della burocrazia sovietica: un carattere progressista che Trotsky credeva ancora di riconoscere e che starà alla base della parola d’ordine tanto contestata (anche in anni recenti) di «difesa dell’Urss contro le aggressioni militari dell’imperialismo».
Ebbene, oggigiorno non possono esservi dubbi che il regime dispotico della burocrazia si è stabilizzato (ma solo nel senso di un’indiscutibile continuità storica, perché le crisi si susseguono e nubi burrascose continuano ad addensarsi sulla sopravvivenza della casta moscovita). Così come non vi sono dubbi che esso si sia «legalizzato», anche se sappiamo di che tipo di legalità si tratti. Non mi riferisco infatti alle leggi che il regime vara per togliere libertà ai lavoratori e mantenere se stesso, ma intendo la cosa ben più grave, e cioè la «normalizzazione» di cui parlava anche Trotsky, cioè il fatto che quegli stessi lavoratori hanno ormai introiettato le caratteristiche autoritarie e antipopolari del regime, il fatto che le subiscono anche se non le condividono. Il tutto è spiegabile e comprensibile, ma è oggettivamente reale al punto che possiamo affermare senza esitazioni che il livello di coscienza della maggioranza dei lavoratori sovietici è infinitamente inferiore a quello delle classi lavoratrici nella maggioranza dei principali paesi imperialistici - Stati Uniti compresi dove almeno i lavoratori godono di libertà sindacali e democratiche che in Urss sono scomparse da decenni.
Possiamo quindi affermare con serena certezza che nell’Urss odierna non vi è più alcuna conquista storica della rivoluzione proletaria (diretta o indiretta, e comunque non riconducibile a un ipotetico sviluppo «normale» del capitalismo come si manifesta in altri paesi avanzati) che valga ancora la pena di difendere. Da quando sia diventata valida questa affermazione è problema ancora da discutere, ma non più come problema politico, bensì come problema storiografico, appartenendo esso al passato remoto o prossimo, secondo i punti di vista, ma pur sempre al passato. Personalmente sono convinto che ciò sia vero almeno dalla fine del 1923-24, come fatto definitivo, ma da prima ancora come fatto tendenziale. Alle origini della mia militanza nella Quarta internazionale (1966) fin verso la fine degli anni ‘60, non la pensavo così. Ma poi mi misi a studiare seriamente la questione e, nel mio primo libro (Le teorie dell’autogestione, apparso nel 1974, ma scritto negli anni precedenti), descrissi come addirittura già a dicembre del 1917 - con le leniniane «Istruzioni per il controllo operaio» - si cominciò col desautorare parzialmente i Comitati di fabbrica, la spina dorsale dei principali soviet, per poi proseguire subito dopo con la liquidazione degli stessi soviet, dei sindacati, di tutte le forme di democrazia diretta, nonché di quella istituzionale, accompagnando o seguendo da presso l’involuzione del partito. Dopo di allora ho continuato a vedere la questione con chiarezza via via crescente (lo testimoniano alcune mie opere successive), aiutato in questa riflessione - per quanto paradossale possa sembrare - anche dall’analisi dei processi involutivi della stessa Quarta internazionale e del «trotskismo» organizzato nel mondo, quello che chiamo normalmente «movimento trotskoide», per distinguerlo dalla vicenda del suo degnissimo fondatore.
Ma altri compagni possono pensare che ciò sia diventato vero nel 1933 (vittoria del nazismo aiutata dalla politica di Stalin), o nel 1936-37 (tradimento della rivoluzione spagnola e politica dei fronti popolari), o nel 1939 (patto con Hitler) o nel 1956 (invasione dell’Ungheria). Nessuno di noi ha però aspettato il 1968 (invasione della Cecoslovacchia) per scoprire con Berlinguer e il Pci che la dinamica della rivoluzione sovietica aveva «perduto qualsiasi spinta propulsiva». C’è anche chi anticipa di molto la data e considera il vergognoso massacro di Kronstadt (1921) come il momento conclusivo della dinamica rivoluzionaria aperta dall’Ottobre del 1917, quindi come l’inizio della controrivoluzione bolscevico-staliniana. Confesso che questa ipotesi potrebbe apparire oggigiorno come la più realistica (la più vicina alla realtà storica), se non fosse che ancora per un biennio dopo Kronstadt (e la fine del comunismo di guerra) sopravvisse una minima dialettica in seno alle istituzioni politiche sovietiche e anche (se non soprattutto) in seno ai partiti della Terza internazionale. E invito a non sottovalutare questo dato internazionale e internazionalistico allo stesso tempo, senza il quale non si capirebbe l’inganno successivo che ha consentito allo stalinismo di diventare il principale centro organizzatore della maggioranza relativa dei lavoratori nel mondo capitalistico, avanzato o arretrato, con eccezioni vistose come l’Argentina del peronismo, il laburismo britannico o le socialdemocrazie tedesca e scandinave. Ma eccezioni, appunto. Ciò che a Trotsky sembrava «prematuro» nel 1936, comunque, si è storicamente stabilizzato nel corso di decenni, consentendoci oggi di prendere atto della perdita di qualsiasi caratteristica sovietizzante o comunisteggiante nel sistema sovietico (paesi satelliti o ex satelliti inclusi) attuale.
E poiché non riusciamo più a vedere alcun tratto progressista migliore o più dinamico rispetto al capitalismo dei paesi imperialistici (paesi avanzati), per esempio nella questione dell’economia del tempo di lavoro, ma anche in altri campi decisivi come il funzionamento della democrazia, l’organizzazione sindacale, la liberazione della donna, la battaglia antiautoritaria dei giovani ecc., non possiamo più difendere la parola d’ordine di «difesa dell’Urss». Ciò significa che in caso di una guerra contro l’Urss (per altro assolutamente improbabile) ci manterremmo assolutamente neutrali tra i contendenti, continuando a lavorare per la la rivoluzione tra i lavoratori di tutti i paesi eventualmente coinvolti. Ricordo che non è questa la nostra posizione nel caso di aggressioni da parte dell’imperialismo (o da parte della burocrazia sovietica, come in Afghanistan) ai danni di popoli arretrati, dipendenti o semidipendenti, dove ci troviamo schierati dalla parte dell’aggredito sulla base di principio dell’autodeterminazione dei popoli e indipendentemente dal giudizio che possiamo dare della direzione politica del movimento di liberazione nazionale (è il caso della Palestina, ma non solo)
2. Mutamenti della funzione sociale dell’Urss e della sua politica estera

Per proseguire dobbiamo anche ricordare brevemente la nostra analisi tradizionale dei regimi di origine staliniana, quale è contenuta nella seconda parte della Dichiarazione programmatica [Ora ripubblicata nel quarto vol. di scritti inediti di R. Massari, Bolsena 2007, pp. 399-542 (nota del 2010)]. La nostra posizione non è mai stata riconducibile alla definizione dogmatica e un po’ astrusa di «Stato operaio degenerato con una base socialista per le forme di produzione e capitalista per quelle di distribuzione», cui a volte viene ricondotta l’analisi della burocrazia controrivoluzionaria staliniana dai settori più ingenuamente «ortodossi» del movimento trotskoide. Per noi la definizione è semplice (e comunque rimando alla Dichiarazione programmatica per la sua argomentazione): l’Urss è una società bloccata nell’ambito di un processo regressivo, anche se originato da quel fenomeno storicamente progressivo che è stata la rivoluzione soviettistica dell’Ottobre 1917, al cui interno si è prodotto il controfenomeno reazionario (regressivo in questo senso) dell’instaurazione del potere da parte della casta burocratica staliniana. Attenzione alla distinzione: è il fenomeno regressivo dell’involuzione burocratica che si è bloccato, fermato, non il processo positivo della Rivoluzione del 1917, che invece è da tempo liquidato e sconfitto (anche con la violenza) e della cui datazione si diceva prima. Non stiamo dicendo che la società sovietica stia regredendo socialmente, cioè che marci nella direzione della barbarie. No. La società sovietica è ferma, è bloccata dal punto di vista della dinamica sociale, della trasformazione delle forze produttive, ma anche della legislazione, dell’elaborazione culturale, dell’atteggiamento di fronte ai vari processi di «modernizzazione» che pure si verificano nelle società capitalistiche e non solo in quelle avanzate.
Per ragioni di tempo non presentiamo qui tutte le differenze che esistono tra l’Urss, la Cina, la Jugoslavia ecc., che sono comunque analizzate nella Dichiarazione programmatica. La definizione di quelle società è certamente più facile, mentre il problema vero rimane quello dell’Urss.
Può sembrare paradossale, ma nel sistema sociale sovietico non c’è stato nessun mutamento strutturale significativo dagli anni d’instaurazione dello stalinismo come regime sociale (quindi il periodo della Nep e della sua conclusione) ad oggi. Siamo ovviamente consapevoli dei cambiamenti che si sono verificati e ancora si verificano nel modo di vita, nei processi di urbanizzazione, nelle mode, nell’istruzione scolastica e nella stessa ricerca scientifica. Ma non è di questo che intendiamo parlare quando diciamo che non c’è stato nessun mutamento strutturale nella dinamica dei rapporti sociali o nel sistema di relazione tra le forze produttive. Per un marxista rivoluzionario il concetto è chiaro. Per un marxologo accademico, o per uno strutturalista althusseriano probabilmente no. Basta complicare un po’ il linguaggio e le cose perdono le loro caratteristiche di evidenza. Tra queste il fatto che la società sovietica è bloccata da molti decenni dal permanere ai vertici dello Stato di una casta burocratica, somma di tanti interessi individuali, ma compatta nel difendere i propri interessi storici di casta. Tutto qui. Senza tante altre parole rivolte a nascondere il «segreto arcano» della società sovietica, come lo avrebbe definito Marx e con lui Naville che a questa formulazione tiene molto.
Vale la pena di citare come esempio l’agricoltura, su cui poi tornerò. A partire dalla collettivizzazione forzata (1928-29) non c’è stata nessuna trasformzione sociale significativa nei rapporti di produzione vigenti nelle campagne sovietiche. Certo, vi sono stati anche mutamenti sul piano statistico, culturale (l’arrivo della televisione, per es.) o tecnologico (i trattori); è vero che i giovani scappano dalle campagne per andare a vivere in città; è vero che le riforme di Liberman (di cui va ricordata la morte avvenuta alcuni giorni fa) hanno concesso un piccolo appezzamento di terra al contadino kolchoziano, ma la struttura dei rapporti di produzione nelle campagne sovietiche fondamentalmente non è cambiata a tutt’oggi. La concessione di mezzo ettaro di terra, che sicuramente rappresenta un passo avanti rispetto alla quasi servitù della gleba che vigeva all’epoca dello Zar, ci dice in quali condizioni vive e lavora il contadino sovietico, vale a dire l’esponente di una classe sopravvissuto alle stragi (dirette o indirette) delle masse rurali all’epoca della presunta «dekulakizzazione» staliniana. E questa staticità corrisponde alla staticità produttiva dell’agricoltura sovietica, che tutti conoscono, alla quale si cercò di opporre vanamente riparo in epoca krusceviana e sulla quale vi fornirò poi alcuni dati. Resta il fatto che né la collettivizzazione è riuscita a diventare integrale, né vi è ritorno alla proprietà privata. È semplicemente tutto fermo, sotto il profilo delle trasformazioni dei rapporti di produzione, in attesa di un qualche evento risolutivo che superi o affossi per sempre l’arretratezza congenita dell’agricoltura sovietica. A voler semplificare possiamo dire che c’è il settore dei kolchoz e dei sovchoz a controllo statale e a produzione insufficiente per il fabbisogno del paese. E ci sono gli appezzamenti privati, nei quali si riesce a raggiungere dei livelli produttivi più elevati.
Nelle relazioni industriali, nella collocazione produttiva dell’operaio (di fabbrica e non) non è cambiato nulla dalla fine della Nep, a parte un minimo miglioramento del livello di vita (assolutamente non-paragonabile a quello intervenuto nel livello di vita dei lavoratori nei paesi imperialistici). La rete organizzativa dell’industria sovietica è rimasta identica a se stessa. All’epoca fu creato l’Istituto centrale per la pianificazione (passato poi sotto vari nomi e varie sigle) che diramava le sue deliberazioni agli uffici secondari, i quali le diramavano alle fabbriche, alle quali non restava altro che tentare di applicarle (con maggiori o minori risultati a seconda dei periodi, dei rifornimenti di materie prime ecc.).
La figura del direttore di fabbrica di cui si diceva, negli anni del maoismo, che stessero diventando i proprietari delle aziende. Fesserie. Sono rimasti dipendenti di fabbrica, come despoti locali - è vero - ma sottoposti al controllo rigido di una gerarchia piramidale della quale il direttore di fabbrica riesce a vedere o contattare solo il gradino superiore, conservando però uno strapotere nei confronti dei suoi diretti dipendenti (gli operai) secondo l’ideologia contenuta in una serie di orribili testi di Lenin successivi all’Ottobre (e a Stato e rivoluzione) dedicati alla necessità di conferire ai direttori di fabbrica degli strapoteri, ma solo verso il basso, cioè verso i lavoratori e per questioni locali di fabbrica (orari, ferie, cottimi, distribuzione nei reparti ecc.). Questa figura del direttore di fabbrica è antica quanto lo stalinismo, anche se ha dei precedenti storici nella figura dello starosta zarista (a sua volta un dipendente ligio alla volontà dei padroni, ma costretto bene o male a fungere da mediatore con la base operaia, a differenza del direttore attuale che ha un potere illimitato). In conclusione, il direttore di fabbrica non ne è diventato proprietario, non è diventato un alto burocrate e non è scomparso come figura sociale: è sempre lì, immutabile nel tempo così come lo sono le relazioni industriali nell’Urss dalla sconfitta dei Comitati di fabbrica in epoca leniniana ad oggi, con un’attenuazione del periodo del grande terrore, quando bastava anche solo il sospetto per inviare un operaio (o magari solo perché dotato di una certa specializzazione) a lavorare come schiavo in uno dei grandi cantieri del Gulag.
Non mi dilungo nella descrizione del carattere stagnante delle relazioni industriali nel mondo sovietico perché ormai da un po’ di tempo non mancano ricerche esaurienti sul tema (a differenza di quanto accadeva in epoca prekruscioviana) e una di queste la segnalo in modo particolare: il voluminoso volume di Thomas Lowit, Le syndicalisme de type soviétique (Armand Colin, Paris 1971). Ebbi modo di conoscere l’autore quando lavoravo al Cnrs in Francia e ricordo una sua conferenza (febbraio del 1972) in cui descrisse dettagliatamente la rigida struttura gerarchica nelle relazioni industriali in Urss, poi esportata pressoché identica nelle altre cosiddette «democrarazie popolari» (in particolare i casi della Cecoslovacchia, Ungheria e Bulgaria). Lowit si è occupato in modo particolare anche di quella che chiama la «gerarchia dei salari», per cui ha calcolato che i 17 livelli esistenti agli inizi della Nep sono poi diventati quasi subito 35 e tali sono rimasti. La grande sperequazione nei livelli salariali va affiancata all’introduzione del salario a cottimo illimitato, da non confondere con gli incentivi d’ordine propagandistico-ideologico e che vengono riassunti nella terminologia dell’emulazione. E ovviamente la descrizione della piramide gerarchica dei direttori, sottocapi, capi di reparto ecc. considerata la quintessenza del marxismo giacchè rafforza lo Stato a detrimento delle posizioni anarchiche che la vorrebbero eliminare.
Stagnazione in agricoltura, stagnazione nelle relazioni industriali... viene da chiedersi se qualche settore dell’economia stia vivendo una maggiore dinamicità. Ho provato ad esaminare la presenza di trasformazioni nel campo valutario, vale a dire la gestione guidata delle operazioni valutarie che, come sappiamo, è ancor oggi uno dei comparti più imprevedibili e burrascosi dell’economia capitalistica. Niente di paragonabile alle grandi dispute teoriche che a questo riguardo hanno dilaniato (non solo in termini teoretici) il mondo degli studiosi di economia politica, dalla scuola di Chicago degli anni ‘50 in poi. Nessun conflitto, nessuna modernizzazione, nessuna avventura per il rublo. Questo è un pezzo di carta dal 1917 e come tale è considerato nel mercato internazionale delle valute, dove l’Urss è costretta ad effettuare i suoi pagamenti in valuta convertita (in dollari, soprattutto, ma anche marchi e valute dette «pregiate»). Posso solo commentare che nel 1917 il rublo era un pezzo di carta, ma era anche un impegno che il nuovo governo rivoluzionario si assumeva nei confronti dei consumatori russi (impegno poi disatteso come tanti altri impegni di quella breve alba rivoluzionaria). Oggi l’impegno è disatteso per definizione e senza appelli possibili. Non esistono infatti in Urss associazioni di difesa dei consumatori e la scarsa qualità dei principali beni di uso corrente sta lì a dimostrarlo. E numerosi giornalisti e studiosi ci informano che i sovietici hanno grandi disponibilità finanziarie, nella forma di liquidità depositata in banca che però non sanno come spendere, non potendo investire, da un lato, e non potendo consumare al livello corrispondente dei ricchi o neoricchi occidentali. E questo perché la non-convertibilità del rublo all’estero lo condanna ad essere ancora un pezzo di carta nazionalmente convenzionale, senza che si intravveda una qualche possibilità di cambiare questa sua natura nel prossimo futuro. La staticità qualitativa del rublo è più che un semplice riflesso della staticità qualitativa dell’intero sistema produttivo sovietico. La propaganda ufficiale, com’è noto, si dedica a decantare le grandi conquiste economiche sotto il profilo quantitativo, ma ahimé, la nota leggenda idealistico-hegheliana della quantità che si trasforma in qualità ancora non ha avuto riscontri nella realtà dei rapporti sociali di produzione in Urss.
L’unico paese dell’area sovietica che ha tentato per un breve periodo della sua storia di superare l’impasse determinato dalla debolezza e dalla non-convertibilità della moneta è stata Cuba. Ciò è avvenuto temporaneamente negli anni ‘60, sotto diretta ispirazione di Guevara quando si iniziò una linea di politica economica che mirava a superare l’utilizzo della moneta, puntando in prospettiva a una sua scomparsa. Ma Cuba non c’è riuscita e il peso cubano vive un’esistenza ancor più grama del rublo russo (di cui è comunque suddito e succube dopo l’entrata di Cuba nel Comecon).
La natura puramente cartacea del rublo salva ovviamente l’Urss dalle disavventure valutarie che attraversano periodicamente e sempre più frequentemente il mercato internazionale delle monete. Niente oscillazioni, niente accaparramenti, niente operazioni speculative, ma non a causa di una buona gestione dell’assetto valutario sovietico, ma semplicemente a causa del non-valore, della non-convertibilità del rublo: un vaccino, per una grande economia di scala come quella sovietica, costretta a pagare tutte le operazioni finanziarie all’estero con moneta pregiata non sua, che è peggiore del male. Le autorità monetarie sovietiche sono comunque alla ricerca di canali attraverso i quali superare questo vero e proprio handicap della loro economia. Che possano riuscirvi in un futuro non lontano, ho i miei dubbi. Ma non sono un esperto di economia valutaria al punto di poter fare una previsione certa. Mi limito a descrivere il presente. E mentre assisto ai vari tentativi da parte imperialistica di regolare in un qualche modo il flusso delle transazioni valutarie internazionali - prima il Gatt finché ha tenuto, poi lo Sme finché ha tenuto e così via - da parte sovietica emana la stagnazione assoluta. Il rublo rimane un impegno cartaceo che lo Stato si assume nei confronti dei consumatori e che in gran parte non è in grado di mantenere.
Parliamo ora della presenza commerciale all’estero dell’Unione sovietica. Premettendo che per l’Urss è negativa la bilancia dei conti con l’estero (cioè importa più di quanto esporta), diciamo che possono esservi stati incrementi del 5, del 10 % rispetto all’epoca della Nep (qundo si poterono concludere contratti commerciali con le compagnie estere) e a seconda delle stime. Comunque incrementi insignificanti, anche se negli anni una modifica vi è stata visto che all’epoca della Nep erano contratti sotto rigido controllo sovietico, ma con il tempo sono diventati contratti «misti». Di questi contratti parla esaurientemente il libro del canadese Charles Levinson, Vodka Cola (Vallecchi 1978, traduzione di Antonella Marazzi). E così, mentre anche il regime libico di Gheddafi riesce a comprare azioni della Fiat, non troverete una presenza del capitale finanziario sovietico in nessuna grande industria o trust internazionale degni del nome. La troverete in aziende di credito o nel campo dell’import-export, in genere nel terziario, o magari per costruire dighe, strade, palazzi, e sempre comunque in paesi ai quali i sovietici sono legati da rapporti politici o in cui sperano di stabilirli (l’Egitto, per una fase l’Argentina, oggi obbligatoriamente nell’Afghanistan da loro occupato). Se può sembrare eccessivo pensare per analogia alla politica economica dell’Italia fascista (per es. in Somalia), va però detto che non vi è nulla che possa consentire di parlare di una penetrazione del capitale sovietico nelle economie dei principali paesi imperialistici. E questo lo diciamo a definitiva tumulazione delle sciocchezze che i maoisti nostrani disseminarono nei primi anni ‘70 con le loro denunce sulla minaccia imperialistica del «socialimperialismo» sovietico. Ovviamente i compagni intendono la differenza tra l’uso del termine «imperialismo» nel senso dell’economia politica e l’uso del termine «imperiale» in campo diplomatico, militare, come sinonimo di sciovinismo da grande potenza. Questo sì, effettivamente esistente e in continua espansione.
Tutto ciò ci porta a ribadire quanto scritto nella Dichiarazione programmatica per cui l’Urss continua ad essere un enclave, un’inclusione non-capitalistica all’interno del mercato imperialistico mondiale. E nell’arco di settant’anni questa sua collocazione - esaminata sotto il profilo della teoria marxista (ma anche delle migliori scuole di economia politica borghese) - non appare mutata sostanzialmente e sotto il profilo strutturale. Può sembrare una banalità ma devo purtroppo ricordarvi che alla fine degli anni ‘60, sotto l’influenza deleteria del maoismo, ci toccava ascoltare per bocca anche di noti intellettuali europei e statunitensi che in Urss stavano reinstaurando il profitto di tipo aziendale, che stavano privatizzando l’agricoltura, che l’organizzazione del lavoro di modello tayloristico era la stessa dell’industria statunitense e che tutto ciò costituiva una grande trasformazione in senso capitalistico dell’Urss. Magari non tutti credevano a queste descrizioni di folgoranti trasformazioni in corso, ma si poteva anche avere la sensazione che grandi rivolgimenti stessero mutando il volto dello stalinismo post-staliniano in campo economico. Oggi noi affermiamo, invece, e senza esitazioni che l’Urss continua ad essere un sistema sociale bloccato sotto il profilo della dinamica dei rapporti di produzione e stagnante dal punto di vista del funzionamento economico.
Ma tale constatazione non deve farci tornare indietro alla definizione trotskiana di uso tradizionale e ancor oggi corrente: ecco, vedete, avevamo ragione a definirlo uno «Stato operaio degenerato ecc.». No, dobbiamo utilizzare l’analisi della stagnazione e dell’immobilità per andare avanti sul piano teorico e dimostrare la reale inferiorità del sistema sovietico rispetto a quello imperialistico, l’inadeguatezza delle categorie economiche borghesi «classiche» per definire il funzionamento dell’economia sovietica, l’impossibilità per la burocrazia sovietica di competere sul terreno dell’economia con l’imperialismo, la contraddizione che mina dall’interno come un cancro il sistema di relazioni industriali dell’Urss e che la condanna a una stagnazione crescente, contro gli interessi «storici» della stessa burocrazia. A questa resta infatti una sola alternativa, avendo escluso storicamente (quindi per sempre e senza mezzi termini) la prospettiva del socialismo: l’alternativa della trasformazione capitalistica, non certo nel senso di un ritorno all’epoca di Kerenskij o di un’amplificazione della Nep, ma nel senso di un vero e proprio cambio di regime sociale e politico. Il sogno della burocrazia moscovita è ormai palesemente quello di una sua trasformazione da casta in classe sociale borghese, ma senza ancora intravvederne il modo: un modo che dovrebbe cominciare necessariamente dall’abolire il monopolio statale dei principali mezzi di produzione. E poiché da quella proprietà nazionale la burocrazia trae la ragione della propria esistenza, essa non può abolirla senza mettere a repentaglio la propria esistenza di casta. Come effettuare il passaggo da casta a classe senza autodistruggersi rimane ancora oggi il problema fondamentale della burocrazia sovietica, sia del suo gruppo dirigente politico-militare, sia dell’elefantiaco apparato che di lì si irradia nel partito, nelle istituzioni, nelle organizzazioni economiche, negli enti statali, nel mondo accademico, nell’esercito e nell’intera rete poliziesca.
Se questa trasformazione avverrà a breve scadenza e quali forme assumerà (violente o pacifiche, istituzionali o con profondi sommovimenti di massa) non siamo in grado di prevederlo. Ma qualcosa di certo accadrà [e accadrà clamorosamente sei anni dopo, nel 1989 (nota del 2010)] perché la stagnazione del sistema cozza contro tutti i dettami del moderno mercato imperialistico .
Dovrei poi aggiungere un capitolo a parte per la questione delle varie nazionalità oppresse dallo sciovinismo granderusso della burocrazia sovietica. Anche queste varie nazionalità irrggimentate e soffocate nelle loro aspirazioni fin dai primi anni dell’avvento di Stalin hanno le loro propaggini burocratiche; anche queste pagano il prezzo della stagnazione, ma esse aggiungono a loro volta il tema della rivalsa nei confronti del potere centrale, mescolando rivendicazioni di autonomia economica con vere e proprie istanze di libertà istituzionale, di autodeterminazione nazionale. Cito solo l’esistenza del tema, ma non mi ci addentro. Invito comunque a non sottovalutarlo perché alla lunga potrà rivelarsi come un fattore di disgregazione più forte dell’insubordinazione operaia a tutt’oggi giacente sotto un silenzio tombale.
E un altro capitolo andrebbe aggiunto per gli Stati detti ironicamente di «democrazia popolare», cioè i paesi in cui l’Armata rossa è entrata alla fine del Secondo conflitto mondiale e non ne è più uscita. Anche a questo riguardo passiamo oltre, limitandoci a segnalare l’importanza della questione (che comunque nessuno più sottovaluta come forse fu fatto dopo l’Ungheria del 1956, ma come non viene più fatto dopo la Cecoslovacchia del 1968 e la rivolta degli operai polacchi di Solidarnosc). E ricordiamo soltanto che questo genere di paesi - che definiamo «bloccati», ma anche «bloccantisi» - si può suddividere in tre categorie.
I paesi economicamente più sviluppati, dotati di un forte apparato industriale e di una moderna rete commerciale per le esportazioni, come l’Urss e la Cecoslovacchia. Quest’ultima aveva già conosciuto un’ampia industrializzazione prima dell’avvento del regime staliniano, aveva poi subìto la depredazione postbellica di parte dei suoi mezzi di produzione ed è poi entrata nel contesto della stagnazione e di economia bloccata sulla scia del modello sovietico. Basterebbe fare un paragone tra questo industrioso paese della Mitteleuropa e Stati confinanti di analoghe modeste dimensioni (l’Austria, la Danimarca, la Svezia) per avere un’immagine vivida dello svantaggio arrecato dalla sovietizzazione e dal fatto di essersi trasformata in società bloccata a sua volta.
I paesi sviluppati male o insufficientemente, come Cina, Corea, Polonia, Ungheria ecc. Che nonostante le differenze storiche e culturali, rappresentano ancora paesi in cui il processo di industrializzazione non ha raggiunto i livelli indispensabili per un’economia moderna e in grado di competere sul mercato internazionale. Nel caso della Cina, poi, il discorso si fa più complicato vista l’arretratezza spaventosa delle sue strutture agricole e l’incapacità da parte del governo centrale di realizzare una politica di equilibrio economico tra le varie regioni. Grandi trasformazioni devono verificarsi anche in quel grande paese, ma anche lì il potere assoluto di quella parte della burocrazia ex maoista uscita vincitrice dalla cosiddetta «rivoluzione culturale» e le successive lotte intestine all’apparato costituiscono un freno assoluto allo sviluppo del Paese. Un paese bloccato con problemi drammatici da risolvere nell’immediato e su scala gigantesca.
Infine i paesi precapitalistici, come la Cambogia o l’Albania, in cui uso il termine «precapitalistico» non in senso rigoroso (giacché oggi nel mondo tutto è direttamente o indirettamente capitalistico per il solo fatto di essere inserito nel mercato mondiale), ma per descrivere uno stato di primitivismo economico, di un’economia ancora fondamentalmente di sussistenza, addirittura pastorale nel caso della dittatura albanese, apparentemente più tranquilla della sanguinaria dittatura cambogiana, ma solo perché i venti della guerra hanno soffiato nell’Adriatico alcuni decenni prima del Sudest asiatico, lasciando anche lì una lunga scia di esecuzioni di massa e deportazioni. Quando sento definire come «socialisti» anche questi paesi mi prende lo sgomento e francamente non so più che dire. Come posso analizzare i rapporti sociali di produzione in un paese in cui la maggioranza della popolazione vive nascosta nelle giungle temendo di essere massacrata a volte dai Khmer e a volte dall’esercito vietnamita, dopo essere stata massacrata dagli Stati Uniti?
Tutto ciò lo tralascio (e comunque anche per questi aspetti, soprattutto per la Cina e il Vietnam, rinvio alla Dichiarazione programmatica).
Esisterebbe poi anche una quarta categoria, di paesi dall’incerta definizione del tipo di rapporti di produzione dominanti, trattandosi di paesi capitalistici dipendenti di relativamente nuova indipendenza politica e che mantengono rapporti privilegiati con l’Urss e gli altri paesi satelliti. Cito i nomi per dare un’idea dei paesi ai quali intendo riferirmi - Angola, Mozambico, Etiopia, Libia, Afghanistan, Birmania e le zone del Libano un tempo controllate dai Palestinesi - in cui parlare sic et simpliciter di «economie capitalistiche» non rende adeguatamente la realtà molto più complessa e intricata che si ritrova al loro interno. Non sono società bloccate come quelle formatesi sotto direzioni staliniane, ma non sono nemmeno paesi in cui l’imprenditore capitalista straniero va a investire capitali a cuor leggero. Del resto sono paesi che mantengono un rapporto più o meno stretto con l’Urss (l’Afghanistan è addirittura occupato militarmente) e di lì nulla di buono può venire loro sotto il profilo economico, a parte alcuni trattamenti preferenziali legati momentaneamente alla loro utilità per la diplomazia estera sovietica. Non sono società bloccate, ma non sono nemmeno paesi capitalistici stabili. Andrebbero analizzati uno per uno e soprattutto esaminati sotto il profilo della dinamica storica successiva al conseguimento dell’idipendenza politica. Un compito che va molto al di là del tema di questa relazione.
L’imperialismo prosegue nella sua marcia storica fondata su processi di concentrazione, unificazione, omologazione od omogeneizzazione (di se stesso). Cioè a dire che i livelli economici, finanziari, culturali tendono ad essere sempre meno diversificati tra un paese imperialista e l’altro: tra gli Usa e la Germania, tra la Germania e il Giappone, tra il Giappone e la Francia, tra la Francia e l’Italia. Può anche accadere che questo o quel paese versi momentaneamente in situazioni particolarmente difficili, mai disperate, però. E può accadere che un momentaneo conflitto (valutario, confinario, di giurisdizione ecc.) possa contrapporre un paese a un altro. Ma non c’è dubbio che il processo dominante su tutti gli altri è l’omogeneizzazione all’interno delle aree imperialistiche. Un processo talmente macroscopico che rende socialmente irrilevanti molte delle figure sociali di cui vi dicevo prima: il contadino russo col suo mezzo ettaro di terra, il cambogiano che vive nella giungla o il pastore albanese in attesa di una possibilità per emigrare, saranno esseri umani collocati in condizioni drammatiche quanto si vuole, ma sono anche figure sociali irrilevanti per il ruolo che possono svolgere all’interno dei rapporti di produzione dominanti in quella determinata area. La loro definizione non apporterebbe alcun mutamento significativo all’analisi qui proposta che, ricordiamo, mira alla definizione di enclaves sociali e nazionali, di sistemi chiusi e tendenzialmente autarchici che non cambiano nonostante le alterne vicende della politica mondiale (dal trionfo del nazismo al piano Marshall, dalla Guerra fredda all’oggi) e che sono bloccate sotto il profilo della dinamica sociale.
Una prima conclusione è quindi che mentre il regime sociale dell’Urss non cambia da circa settant’anni (ed ha esteso direttamente o indirettamnte questa sua immobilità sociale a un buon terzo della superficie terrestre), l’imperialismo cambia, continua a cambiare, denota una profonda dinamica interna e non accenna a volersi fermare nei suoi processi di estensione ed omogeneizzazione planetaria. [nel 1983 il termine «globalizzazione» ancora non aveva preso piede, ma si tratta qui chiaramente di un possibile sinonimo (nota del 2010)]. Possiamo quindi dire che solo le società «di classe», quelle cioè in cui domina una precisa classe sociale (nella fattispecie la borghesia e la borghesia imperialistica in particolare) conoscono processi di trasformazione sociale indotti da una dinamica storica di origini plurisecolari, ma della quale vediamo solo la porzione che ci spetta come contemporanei. Sono trasformazioni qualitative non indotte da processi rivoluzionari (se non in parte e molto alla lontana). Non dobbiamo aver paura quindi di chiamarle «trasformazioni evolutive».
Ciò è stato vero in forma via via crescente anche nell’ultimo decennio. Se pensiamo che l’Opec, il cartello dei paesi produttori di petrolio, che sembrava la principale minaccia verso l’assetto dominante dell’imperialismo mondiale (ricordo ancora quando a gennaio del 1974, al 10° congresso mondiale della Quarta, Mandel se ne uscì con la definizione di «capitale finanziario arabo» facendo fare un salto sulla sedia non solo a me, ma anche a Ernesto González e Nahuel Moreno che mi stavano seduti accanto) si è dimostrato essere ciò che era realmente: una parentesi aperta nella corsa all’acaparramento delle materie prime, superata con nuovi accordi e ovviamente con un aumento del costo del barile di cui fanno le spese i consumatori del resto del mondo, per es. in Italia. Ebbene, anche questa vicenda dell’Opec dimostra la grande vitalità del sistema imperialistico. E per un marxista il termine «vitalità» non è che un sinonimo di «progresso». Una società che si autotrasforma, che evolve, è una società che progredisce.
Di qui nascono nuove contraddizioni, nuove fonti di conflitto di classe, interstatuali, ma anche interetnici. Di qui derivano però anche aggiustamenti del sistema e mutamenti del contesto politico. Anche per questo occorre prendere atto dei processi in corso e procedere a nostra volta alla modifica dei nostri orientamenti politici secondo quanto cercherò di esporre nella quarta e soprattutto nell’ultima parte.

3. Prosegue il punto precedente: l’agricoltura sovietica, i principali problemi economici e le «nuove» posizioni di Andropov

Ci siamo mossi all’inizio con l’affermazione che nell’analisi del livello di sviluppo storico raggiunto da un determinato sistema sociale l’elemento che dev’essere prioritario è l’economia del suo tempo di lavoro e che la sua maggiore o minore capacità di produrre mezzi di produzione (ma anche benessere, da intendersi in un certo modo) può essere più importante addirittura dell’analisi dei rapporti di sfruttamento presenti all’interno del sistema. Vediamo se questa affermazione può essere valida anche in rapporto all’analisi dell’agricoltura sovietica.
Nell’economia sovietica non solo essa rappresenta una grande parte del prodotto nazionale lordo ma, trattandosi di un paese con una grande estensione territoriale, ci si dovrebbe attendere addirittura un enorme sviluppo delle capacità produttive agricole. Così non è invece e in Urss la massa della produzione di grano tende a diminuire. 100 milioni di tonnellate nel 1966, 99 nel 1971, 110 nel 1973, 84 nel 1974, 90 nel 1981: dai 100 milioni di tonnellate nel 1966 siamo scesi in un quindicennio ai 90 del 1981.
Il livello generale della produzione di cereali nel 1981 è di 150 milioni di tonnellate. Nel 1982 non si superano i 175, mentre il Piano quinquennale ne prevedeva 235. Se confrontiamo questi dati con quelli degli Usa che, con una popolazione di circa 230 milioni di abitanti (l’Urss ne ha circa 270 milioni), nel 1981 hanno prodotto 310 milioni di tonnellate di cereali: quindi l’Urss, con una popolazione di poco superiore agli Usa ha prodotto praticamente la metà. Ma il dato più interessante è che negli Usa gli agricoltori sono 3,9 milioni, mentre in Urss sono circa 30 milioni, cioè 7-8 volte di più, con una produzione dimezzata. In teoria l’agricoltura sovietica è più estensiva, anche se esistono ampie zone del territorio che non sono coltivabili.
Diminuzione crescente nella produzione di grano, enorme dislivello in quella dei cereali, divaricazione macroscopica nella produttività del lavoro agricolo, a fronte di un’innalzamento dei livelli di alimentazione nell’Urss. Detta in termini semplici, non è vero che i sovietici mangino sempre peggio, perché tendono a mangiare sempre meglio. Il prezzo delle difficoltà agricole viene infatti pagato essenzialmente dal bestiame, nel settore dell’allevamento, giacché i sovietici non riescono a produrre in quantità sufficiente il foraggio, in particolare il mais e la soia. Ciò fa sì che i negozi dei sovietici (e quindi le loro mense) siano carenti di carne, latticini, formaggi, burro e derivati. Per es., secondo uno studio pubblicato negli Usa e riprodotto sulla stampa italiana, il tipo di latte artificiale che viene dato ai bambini è una delle cause dell’aumento della mortalità infantile. Si sta cercando di produrre latte artificiale per l’infanzia sulla base di un brevetto statunitense, ma non si riesce a coprire il fabbisogno.
In un contesto di socializzazione del mercato mondiale non sarebbe in sé un grosso guaio la relativa incapacità a coprire il fabbisogno agricolo di un determinato paese, potendo tale paese produrre beni di produzione, aerei o tecnologia sofisticata da esportare in contropartita delle importazioni agricole e alimentari. Ma il problema non è questo, è il problema dell’economia del tempo di lavoro e cioè il fatto che abbiamo una popolazione addetta all’agricola sovietica quasi dieci volte superiore a quella degli Usa, con una produzione corrispondente alla metà o giù di lì. Quindi non si tratta di una scelta strategica centrale rispondente a criteri di specializzazione produttiva. No, è che mancano gli strumenti per realizzare la produttività che si dovrebbe ritenere necessaria.
Tra le cause della scarsa produttività del lavoro vi è in primo luogo l’insufficiente meccanizzazione dell’agricoltura, ch pur era stata uno dei vanti originari della Rivoluzione, a cominciare già dall’epoca leniniana e poi gonfiata artificiosamente in termini propagandistici nell’era staliniana. Nel confronto con la meccanizzazione dell’agricoltura statunitense il paragone non si pone nemmeno.
Vi è poi la scarsa qualità dei prodotti, sulla quale la stampa avversaria ha riversato fiumi di inchiostro e prodotto anche una serie di gustose barzellette.
I problemi di manutenzione del parco macchine agricole sono riassunti dal dato per cui il trattore sovietico si guasta mediamente ogni 4 giorni. E non stiamo parlando certamente di trattori di qualità Caterpillar o Fiat, ma di strumenti di più bassa qualità tecnica. Ed è notoria la difficoltà che incontra l’industria sovietica a rifornire le campagne di pezzi di ricambio per il parco attrezzi complessivo.
Incide sulla scarsa produttività dell’agricoltura anche l’insufficiente produzione di fertilizzanti (oltre ai problemi connessi alla loro distribuzione). Inoltre vi è anche una scarsa qualità dei fertilizzanti la cui efficiacia si aggira intorno al 20-30 pr cento in meno rispetto a quelli degli Usa.
Infine, l’assenza di infrastrutture al livello necessario per un buon funzionamento della produzione, che provoca ritardi mostruosi nell’insieme dell’economia sovietica. Questa è un’eredità storica dello stalinismo di Stalin, determinata dall’irrazionalità con cui furono varati i primi piani quinquennali. Rete stradale insufficiente, modelli di camion per il trasporto su ruote, pesanti, antiquati e soggetti a frequenti guasti. Carenza di silos che fa perdere una parte dei raccolti per difficoltà di stoccaggio.
Ebbene, se guardiamo più attentamente al tipo di fattori che incidono sulla scarsa produttività agricola ci accorgiamo che sono per lo più riconducibili all’industria. Il che getta una luce particolare sui grandi vanti dell’Urss nel campo dell’industria pesante, visto che dei grandi successi in tale settore (la grande produzione di energia elettrica, di acciaio ecc.), non solo non se ne avvantaggia notoriamente la produzione dei beni di consumo, ma nemmeno quella dei beni intermedi visti i dati riguardanti i camion, i trattori, i fertilizzanti.
Le aversità climatiche vengono spese addotte dai responsabili della burocrazia sovietica in campo agricolo per giustificare il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dal piano. Ma il clima non è certo un elemento fissato dal destino o dal buon Dio (cui i sovietici dichiarano ufficialmente di non credere). Le avversità climtiche si studiano, si prevedono nei limiti del possibile e si affrontano con tecnologie moderne. Basti pensare a quanto viene fatto in Canada per mantenere alti i livelli di produzione agricola in contesti che possono competere con quelli sovietici in quanto ad avversità naturali. Ma mentre il Canada è uno dei massimi esportatori di grano al mondo, la società sovietica non dispone di pari strumenti tecnologici e di pari competenze scientifiche per affrontare le conseguenze sull’agricoltura delle crisi climatologiche. Le disfunzioni burocratiche che ritroviamo in questi settori non sono riconducibili solo alla descrizione della burocrazia staliniana che ci ha lasciato Trotsky, ma ci riconducono alla burocrazia dei funzionari statali con le sue comiche incapacità come ce le hanno descritte Cechov in Russia o Kafka nella Mitteleuropa. È la catena di S. Antonio delle autorizzazioni e delle sottoautorizzazioni che serve solo a coprire una cronica incapacità gestionale e a salvaguardare la funzione del singolo burocrate.
Secondo le Monde Diplomatique di dicembre 1982 l’agricoltura degli Usa è 9 volte più produttiva di quella sovietica. Secondo altre fonti il rapporto è di uno a dieci.
Un discorso a parte, invece, va fatto per gli appezzamenti privati, quelle particelle di terra concesse soprattutto a partire dall’epoca krusceviana delle cosiddette «riforme». Stiamo parlando del 3 per cento della superficie coltivata. E poiché la legge stabilisce al massimo mezzo ettaro per proprietario, basta dividere la prima cifra per la seconda e si ottiene la cifra di 37 milioni di appezzamenti privati. Di questi 22 milioni appartengono a membri di kolchoz o sovchoz che fanno più o meno finta di lavorare nelle aziende di stato (derubandole di chiodi, badili e altri attrezzi facilment asportabili). Gli altri 15 milioni di appezzamenti appartengono invece a lavoratori di altro genere che se ne occupano come di un secondo lavoro.
Ebbene, questo 3 per cento di produzione privata dà quasi un quarto della produzione agricola generale del Paese. Una cifra, però, che dal 1965 va calando. Non esistendo statistiche sovietiche minimamente attendibili siamo costretti a ipotizzare delle ragioni per questo calo nel settore privato. Personalmente penso che una ragione fondamentale vada ricercata nell’esodo dei giovani dalle campagne. I sovietici non riescono a trattenere le nuove generazioni dal dirigersi verso le città, a differenza di quanto fu fatto dal governo cinese a conclusione della Rivoluzione culturale con la deportazione di almeno 8 milioni di studenti dalle città nelle campagne per farli educare al marxismo... dei contadini cinesi.
Un’altra spiegazione potrebbe risiedere nello sviluppo crescente del mercato nero che accaparra o assorbe più di prima questo tipo di produzione. Un’altra ancora, potrebbe essere data dall’esistenza di forme anomale ma diffuse di parcellizzazione della terra, come il fatto che ogni caserma ha il suo pezzo di terra che consente ai militari di integrare il pasto fornito dallo Stato e la cui qualità possiamo immaginare. Molte fabbriche vivono una situazione analoga a quella appena descritta: il tutto all’insegna del «fate quello che vi pare, purché produciate il cibo necessario». Questa è in parole molto spicce la filosofia delle tanto sbandierate «riforme» di Liberman e Trapeznikov, sulle quali sono stati versati fiumi d’inchiostro per convicere il mondo occidentale della loro fattibilità ed efficienza.
A fronte del calo vistoso di produttività in questo settore, la politica sovietica ha cercato di rilanciarlo a partire dal 1981. Nel libro Vodka-Cola già ricordato, si citava il Rapporto sull’agricoltura del 1979 contenente cifre sulla catastrofe dell’agricoltura sovietica mai sentite fino a quel momento e che si risolsero, ovviamente, nella liquidazione del Ministero dell’agricoltura. Dal 1981 si è quindi avviata una politica di incentivi produttivi per questo settore dei piccoli appezzamenti privati. Ma nonostante l’incoraggiamento, il calo persiste nel settore. Forse anche perché un aspetto dell’incoraggiamento consiste nella crescente tolleranza che viene esercitata nei confronti del mercato nero, considerato a torto o ragione come un incentivo a sua volta per l’incremento della produttività agricola di questi proprietari parcellari. Alle autorità non interessa tanto la dinamica dei prezzi che viene condizionata dall’estensione del mercato nero, ma piuttosto che i prodotti esistano, che circolino e che consentano alla popolazione di mangiare decentemente.
Ma come dicevamo prima, se il cittadino sovietico riesce ormai bene o male a mangiare, lo stesso non si può dire per il bestiame con le sue ricadute sull’allevamento. Forse anche il bestiame dovrebbe arruolarsi nell’esercito o farsi assumere in fabbrica per poter mangiare il necessario... (risate). La burocrazia, con i suoi negozi speciali, non ha ovviamente questo tipo di problemi. E comunque anch’essa attinge al mercato nero, grazie a una maggiore disponibilità di denaro, quando non addirittura valuta pregiata straniera.
Alcune cifre. Cosa spende l’Urss per l’esercito e gli armamenti? Tra l’11 e il 14% del Pil [Prodotto nazionale lordo]. Gli Usa il 6% (che è ovviamente una cifra superiore a quella sovietica se considerata in assoluto, viste le dimensioni del Pil statunitense). Può sembrare un paradosso, ma anche sul piano militare si riscontra una produttività superiore da parte della principale potenza imperialistica rispetto al sistema burocratico sovietico. Del resto il concetto di «economia del tempo di lavoro» non può non estendrsi anche all’industria degli armamenti e alle infrastrutture specifiche di cui essa necessita. Potremmo anche metterci a paragonare la qualità dei singoli prodotti bellici - dai carri armati al sistema missililstico - ma non credo che questo compito spetti al tipo di relazione che sto proponendo.
Le cifre fin qui fornite, dall’agricoltura agli armamenti, sono cifre riconducibili essenzialmente alla gestione di Leonid Ilic Breznev, appartengono cioè alla lunga epoca di relativa stabilità assicurata dalla direzione «collegiale» di cui è stato rappresentante ufficiale questo mediocre esponente della gerontocrazia sovietica (dal 1964, con l’estromissione di Kruscev, fino alla morte nel novembre 1982). Al suo nome vanno comunque associati non solo i pessimi risultati nel campo economico, ma anche gli interventi in Cecoslovacchia (1968) e in Afghanistan (1979).
Possiamo indicare dei mutamenti nella politica della nuova direzione raccolta intorno a Yurij Vladimirovic Andropov? Vi ricordo che quest’uomo è un prodotto diretto e internissimo all’apparato burocratico, visto che dal 1962 è membro della segreteria del Cc del Pcus e dal 1967 è stato capo del Kgb. Ha preso il posto di Breznev come primo segretario del Partito nel 1982 e come capo del presidium quest’anno. I giornali hanno intessuto lodi e leggende intorno al suo nome, che francamente a noi non dicono nulla, o perlomeno nulla di nuovo. A volersi fissare sulle caratteristiche della persona, si dovrebbe valutare in primo luogo il fatto che quest’uomo è stato il principale capo della polizia sovietica per un lungo e fondamentale periodo della storia recente. Come poliziotto moderno potrebbe forse rappresentare delle tendenze più avanzate per i settori della burocrazia più legati alla ricerca scientifica e al progresso tecnologico. Non saprei dire, e comunque ci può interessare relativamente.
In politica estera, invece, si è già vista una differenziazione rispetto all’era brezneviana. Andropov si è mosso subito in direzione di una divisione del fronte imperialistico (sul piano diplomatico e pur sempre nell’ambito della divisione in blocchi) che invece aveva potuto ricompattarsi relativamente grazie alla politica di Breznev (dopo il relativo disgelo dell’epoca krusceviana). L’installazione dei missili da parte degli Usa, come risposta alla politica «espansionistica» dell’Urss, non sarebbe stata possibile se le attuali posizioni di Andropov fossero emerse due anni fa. Andropov sta realizzando una politica di enorme apertura verso l’Europa occidentale, fatta però soprattutto di grandi promesse anche perché vi è ora il fatto nuovo della vittoria della Democrazia cristiana nella Repubbica federale tedesca [1982], che chiude anche simbolicamente le speranze nella nuova Ostpolitik inaugurata dall’ex cancelliere Willy Brandt. Non è detto, però, che l’Urss non trovi un terreno d’intesa anche con la Cdu di Helmut Kohl, visto che la politica sovietica ha sempre privilegiato gli interlocutori forti e stabili, anche se ultrareazionari. È una costante questa della politica sovietica che si può far risalire come minimo al Patto Hitler-Stalin del 1939. Resta il fatto che con Andropov qualcosa si sta muovendo sul piano internazionale, ma è troppo presto per fare delle previsioni sulla portata reale di questa svolta embrionale di politica estera. Vedremo nel prossimo futuro. [Ma Andropov morirà di lì a breve, nel 1984, lasciando il posto a Konstantin U. Cernenko, fino al 1985, quando si insiederà Michail S. Gorbaciov che darà il via a una diversa e ultima fase storica per l’Urss (nota del 2010).].
Diverso è il discorso per la politica sociale di Andropov, così fortemente strombazzata sugli organi di stampa del mondo intero dove si parla addirittura di una «bonifica» radicale che egli avrebbe già lanciato. Io mi permetto invece di avanzare alcune perplessità sulla base di alcune elementari considerazioni. Per incrementare la produttività, e in assenza di una rivoluzione socialista, ai sovietici non resterebbe altra strada che aumentare gli investimenti, visto che altre strade (come un’ulteriore intensificazione dello sfruttamento o una crescita concorrenziale sul piano tecnologico) sono per il momento precluse. L’aumento degli investimenti implica maggiori disponibilità di liquidità (in valuta pregiata) e di fondi, ma anche di partner esterni disposti a rischiare il proprio capitale. Ma il fatto è che l’economia sovietica è debitrice nei confronti delle banche occidentali di cifre astronomiche sulle quali paga interessi che un paio di anni fa si aggiravano sugli 8-10 miliardi di dollari annui. Cifre da capogiro per ciò che l’Urss deve sborsare come interessi e senza che si veda all’orizzonte una possibilità di ridurre anche le quote-capitale di tali debiti. Lo Stato sovietico riesce a contrarre nuovi debiti e a pagare i relativi interessi solo grazie alle sue enormi disponibilità di oro. Sono grandi riserve alimentate dallo sfruttamento del sottosuolo. Il giorno che l’Urss decidesse di svendere tali quantità di oro sul mercato mondiale, avremmo un crollo delle principali monete. Ma non è detto che una misura del genere avrebbe necessariamente delle conseguenze negative per il controllo del mercato internazionale da parte dei principali paesi imperialistici.
Sulle risorse finanziarie nazionali grava l’ammontare delle spese militari che, come abbiamo visto, sono enormi, smisurate per le effettive capacità economiche del Paese e per giunta in crescita. I sovietici sarebbero favorevoli a un blocco bilaterale nella corsa agli armamenti: non è l’opzione «zero» - cui, però, non crede neanche Reagan - che implicherebbe lo smantellamento di ciò che è stato già realizzato e installato, ma un vero e proprio blocco che possa consentire ai sovietici di ridurre le spese nel campo degli armamenti.
Alle principali fonti di spesa fin qui citate (deficit alimentare, corsa agli armamenti e interessi sui debiti all’estero) vanno aggiunti i finanziamenti, diretti o indiretti, accordati ai vari regimi «filosovietici» sparsi un po’ ovunque nel mondo. Non si tratta solo dei costi ordinari di una determinata diplomazia estera, ma di politiche di vero e proprio sussidio verso Stati di nuova indipendenza o dittature variamente camuffate da governi di ex liberazione nazionale, onde impedire che si schierino con gli Usa o con la Cina. Cuba è un caso a parte e molto più complesso in questo contesto, ma è anche una delle situazioni più costose per l’Urss, non necessariamente ripagata dalle spedizioni militari dei cubani in Africa (Angola ed Etiopia in particolare), che comunque gravano ulteriormente sul bilancio dello Stato sovietico.
Alla disperata ricerca di fondi da impiegare nel rilancio degli investimenti, resterebbe il piano della razionalizzazione tecnologica. Ma questa richiede a sua volta fondi e capitali, non tutti necessariamente in forma di liquidità disponibile, visto che in tale campo conta anche quanto e come si è investito nel passato, in infrastrutture e in capitale umano, in modo da creare un accumulo di know-how e di risorse intellettuali da valorizzare per l’appunto con nuovi investimenti nei settori considerati prioritari. Gli investimenti in questo settore hanno dei tempi lunghi in quanto a realizzazione e sono disposto a credere che Andropov abbia per l’appunto dei progetti a lungo termine di razionalizzazione tecnologica. E questo sembrerebbe confermato da una serie di misure che sta adottando e anche da alcune dichiarazioni sul tema. Ripeto, però, che i tempi in questo settore sono molto lunghi e, contrariamente a quanto affermava la tradizione operaista italiana (da Operai e capitale ai Quaderni rossi) i tempi della politica non sono quelli della tecnologia (produttiva o non). Prima che si riesca a razionalizzare un sistema produttivo così scombinato come quello sovietico, possono scoppiare trenta rivoluzioni proletarie o un’intera guerra mondiale.
Resta poi l’esistenza della burocrazia (intesa come casta sociale, ma anche come apparato organizzativo dell’economia, dell’esercito, delle istituzioni educative e culturali) la cui razionalizzazione è storicamente impossibile. Lo sarebbe stata a priori, per definizione, ma noi lo verifichiamo anche a posteriori sessant’anni dopo la definitiva vittoria di Stalin nel Partito bolscevico e nell’apparato statale nato dalla Rivoluzione d’Ottobre. Anche se ci fossero i fondi, anche se ci fosse la volontà politica di farlo, anche se ci fosse il know-how necessario, il governo di Andropov così come qualsiasi altro governo nato in seno alla burocrazia sovietica non riuscirebbe mai a superare l’opposizione, vera e propria ostilità congenita di un elefantiaco apparato burocratico disposto a tutto pur di non perdere i propri privilegi di casta. E questa permanenza della burocrazia, a differenza di quanto può accadere o non accadere con le compagini sociali e i relativi regimi politici della borghesia imperialistica, rappresenta l’ostacolo insormontabile per qualsiasi politica di razionalizzazione tecnologica, economica o amministrativa. La possanza monolitica burocratica, che rappresenta indubbiamente un elemento di forza per la sopravvivenza dello Stato sovietico, ne è anche la principale minaccia storica. Lo diceva già Trotsky che su questo tema ha scritto alcune delle sue pagine più lucide e lungimiranti: la burocrazia che ha accaparrato nel proprio interesse conquiste sociali dei lavoratori come la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, mina dall’interno queste stesse conquiste sociali e prima o poi dovrà rinunciarvi o liquidarle se vorrà sopravvivere come casta. Ma la sopravvivenza della casta senza la nazionalizzazione dell’economia e senza la disponibilità totale che ad essa assicura l’assenza di una qualsiasi forma di democrazia (borghese o proletaria poco importa a tale riguardo) non avrebbe più un senso storico. Il serpente dello Stato totalitario sovietico si mangia la coda, mentre i suoi cittadini la coda se la tengono tra le gambe, forse per paura che l’apparato burocratico si mangi pure quella. Ma fino a quando potrà continuare questo stato di cose?
Non saprei dire, ma una risposta i lavoratori dell’Urss farebbero bene a cercarla e a trovarla subito, perché l’alternativa residua per il rinvenimento di nuove risorse finanziarie - l’intensificazione dello sfruttamento operaio - sembra essere proprio la via principale scelta da Andropov.
Nelle dichiarazioni altisonanti del nuovo governo si sente tuonare contro i burocrati parassiti e inefficienti, contro gli assenteisti e i responsabili del non-raggiungimento degli obiettivi di piano. Ciò ha fatto sorgere l’impressione che Andropov abbia dichirato guerra ai burocrati. E invece non è che l’inizio di una gigantesca campagna propagandistica, di netto contenuto antioperaio che mira in primo luogo a rafforzare l’ordine e la disciplina in fabbrica. Non che nelle fabbriche sovietiche vi sia insubordinazione operaia: per carità, quella è stata stroncata con la forza e il Gulag sin dalla seconda metà degli anni ‘20 e, in maniera ancor più massiccia, negli anni ‘30. È che nelle fabbriche sovietiche regna il disordine, quello lavorativo e ambientale, determinato dalla scarsità di incentivi economici per realizzare i carichi di lavoro, gli obittivi aziendali prescritti e la piaga dei furti. Non avendo i sindacati una realtà rappresentativa (in quanto ramificazioni dell’apparato statale) e non avendo i lavoratori nemmeno le libertà classiche strappate al capitalismo (libertà di sciopero, di stampa e di riunione), il sistema repressivo si trova privo dei canali d’intermediazione tradizionali, senza i quali non può funzionare, appunto, altro che come sistema repressivo. E per quanto utile si sia rivelata la repressione (violenta) dei lavoratori nelle fasi di avvio dei grandi processi d’industrializzazione (accanto, ovviamente, alla reinstaurazione con il Gulag del lavoro schiavistico di massa nelle grandi opere idrogeologiche, nella produzione del legname, dei laterizi ecc.), resta il fatto che essa mal si concilia con la regolarità richiesta dai moderni sistemi produttivi, nonché con le ipotesi di razionalizzazione tecnologica. Non ci sono dati statistici al riguardo, ma tutte le descrizioni che riescono a oltrepassare il muro della censura ci mostrano fabbriche in cui non si rispettano gli orari, in cui si cerca di lavorare il meno possibile, di accaparrarsi i beni prodotti o gli strumenti di lavoro, mentre è notorio che il tasso di alcolismo tra gli operai sovietici è molto più alto che tra i loro colleghi occidentali.
Andropov tenterà di porre fine a questo stato di cose, senza avere però - come si diceva prima - gli strumenti sindacali o il sistema di incentivi necesssari per riuscirvi. Si tratta di una campagna mistificante in cui alcuni burocrati sono stati già destituiti e altri lo saranno di certo nel futuro, in cui si noterà di certo un miglioramento nel funzionamento di alcune istituzioni economiche nonché nella qualità di alcuni prodotti. C’è anche un aumento nella disponibilità di alcuni beni di consumo, ma non di quelli alimentari che ristagnano come da tradizione. Si tratta per lo più di alcuni generi detti «voluttuari»: come le radio, i jeans, i viaggi all’estero, le macchine fotografiche (forse le scarpe, ma è da verificare) ecc.
Per i salari ci si orienta verso un più ampio sventagliamento dei livelli retributivi, legato alla professionalità (che ovviamente è a sua volta dipendente dalla produttività) e a un più controllato utilizzo degli incentivi economici. E quanto appena detto sulla ricomparsa di determinati prodotti in quei grandi magazzini sovietici così desolatamente vuoti e disadorni, si spiega anche con la necessità di fornire nuove possibilità di acquisto alle nuove disponibilità finanziarie che determinati settori del mondo del avoro cominciano ad avere (spesso per la prima volta nell’intera storia dal 1917 ad oggi). Andropov (molto più di Krusciov e dei «riformatori» degli anni ‘60) sembra intenzionato a diffondere un’«etica» e una pratica del consumismo all’interno di una classe lavoratrice rimastane al di fuori negli anni dei grandi boom prebellici (gli Usa del New Deal) o postbellici (Francia, Italia, Germania ecc. in tempi e forme diverse).
Ma come ha già abbondantemente dimostrato tutta l’esperienza occidentale dalla seconda rivoluzione industriale ai nostri giorni, non basta incentivare l’operaio per avere automaticamente un aumento di produttività. Occorre anche reprimerlo e occorre farlo in forme e metodi che siano «storicamente giustificati», cioè corrispondenti ai rapporti fra le classi in un dato momento, che tengano conto di una certa tradizione lavorativa e che non nuocciano al regolare funzionamento dell’apparato produttivo. Insomma, nell’Urss del passato l’operaio veniva spedito senza processo e senza tante spiegazioni nel Gulag sia per punirlo di un qualsiasi gesto anticonformista, sia per sopperire al fabbisogno di manodopera qualificata accanto alla massa di lavoro schiavistico già ricordata.
Nelle fabbriche sovietiche si era verificato da tempo un marcato calo nel ricorso a metodi repressivi diretti. La cronaca di questi ultimi decenni è piena di atti persecutori nei confronti soprattutto degli intellettuali, ma anche degli ebrei (più o meno sionisti), dei lituani, dei membri di minoranze etniche in generale. Ma gli operai, in quanto tali, sembravano sfuggire a queste campagne sistematiche e intense di repressione del dissenso. La campagna di Andropov, invece, potrebbe mirare proprio a questo, cercando di operare una divisione classica tra operai che collaborano (incentivi economici) e operai refrattari (licenziamenti o carcere).
In preparazione di una simile campagna antioperaia, appare evidente che il vero bersaglio della campagna di «bonifica» andropoviana è e sarà a lungo il cosiddetto «assenteismo operaio», cioè quella refrattarietà del lavoratore a farsi usurare, spremere e sfruttare da un sistema produttivo iniquo e che non sente come proprio. Se poi si pensa che il miraggio più attraente per l’operaio sovietico è di poter vivere la condizione dell’operaio occidentale, sia nei rapporti di lavoro sia, ovviamente, nel livello di consumi, si avrà chiaro il vicolo senza uscita in cui si trovano i lavoratori sovietici, ma anche i loro capi economici e l’intero sistema produttivo. Non si dimentichi, infine, che il ricorso crescente agli incentivi, cioè la maggiore determinazione del salario sulla base della produttività implica apparentemente una situazione di privilegio retributivo per alcuni, ma anche un generale deprezzamento del valore del salario nominale gli altri.
Andropov pensa ovviamente anche a un generale ridimensionamento dell’apparato amministrativo, a uno sfoltimento della spesa pubblica, ma questo difficilmente potrà realizzarlo per le ragioni che si ricordavano prima: la burocrazia è una casta sociale che riconosce come valore supremo e come strumento di omogenizzazione interna la difesa dei propri privilegi. E se si pensa che nemmeno nella «liberale» Italia si riesce ad accorpare ministeri o a chiudere gli enti inutili, si può immaginare davanti a quale compito immane si trovi il legislatore sovietico che voglia intaccare sul piano quantitativo gli strumenti di riproduzione dell’apparato burocratico. Osserveremo comunque attentamente le scelte di Andropov in questa direzione e non avremo difficoltà a riconoscergli dei meriti se riuscirà a incrinare il pachideremico sistema (gerarchico) della nomenklatura sovietica. Fino ad allora, però, resteremo nel dubbio che ciò sia possibile per via pacifica e legislativa.
Resta il fatto che le grandi innovazioni sociali che vengono proposte (e solo parzialmente realizzate) da Andropov sono l’aumento delle differenze salariali, l’incremento nel ricorso agli incentivi, il taglio della spesa pubblica, la campagna per l’austerità nelle istituzioni statali e l’incentivazione al consumismo. Tutte componenti delle politiche sociali già sperimentate e ampiamente adottate dalle borghesie imperialistiche in paesi come la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia o il Giappone. Che falliscano o abbiano successo non dipende dalla volontà di Andropov e, purtroppo, nemmeno da quella dei lavoratori sovietici completamente privi di strumenti di rappresentanza politico-sindacale e storicamente demoralizzati da decenni di feroce repressione stalino-brezneviana. Dipende, invece, da una serie di variabili politiche per lo più esterne all’Urss e, in misura ancor maggiore, esterne al blocco dei Paesi suoi satelliti.
Questi ultimi non possiamo inserirli sic et simpliciter nelle analisi fin qui svolte, sia per le grandi diversità tra loro (si paragoni la Bulgaria con l’Ungheria e questa con la Cecoslovacchia), sia perché in alcuni di questi paesi esistono dei gruppi dirigenti interessati a una sempre maggiore autonomizzazione da Mosca. L’era di Breznev, contrassegnata dall’invasione della Cecoslovacchia e da un generale clima repressivo, aveva instaurato una sorta di statu quo con queste cosidddette «democrazie popolari». Ora i nuovi intendimenti di Andropov non sono più compatibili con quell’immobilismo repressivo e nuove spinte autonomistiche prenderanno piede. A parte il caso specifico già ricordato della Polonia di Solidarnosc (dove sono i lavoratori a incarnare il più radicale spirito autonomistico e antisovietico), per il resto è storia di smottamenti e assestamenti nell’equilibrio tra le varie burocrazie nazionali che non può più essere garantito o imposto all’interno di un’alleanza economica a dominanza sovietica, in totale liquidazione come il Comecon. Gli apparati burocratici degli Stati satelliti premono alle frontiere dell’Urss, mentre fermenti di risveglio autonomistico cominciano a serpeggiare all’interno della stessa Federazione delle Repubbiche sovietiche. Rivendicazioni da parte di alcune minoranze etniche, fermenti religiosi (per es. musulmani), pressioni alle frontiere, conflitti tra etnie mai sopiti possono riapire la speranza di un risveglio di quei popoli d’Oriente così amaramente beffati dal settembre 1920 (Congresso di Baku) fino ai nostri giorni.
Concludo questa terza parte e la precedente (la seconda) dicendo che il criterio proposto da Trotsky a proposito dell’economia del tempo di lavoro (che include la capacità di rinnovare la propria struttura e di svilupparsi tecnologicamente) - come più importante del concetto stesso di sfruttamento nel valutare il livello occupato da un determinato sistema nella scala del progresso sociale - unito alla valutazione del grado di libertà esistente ci porta ad affermare senza esitazioni che la società sovietica è storicamente inferiore rispetto all’imperialismo (Usa, in primo luogo ma non solo) sotto il profilo della dinamica delle forze produttive e del relativo sviluppo sociale. Ciò è determinato non da particolari meriti del sistema imperialistico, ma da specifici demeriti della burocrazia al potere. Conclusasi l’epoca della controrivoluzione staliniana, la burocrazia è arrivata a rendere cronico il carattere di società bloccata con il permanere della stagnazione nel trascorrere del tempo (ancora nella descrizione della Rivoluzione tradita del 1936 l’Urss non presentava un carattere così drammatico e irreparabile come attualmente), impedendole ormai di tenere il passo con i ritmi dello sviluppo capitalistico imposti dalle esigenze del mercato internazionale.
Questa posizione, ma dovrei chiamarla piuttosto una «constatazione» suffragata da dati inoppugnabili, non corrisponde alla posizione teorica del vecchio movimento trotskista dell’epoca di Trotsky né del movimento trotskoide del dopoguerra. Entrambi hanno sempre sostenuto la superiorità (relativa) del sistema sovietico rispetto al sistema imperialistico, non certo sul piano della democrazia e della sovrastruttura, ma sul piano dello sviluppo sociale. Lo hanno fatto in considerazione del fatto che l’abolizione della borghesia come classe e la trasformazione del sistema capitalistico russo in un’economia pubblica, organizzata per giunta secondo criteri di pianificazione, rappresentasse un gradino più alto nella scala dell’evoluzione sociale. E ciò nonostante Stalin, nonostante la burocrazia e nonostante tutti gli orrori che hanno contrassegnato la storia dello stalinismo: dallo sterminio dei contadini al Gulag, dalla repressione delle nazionalità all’alleanza con Hitler, dalla violazione dei più elementari diritti della persona alla repressione sistematica del dissenso. Ebbene, senza voler consegnare una data di svolta alla storiografia, ma prendendo atto del punto di arrivo determinato da decenni di stagnazione dell’economia e della libertà di ricerca, incoraggiati in questo dalla rivolta cecoslovacca del 1968 e dalla mobilitazione attuale dei lavoratori nella Polonia di Solidarnosc, diciamo che nel corso degli anni ‘70 la stagnazione del sistema sovietico ha raggiunto un punto di non-ritorno e ha definitivamente dimostrato la sua inferiorità rispetto al sistema imperialistico. Il futuro non potrà che confermare questa analisi e, se dovrà cambiarla, sarà solo per aggravare la descrizione del quadro sociale sovietico. Solo la rivoluzione potrà cambiare tale destino storico, ma non la rivoluzione «politica» di cui parlava Trotsky (poi ripresa dal movimento trotskoide), bensì una vera e propria rivoluzione politica e sociale allo stesso tempo della quale al momento non si avverte il benché minimo segno premonitore.
Se questa nostra analisi si dovesse dimostrare errata per eccesso di pessimismo, saremmo i primi a rallegrarcene. Per ora, comunque, non viene nulla dall’Urss di cui ci si possa rallegrare: il suo Stato burocratico è unilateralmente reazionario, sciovinistico, oscurantistico, antioperaio e violatore dei più elementari diritti della persona. E l’assenza di una sia pur minima opposizione sociale o politica da parte dei lavoratori non può che aggravare nel tempo questa condizione. Siamo convinti che sia proprio questa assenza di un’opposizione sociale (prodotta a sua volta nel tempo dall’eliminazione fisica di centinaia di migliaia di militanti politici, di lavoratori d’avanguardia, di operatori culturali, di spiriti ribelli, unita all’eliminazione fisica di milioni di persone appartenenti a nazionalità diverse da quella grande-russa al potere) ad aver aggravato la stagnazione del sistema sovietico rendendolo inferiore rispetto al sistema imperialistico. Il problema da temere per il futuro, quindi, è che la ripresa di un’opposizione sociale riparta da livelli di coscienza presocialista, su programi di ricostruzione del capitalismo mai conosciuto in versione moderna dai popoli della Russia e del grande Impero zarista. Questo pericolo è reale e non c’è molto che si possa fare per scongiurarlo. È già molto, comunque, se cominciamo a rendercene conto, a differenza dei trotskoidi ortodossi, degli ex maoisti, dei presunti marxisti-leninisti e dei nostalgici ammiratori del breznevismo nonché dello stalinismo che purtroppo ancora esistono e diffondono illusioni sulle possibilità di rigenerazione dell’Urss.
Con tutti costoro, ormai, noi non abbiamo più nulla a che vedere.
4. Abbandono programmatico della vecchia parola d’ordine di «difesa dell’Urss»

Questo imperialismo che si è ulteriormente espanso ed omogeneizzato al proprio interno non ha più l’obiettivo strategico fondamentale di accerchiare l’Urss, come era avvenuto invece confusamente negli anni ‘30, con maggiore determinazione all’indomani della Seconda guerra mondiale e per tutto il periodo della Guerra fredda. Trotsky visse in pieno il periodo in cui prese forma mondiale la politica imperialistica di accerchiamento dell’Urss. E non abbiamo difficoltà ad ammettere che una parte dei problemi economici sovietici derivino anche dalla necessità di reagire all’accerchiamento. Che poi Stalin e lo stalinismo abbiano reagito nella maniera che sappiamo, lasciando l’Urss sguarnita davanti all’aggressione nazista e collaborando con gli Alleati per impedire la vittoria di altre rivoluzioni socialiste, è un altro discorso.
Ma da quando la cosiddetta «distensione» ha posto termine in senso politico alla strategia dell’accerchiamento - perché non ne esistevano più i presupposti oggettivi, materiali - non ha più senso continuare a parlare dell’Urss come di uno Stato, orrendo quanto si vuole, ma pur sempre da difendere contro l’aggressione attiva o strisciante dell’imperialismo (Usa in primo luogo, ma non solo).
Aggiungiamo anche la considerazione che nel tempo vanno scomparendo le differenze sociali tra paesi arretrati o dipendenti sottoposti anche politicamente all’imperialismo, e gli analoghi paesi posti sotto il controllo della burocrazia sovietica. Le differenze, sotto il profilo dei rapporti sociali di produzione, sono per lo più irrilevanti. L’Afghanistan è un esempio lampante del fatto che il passaggio dal dominio imperialistico a quello burocratico sovietico non ha implicato alcuna significativa trasformazione sociale.
L’imperialismo non accerchia più l’Urss e i suoi satelliti. Ma l’imperialismo non può essere accerchiato a sua volta perché il suo sistema si è esteso su scala mondiale tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e non è qui il caso di riprire la discussione sull’ultraimperialismo di kautskiana memoria, anche se una riconsiderazione delle posizioni di Rosa Luxemburg nell’Accumulazione del capitale non mi dispiacerebbe. Eppurre l’imperialismo continua a incontrare ostacoli, conflitti, nuove contraddizioni che sorgono e vecchie che non scompaiono, nella sua marcia verso l’omogeneizzazione totale del pianeta. Esistono quindi degli elementi di contrasto necessariamente interno che a me hanno portato a coniare un termine paradossale (un ossimoro) come «accerchiamento interno». Il concetto è politico, ma si fonda sull’esistenza di limiti oggettivi interni che l’imperialismo incontra nella sua marcia di dominazione mondiale.
Faccio un esempio molto semplice. Il Cile attuale è una pedina nelle mani degli Usa che lo controlla totalmente sotto il profilo politico. Eppure gli interessi della borghesia cilena - quella che non ringrazierà mai abbastanza l’aiuto che gli Usa e l’Urss (tramite il Pc cileno) le hanno dato per farle riprendere totalmente il potere - rappresentano un qualcosa d’altro, un qualcosa di diverso rispetto alle esigenze economiche dell’imperialismo Usa in Cile. La borghesia cilena ha determinati interessi, mentre le grandi compagnie statunitensi presenti in Cile per continuare in primo luogo a depredarlo delle sue materie prime ne hanno altri. Il conflitto non affiora politicamente perché c’è stato il golpe di Pinochet sostenuto dalla Cia, ma la contraddizione esiste. Prima o poi gli Usa dovranno fare i conti anche con la borghesia nazionale cilena. E abbiamo preso appositamente l’esempio del Cile - come paese più prono alla volontà imperiale - perché si pensi poi a cosa ciò può significare in paesi in cui esiste anche una conflittualità esplicita o una possibile coflittualità politica o gradi diversi dell’una e dell’altra.
Il rafforzamento qualitativo e quantitivo dell’imperialismo fa sì che l’area dei paesi o dei settori sociali che hanno interessi oggettivamente a lui contrapposti tenda a crescere, nel tempo e nello spazio. Il marxismo classico aveva già previsto tutto ciò parlando della crescita e dell’emergere di nuove contraddizioni come prodotto dei processi di concentrazione e monopolizzazione del capitale. E noi stiamo vivendo e analizzando le nuove contraddizioni che l’ulteriore sviluppo del capitale su scala mondiale sta generando, senza che ne emerga una soluzione politica stabile. In realtà tali contraddizioni sono operanti indipendentemente da chi sta al governo dei singoli paesi interessati (destra o sinistra, populisti o stalinisti, movimenti laici o religiosi). L’avvicendarsi dei vari governi (filo-Usa o anti-Usa) nella Bolivia degli ultimi trent’anni ne è un esempio da manuale.
Ciò che io ho chiamato «accerchiamento interno» dell’imperialismo è oggi la sua minaccia principale. Non lo è più l’Urss, non lo è più nemmeno la lotta di liberazione dei popoli coloniali, pur ammettendo con qualche perplessità che lo sia stata per una certa fase comunque conclusasi negli anni ‘60. A questo riguardo devo ricordare quando analizzammo la svolta tattica dell’Urss di alcuni anni fa, dicemmo che non si trattava di una rinuncia ad un confronto globale con l’imperialismo Usa, ma solo di un trasferimento geopolitico del terreno di scontro, dal livello mondiale a quello regionale. Nell’ultimo articolo dedicato alla politica mondiale nel nostro giornale La Classe, si diceva chiaramente che ormai eravamo avviati verso un’epoca in cui i conflitti interregionali sarebbero stati i più frequenti e i più significativi. Ciò era parte integrante della svolta tattica dell’Urss che si adeguava alla nuova situazione, cioè al fatto che a fronte di una omogeneizzazione globale della presenza imperialistica si moltiplicavano le aree non disposte ad accettarla per le ragioni più varie. Il conflitto delle Malvine è, da tale punto di vista, un classico esempio di conflitto regionale in cui non erano in gioco le isole in quanto tali, ma attriti periferici tra il governo argentino e l’imperialismo britannico. E quindi noi ci troviamo a constatare che l’unico conflitto militare esploso contro la Gran Bretagna in questi ultimi cinquant’anni non è venuto da paesi del blocco sovietico o da Stati di nuova indipendenza inseriti nel gioco diplomatico dell’Urss, ma da un governo reazionario e parafascista, quale fu quello dei generali argentini.
Stiamo assistendo alla crescita crescente d’importanza dei conflitti regionali, localizzati in determinate aree geopolitiche che possono anche essere messi in moto in forma più o meno diretta dall’Urss. Questa politica di destabilizzazione ha un duplice ordine di ricadute per la stessa Urss che, mentre da un lato incoraggia o finanzia determinate lotte per l’autonomia nazionale o regionale (favorendole indubbiamente sotto il profilo militare), dall’altro le utilizza come forma di pressione sugli Usa o i suoi alleati. Anche se non dobbiamo mai dimenticare che l’arma più potente in mano agli Usa per ribattere ad eventuali eccessi sovietici in questo campo rimane la minaccia di interrompere le forniture di grano, per le quali l’Urss sta sviluppando un’autentica dipendenza storica a causa della situazione disastrosa delle sue campagne dovuta a sua volta alla «lungimirante» politica di Stalin all’epoca della cosiddetta «dekulakizzazione».
Gli Usa hanno ovviamente risposto a questa politica di destabilizzazione condotta su scala regionale con una propria svolta tattica, uguale e contraria a quella dei sovietici, conducendo una politica di destabilizzazione in aree normalmente controllate dai sovietici oppure intervenendo direttamente in aree non sottoposte a un preciso controllo di nessuno (o perché estranee alla logica di Yalta o perché sfuggite a precedenti forme di controllo politico-militare). Va ricordato che in Afghanistan fu un tentativo di destabilizzazione da parte degli Usa che costrinse i sovietici a intervenire. In Vietnam, in tempi più recenti, la destabilizzazione è stata tentata con la questione dei boat-people. Il caso Sacharov e tutta la campagna sui «Diritti del’uomo». La Polonia dove, accanto alla sacrosanta lotta degli operai polacchi vi è stato un deciso intervento dei sindacati statunitensi.
Questo gioco di reciproca destabilizzazione fra le due potenze si è rivelato un jeu de massacre perché se è vero che alcuni tentativi di destabilizzazione erano controllati, altri non lo erano affatto o non sufficientemente. Si sono originate così delle dinamiche proprie, specifiche e locali, come ne è esempio clamoroso la Polonia dove la mobilitazione dei lavoratori è andata molto al di là di quanto avrebbero desiderato la Cia e le autorità nordamericane. A loro volta, però, i sovietici che in Centroamerica hanno investito delle energie destabilizzatrici, sono terrorizzati da ciò che sta accadendo e delle dimensioni che i conflitti armati vi stanno assumendo. Al di là del Nicaragua sandinista (tutto sommato sotto controllo), vi sono situazioni che esplodono come in Salvador, Guatemala, Honduras. E noi sappiamo che l’idea di una guerra civile o di una lotta armata vittoriosa è stata sempre considerata dalla burocrrazia sovietica come un danno alla sua politica internazionale di coesistenza pacifica, ma anche come un virus che potrebbe estendersi ad altri paesi e ad altre situazioni di lotta (non ultimo ai lavoratori dei paesi controllati od occupati).
Gli esempi più clamorosi di politiche di destabilizzazione reciproca a livello regionale rimangono comunque ciò che è toccato all’Urss in Polonia e ciò che è toccato agli Usa in Centroamerica (Nicaragua e Salvador). In entrambi i casi si sono innestati dei processi embrionli di rivoluzione permanente (che ovviamente a noi stanno benissimo), sotto direzioni nazionaliste e piccolo-borghesi, anche se la dinamica della rivoluzione polacca è molto più avanzata rispetto alle destabilizzazioni centroamericane. La mobilitazione e l’autorganizzazione degli operai polacchi ha raggiunto livelli che sono quanto di più radicale si veda oggi nel mondo e che, per il passato, sembrerebbero paragonabili solo con l’esperienza soviettista del 1917 e quella delle collettività anarchiche spagnole nel 1936-37. Mi sto riferendo ovviamente ai livelli di mobilitazione e di organizzazione dal basso e non alla linea politica prevalente «dall’alto». Come criteri di paragone si può confrontare le idee che hanno attualmente gli operai polacchi sulla nazionalizzazione dei principali mezzi di produzione e quelle che avevano al riguardo gli operai dell’Ottobre 1917 - che non davano affatto per scontata la necessità di nazionalizzare l’economia del paese come invece fanno oggi gli operai polacchi. Un altro criterio può essere la necessità e il livello di sindacalizzazione (in Polonia praticamente totale, mentre all’epoca di Lenin era l’élite se non l’aristocrazia operaia ad essere organizzata e attiva nei sindacati, quando non si trattava addirittura di sindacati alla Zubatov, cioè manipolati con lo zampino della polizia zarista). Un criterio può essere anche la maggiore sintonia tra città e campagna (problema gigantesco che la Rivoluzione russa tentò di risolvere, senza peraltro riuscirvi) e che invece in Polonia si presenta non-conflittuale. Mentre il livello di sviluppo delle forze produttive in Polonia non è assolutamente confrontabile con la Russia analizzata da Lenin, un fattore questo di considerevole importanza per chi dichiara di richiamarsi al marxismo. Non parliamo poi del livello culturale e della ben più ampia partecipazione popolare dal basso alla definizione degli obiettivi della mobilitazione, all’organizzazione delle istanze decisionali, ma io direi addirittura alla stesura dei testi, manifesti e proclami vari.
E con la religione, la presenza della Chiesa cattolica, come la mettiamo? chiederà qualcuno. Ebbene, chi se la sente di affermare che il proletariato russo del 1917 fosse meno religioso di quello polacco odierno? E il fatto che in quel caso si trattasse della Chiesa ortodossa invece che la Cattolica mi sembra piuttosto un’aggravante che non un’attenuante sul piano delle credenze superstiziose e del controllo clericale. Senza dimenticare l’adesione al Cattolicesimo come arma di riscatto sociale che viene vissuta da settori del proletariato polacco, ben diversa dalla rigida ritualità della Chiesa russa, inutilizzabile come canale di espressione politica allora come oggi.
Qualcuno potrebbe obiettare che in Polonia non esiste il partito di Lenin che invece c’era in Russia. Ebbene, ma in Polonia non c’è proprio perché il partito è stato eliminato - politicamente ma anche fisicamente - proprio dai discendenti di quel partito bolscevico che, sotto Stalin, si è poi premurato di distruggere il Partito comunista polacco, uccidendone i dirigenti e disperdendone i militanti.
Non sottovalutiamo poi la permanenza nel tempo della mobilitazione degli operai polacchi ormai giunta al suo terzo anno, che non è paragonabile col numero di mesi in cui si svolse quella russa, dal febbraio 1917 a nemmeno tutto il 1918. Il «1905» polacco si è svolto nel 1970, mentre la mobilitazione in corso non accenna a diminuire dopo un intero triennio. Da marxista, ovviamente, non dovrei stupirmi di questa maggiore consapevolezza degli operai polacchi perché stiamo parlando di un paese socialmente più avanzato, di un paese in cui il proletariato ha una sua storia (drammatica) di lotta di classe e che a partire dal 1952 ha ricominciato a far sentire potentemente la propria voce, senza riuscire a impedire, tuttavia, nel 1956 l’accordo tra il regime burocratico di Gomulka e la Chiesa polacca.
Lasciamo comunque da parte il confronto con il livello di consapevolezza dei lavoratori russi nel 1917 - problema che in fondo ha una valenza solo storiografica - e traiamo due conclusioni. La prima, l’abbiamo già detta, è che il processo rivoluzionario iniziato in Polonia ha raggiunto - in termini di autorganizzazione, di coscienza antiburocratica e di mobilitazione dal basso - il livello più alto esistente oggi al mondo, quindi il punto più alto in termini di rivoluzione permanente oggi raggiunto dal proletariato rispetto a qualsiasi altro paese. La seconda discende quasi logicamente ed è che il nemico principale di questa rivoluzione in corso di sviluppo è l’Urss. Non è la prima volta che ciò accade nella storia, perché la burocrazia sovietica si è già contrapposta (vittoriosamente purtroppo) ad altre rivoluzioni proletarie nella storia, come nell’Ungheria del 1956, dopo aver dato uno suo contributo decisivo a impedire lo sviluppo della rivoluzione spagnola all’epoca delle collettività catalane o nella Berlino Est del dopoguerra o nella Cecoslovacchia del 1968. Ma mai l’Urss si era trovata a contrastare un processo rivoluzionario così avanzato nei contenuti politici e così generalizzato nel mondo operaio.
Che l’Urss sia oggi il principale nemico politico-militare della rivoluzione polacca ha enormi conseguenze pratiche per l’orientamento che qui stiamo decidendo di assumere. Abbiamo detto «politico-militare» perché da marxisti non dimentichiamo il permanere delle condizioni oggettive che minacciano ancor più a fondo il processo rivoluzionario polacco e cioè l’esistenza del mercato imperialista mondiale che può alla lunga fagocitare l’impulso rivoluzionario delle masse polacche se essere rimangono sole, se l’Urss riesce a soffocare la mobilitazione attuale, se la divisione cresce tra le avanguardie scaturite dalle lotte, se l’assenza di un’alternativa politica capace di guidare il movimento si protrae nel tempo, favorendo spinte centrifughe e demoralizzazione fra le masse. Tutti fattori negativi di cui approfitterebbero la Chiesa cattolica nonché l’apparato burocratico del Partito sempre disposto a trovare un accordo con il clero sulla testa dei lavoratori.
Insomma, se dal punto di vista politico il nemico principale della rivoluzione polacca è l’Urss, dal punto di vista delle tendenze oggettive lo è il contesto imperialista internazionale che, connivente l’Urss, potrebbe riassorbire la mobilitazione polacca nel proprio alveo. Anche in qusto caso, tuttavia, si assisterebbe a un irreversibile crollo di influenza dell’Urss sulla Polonia, con effetti disastrosi per l’Urss nelle «democrazie popolari» limitrofe in cui al momento si mantengono più o meno sotterranee le tendenze autonomistiche e antisovietiche. La Cecoslovacchia del 1968 ha dimostrato quanto forti possano essere tali tendenze e quanto difficile sia controllarle senza un’invasione militare diretta.
Io vorrei però che l’attenzione si concentrasse su questo punto: il nemico principale in termini soggettivi del punto più avanzato della mobilitazione dei lavoratori oggi nel mondo è la burocrazia sovietica. Ciò equivale a dire che dal punto di vista politico, quindi soggettivo, in questo momento la minaccia sovietica nuoce alla rivoluzione polacca più di quella statunitense. Sia ben inteso che il termine «politico» per me va sminuito e dimensionato, avvicinandolo più ad attributi come «temporaneo» o «contingente», e separandolo nettamente dal concetto di «tendenza storica». Questo perché non si deve mai dimenticare che se la burocrazia sovietica compie il lavoro sporco di soffocare le rivoluzioni, è poi il capitalismo che avanza e si ricostruisce sulle ceneri delle rivoluzioni defunte. Questo perlomeno nella nostra epoca e come tendenza a lungo termine. Nell’immediato o in contesti come quello postbellico (spartizione di Yalta, lotte popolari antinaziste o antigiapponesi), può anche esser vero momentaneamente il contrario.
In astratto, se oggi volessi aiutare la rivoluzione polacca a compiere il suo decorso, dovrei dotarmi di una politica capace di bloccare l’Urss, di neutralizzarne l’azione, di impedirle di intervenire a soffocare o deviare le giuste aspirazioni dei lavoratori polacchi. Insomma, oggi lo slogan guevariano dei «due, tre, molti Vietnam» richiederebbe un’azione aggressiva nei confronti dell’Urss per distogliere la sua attenzione dalla Polonia. Ma tale aggressione avrebbe un senso positivo solo se venisse dagli stessi lavoratori sovietici e non certo dall’esterno imperialistico. Abbiamo già visto una volta le tragiche conseguenze dell’aggressione nazista sulla coscienza del proletariato russo che spinto da oggettive necessità nazionalitiche ha finito con lo stringersi attorno alla propria burocrazia staliniana, cioè proprio intorno ai diretti responsabili dei cedimenti al nazismo che finirono col rendere possibile la sua invasione dell’Urss.
Ma tutto ciò è purtroppo vero in astratto e non si vedono le condizioni per la realizzazione concreta di una linea politica che potremmo riassumere paradossalmente nello slogan «Due, tre, molte Polonie» e che andrebbe affiancata a un’analoga politica di aggressione nei confronti degli Usa per consentire al Centroamerica di sviluppare sino in fondo la propria dinamica di rivoluzione permanente, sotto lo slogan di «Due, tre, molti Nicaragua». Anzi, ancor meglio, e nell’ordine in cui le dico «Due, tre, molte Polonie e molti Nicaragua», riconoscendo nell’Urss il principale nemico del più alto livello di mobilitazione potenzialmente rivoluzionaria e attualmente in corso (la Polonia e per estensione i Paesi dell’Est) e negli Usa il principale nemico della rivoluzione nel Centroamerica (e per estensione nell’intera America latina).
Se potessimo, disarmeremmo gli uni e gli altri. Ma visto che non ne abbiamo le possibilità concrete, la posizione dell’immediato disarmo di entrambe le potenze controrivoluzionarie (gli Usa e l’Urss) mantiene solo una valenza propagandistica. Chissà che il tempo e le vicende della lotta di classe su scala mondiale non rendano più realistica la possibilità di realizzazione di una parola d’ordine senza la quale nessuna rivoluzione socialista o proletaria (come si diceva un tempo) potrà mai trionfare al mondo. Disarmo immediato e contemporaneo degli Usa e dell’Urss.
Qualcuno potrebbe obiettare che con una sconfitta o con il disarmo dell’Urss (sempre in contemporanea con quello degli Usa, non lo si dimentichi) potremmo perdere quei pochi vantaggi tattici che ricaviamo dalla politica di destabilizzazione regionale condotta dai sovietici. Insomma, richiamando l’esperienza del Vietnam, qualcuno potrebbe obiettare a porre sullo stesso piano di pericolosità controrivoluzionaria le due superpotenze. Ebbene, questa obiezione forse potrebbe aver avuto un qualche credibilità alla fine degli anni ‘60 e limitatamente alla questione vietnamita. Ma da allora c’è stato il Libano, ci sono stati i tanti efferati massacri del popolo palestinese che l’Urss ha lasciato compiere freddamente, senza intervenire in loro aiuto, senza alcun appello alla mobilitazione mondiale, senza inviare alcun ultimatum ai massacratori (sionisti, ma non solo) tale da poter fermare la loro azione genocida. I massacri dei palestinesi in Libano non gridano solo vendetta agli occhi della convivenza civile, ma ci dicono anche che l’Urss è ormai dfinitivamente disposta ad abbandonare al loro destino i popoli che lottano pur di poter continuare la propria azione di destabilizzazione politica in altre zone del globo. Sabra e Shatila non hanno solo chiuso un’epoca (che agli occhi di noi marxisti rivoluzionari non si era mai veramente aperta) ma ne hanno anche aperta un’altra in cui i popoli che lottano dovranno imparare a fare a meno del tutto della relativa copertura sovietica che negli anni ruggenti della Guerra fredda bene o male veniva concessa. La distensione, prima, e la politica di destabilizzazione regionale, ora, impediscono che l’Urss si muova in difesa dei popoli aggrediti, anche se, per propria convenienza diplomatica, l’Urss può utilizzare degli intermediari in aree molto specifiche e per periodi limitati di tempo: è il caso delle truppe cubane in Angola (in funzione antisudafricana) e in Etiopia (in funzione antisomala). Nulla più di paragonabile alla reazione sovietica nella crisi di Suez del 1956 o nella crisi dei missili a Cuba del 1962 o dopo l’avvio dell’escalation nordamericana nel Sudest asiatico.
Per tali ragioni dobbiamo considrare come obsoleta e decaduta la posizione di difesa dell’Urss che nel nostro giornale La Classe - n. 3, dicembre 1976 - in un articolo redazionale veniva sintetizzata nello slogan oggi agghiacciante (e all’epoca irrealistico) di «Per un uso rivoluzionario del Patto di Varsavia», distinto dalla parola d’ordine tradizionale di «Scioglimento unilaterale della Nato». Nel riconoscere che possiamo aver sbagliato per eccesso all’epoca, sono fermissimo nel considerare oggi il Patto di Varsavia solo ed esclusivamente come uno strumento della controrivoluzione mondiale, anche se utilizzabile solo in determinati contesti geopolitici, in particolare nei Paesi dell’Est, ai loro confini o all’interno della stessa Unione sovietica. A parziale giustificazione di allora e a convalida della nuova posizione posso solo aggiungere che i dati di politica estera da me qui ricostruiti sono caratteristici della fase attuale, mentre all’epoca non erano ancora operanti. È bene ricordare che all’epoca eravamo ancora sotto l’effetto molto concreto della conclusione vittoriosa - sul piano militare - della guerra nel Vietnam, e non c’erano stati ancora l’Afghanistan, il Libano o la Polonia di Solidarnosc.
Qualsiasi critica attuale alla nostra posizione di allora non può quindi prescindere dal prendere in considerazione tali eventi e il mutato contesto. Ritengo, per es., che ancora tre anni fa l’Urss non avrebbe consentito tanto facilmente i massacri dei palestinesi che invece consente ora. E questo dato dovrebbe spingerci a chiederci non solo cosa un combattente palestinese si sarebbe atteso dall’Urss fino a tempi recenti, ma anche quale posizione avrebbe dovuto avere un rivoluzionario internazionalista di qualsiasi paese rivolgendo il proprio pensiero alla Palestina. Avrebbe considerato il Patto di Varsavia un nemico analogo alla Nato? Li avrebbe messi sullo stesso piano? Non credo proprio. Noi, comunque, non lo facemmo e ritengo che non sbagliammo allora come non sbagliamo oggi a cambiare la posizione a fronte di una nuova analisi di questi vecchi strumenti.
Ricordo, inoltre, che nella nostra posizione generale a favore del disarmo totale di tutto e tutti, come rivoluzionari italiani siamo per il disarmo unilaterale dell’Italia e ovviamente per l’uscita unilaterale dell’Italia della Nato. «Unilaterale» sta per «senza condizioni, rinvii o patteggiamenti» [agli inizi del terzo millennio si dirà «senza se e senza ma» (nota del 2010)]. Ci si aspetterebbe, quindi, che i rivoluzionari degli altri paesi facciano lo stesso nei rispettivi contesti. E per deduzione logica ciò significa che anche in Urss i rivoluzionari dovrebbero battersi per il disarmo del proprio paese (quindi disarmo unilaterale dell’Urss) e per l’uscita unilaterale dal Patto di Varsavia. Capisco che ciò può esser duro da mandar giù per la vecchia generazione di militanti trotskoidi, ma basta pensare all’applicazione di tale parola d’ordine nella Polonia di Solidarnosc o nella Cecslovacchia occupata dall’Armata rossa, per togliersi ogni dubbio residuo. E benché questa nostra posizione non può essere confusa con il pacifismo generico (quello che vorrebbe disarmare anche chi lotta per la propria liberazione contro l’oppressione imperialistica o staliniana), è pur vero che essa rende più facile la comunicazione tra noi e il mondo del pacifismo tradizionale. Nel senso che questo potrebbe capire meglio la sostanza del nostro discorso e abbandonare il sospetto che circondava la vecchia posizione di difesa dell’Urss considerata in ultima analisi, anche se erroneamente, come una forma larvata di accodamento alla sua politica militare e diplomatica.
Ma noi pacifisti non siamo, e se paradossalmente oggi si costituissero delle brigate internazionali per andare a difendere la rivoluzione polacca contro l’intromissione sovietica, noi dovremmo farne parte. Non c’è nessuna speranza concreta che ciò possa realizzarsi, ma in termini di astrazione teorico-propagandistica, tale dovrebbe essere la nostra posizione. E non posso non ricordare il precedente, rispetto all’invasione sovietica della Cecoslovacchia, quando facemmo appello alla necessità di una guerra civile per cacciare gli invasori e rafforzare la marcia ancora embrionale della rivoluzione operaia in quel Paese. Non fu una posizione di tutto il Segretariato unificato, ma solo di alcuni settori critici: in Italia noi e solo noi, ovviamente. E col senno di poi mi rendo conto che in quella nostra posizione di allora era già racchiusa in embrione la posizione che assumiamo oggigiorno.
Del resto, a voler andare ancor più indietro nel tempo, affermo che anche negli anni «operativi» della controrivoluzione staliniana noi saremmo stati favorevoli a una resistenza armata contro la burocrazia. E quando si parla di «resistenza armata» da rivoluzionari, il concetto ha un’immediata valenza internazionalistica: se si sta dalla parte del proletariato russo che lotta contro l’oppressione burocratica, ci si deve stare senza condizioni o patteggiamenti. Idem con quello ungherese, cecoslovacco o polacco. E se l’avversario principale si rivela storicamente la burocrazia sovietica se ne devono trarre tutte le conclusioni, anche sul piano della lotta armata se la cosa si rivela storicamente necessaria e fattibile. Non dimentichiamo che la stessa burocrazia staliniana ha potuto imporre il proprio potere solo con una forma nemmeno tanto larvata di guerra civile, durata decenni e contrassegnata dall’eliminazione fisica di quasi tutta la vecchia guardia bolscevica, di tutti i nuclei operai d’avanguardia, di tutte le correnti politiche esterne al Partito staliniano, di tutte le correnti politiche interne a tale Partito, di tutte le opposizioni democratiche o religiose, di tutti gli esponenti autonomisti delle minoranze etniche e, in alcuni casi (come i Tatari di Crimea) dell’intero gruppo etnico. Un bagno di sangue durato più di un quindicennio e che lo stesso Stalin quantificò in una decina di milioni di vittime. Quelle vittime ancora attendono di essere recuperate dall’oblio della storia e che il loro sacrificio venga valorizzato nel cinema, nell’arte e nella cultura come viene fatto ormai da tempo con l’Olocausto e le vittime del nazismo.
Questo recupero prima o poi ci sarà, ma al momento non è praticamente nemmeno cominciato, se non in poche ma significative eccezioni letterarie.
5. Superamento del programma della Quarta internazionale e necessità della Quinta internazionale

Abbandonando la parola d’ordine di «difesa dell’Urss» contro l’imperialismo, viene meno un caposaldo teorico su cui fu fondata la Quarta internazionale. Certo, il Programma di transizione del 1938 propone molte altre analisi e parla di molte altre cose. Ma un’internazionale non si caratterizza per ciò che sta scritto nei suoi testi fondativi (non è stato così per la Prima, né per la Seconda, e nemmeno per la Terza internazionale nei suoi brevi inizi non-staliniani). Un marxista sa vedere quale sia la sostanza storica del costituirsi di un’internazionale e se il marxista è autentico ciò corrisponde anche alla sostanza con cui l’internazionale viene percepita nel mondo. E quindi se è vero che la sostanza della Terza internazionale all’atto della sua fondazione fu di estendere la rivoluzione d’Ottobre ad altri paesi capitalistici, ma soprattutto di difendere il potere dei soviet in Russia, la sostanza della Quarta fu di combattere il capitalismo (come già la Terza), ma di difendere le conquiste dell’Ottobre attraverso il rovesciamento della burocrazia sovietica. Agli occhi di chi non ignorava (in buona o malafede) l’esistenza della Quarta, questa appariva essenzialmente come l’organizzazione internazionale di chi voleva abolire il capitalismo per via rivoluzionaria e voleva combattere anche lo stalinismo, ma difendendo le conquista sociali dell’Ottobre su cui questi si reggeva. Per la Quarta fondata nel 1938, la difesa dell’Urss e la distruzione rivoluzionaria della burocrazia andavano di pari passo, quasi come dei sinonimi.
Ma noi sappiamo che l’Urss si è difesa da sola contro l’unica vera aggressione che ha subìto nella storia (quella hitleriana), benché Stalin e la burocrazia avessero fatto di tutta per lasciarla impreparata (politicamente e militarmente) davanti all’inevitabile invasione dei nazisti che Trotsky da tempo aveva previsto. E dalla sconfitta di quell’aggressione la burocrazia ha tratto alimento per sopravvivere e riprodursi fino ai giorni nostri. Ebbene, a fronte dell’aggressività statunitense e dei suoi alleati europei, il movimento trotskoide ha ritenuto di dover mantenere il vecchio slogan di «difesa dell’Urss» anche in un’epoca in cui tale posizione non era più storicamente giustificata (ammesso che lo sia stata precedentemente - ma di questo si è già detto e si può comunque discutere in termini storiografici).
Venendo meno la base oggettiva di questa posizione e mutando l’analisi della funzione sociale dell’Urss secondo i criteri sopra esposti, viene meno uno dei capisaldi del programma trotskiano. Giusto o sbagliato che quel programma fosse all’epcoa, esso è oggi obsoleto e superato dagli avvenimenti. La struttura sociale dell’Urss, bloccata da decenni di stagnazione burocratica, occupa oggigiorno un gradino inferiore nella scala dello sviluppo sociale internazionale e in quanto tale non rappresenta nulla di storicamente positivo rispetto alla struttura imperialistica. E lo stesso sviluppo del sistema imperialistico mondiale non solo non corrisponde più alle rigide coordinate fissate da Trotsky nel Programma di transizione (in fondo era la vigilia della Seconda guerra mondiale, di poco successiva alla grande Depressione degli Usa), ma nemmeno alle catastrofiche previsioni del movimento trotskoide, fissate nel documento del Settimo congresso mondiale della Quarta (detto Congresso di Riunificazione, giugno 1963), e ribadite infaticabilmente dal suo principale esponente teorico (Ernest Mandel, peraltro una delle più grandi intelligenze marxiste del dopoguerra). Rivelatasi infondata l’analisi dello sviluppo imperialistico nel testo del ‘38 e nei suoi aggiornamenti; rivelatasi obsoleta la posizione di principio sulla difesa dell’Urss (già all’epoca del patto Hitler-Stalin nel 1939, ma certamente oggigiorno che vede l’Urss attiva contro i principali movimenti rivoluzionari del momento, come nella Primavera di Praga, ma soprattutto nella Polonia di Solidarnosc), in assenza di aggiornamenti adeguati per l’analisi del contesto mondiale così profondamente modificato o di esperienze rivoluzionarie significative dalle quali trarre nuovo alimento teorico ed operativo per la crescita dell’Internazionale, non si può che prendere atto della fine della fase storica che rese necessaria la costruzione della Quarta. Un caposaldo del suo programma non è più valido: in realtà non lo sono nemmeno altre sue posizioni storicamente datate, ma qui non le accenniamo nemmeno perché, come abbiamo detto, la questione dell’Urss è quella fondamentale, avendo incarnato l’essenza del suo programma e avendolo rappresentato simbolicamente agli occhi di chi ha sentito parlare della Quarta internazionale nel mondo, dal 1938 ad oggi.
La Quarta internazionale è finita perché è finita l’essenza di una parte fondamentale del suo programma. Con percorsi diversi e con differenziazioni storiche importanti, è però lo stesso destino che è toccato alle tre Internazionali precedenti, scioltesi al termine di processi scissionistici o degenerativi. Anche la storia della Quarta è contrassegnata da processi scissionistici o degenerativi. Anzi, questi hanno avuto una frequenza maggiore che nelle Internazionali precedenti, soprattutto se posti in relazione all’esiguità delle forze e all’assenza di visibilità dell’Internazionale di Trotsky. Ma pur costituendo delle aggravanti, non sono queste le vere ragioni della fine della Quarta internazionale. Lo ripetiamo, per la seconda o terza volta, ma vogliamo che il concetto non sia frainteso o mescolato a considerazioni, magari importanti, ma di natura secondaria: la Quarta internazionale non ha fallito solo sul piano operativo; essa ha esaurito la propria funzione storica; non ha più un programma all’altezza dei tempi che la contraddistingua, che la caratterizzi agli occhi dei lavoratori e che ne giustifichi storicamente l’esistenza.
La lotta contro la burocrazia sovietica non è più la lotta contro un’escrescenza politica costituitasi sulle conquiste sociali dell’Ottobre, ma è la lotta contro una casta reazionaria che dirige uno Stato anch’esso reazionario tout court, cioè integrale, da cima a fondo, senza nessun carattere di superiorità rispetto all’imperialismo e senza più alcuna funzione positiva in alcun settore sociale o del mondo; l’Urss si è trasformata in una delle forze principali di intervento contro le rivoluzioni allo stato nascente; i suoi livelli di sviluppo economico, democratico e culturale sono nettamente inferiori a quelli delle principali potenze imperialistiche (gli Usa in primo luogo); lo Stato sovietico è una dittatura totalitaria e rappresenta un passo indietro rispetto ai livelli di democrazia che le lotte dei lavoratori sono riusciti a imporre in quasi tutti gli Stati imperialistici; le violazioni dei più elementari diritti della persona che avvengono impunemente nell’Urss attuale trova termini di paragone solo nelle principali dittature reazionarie (come in Cile) o in paesi di analoga origine staliniana e di analogo sistema sociale (come in Cina); con il trascorrere del tempo, il blocco nello sviluppo sociale dell’Urss è arrivato a costituire un fattore regressivo nella scala dello sviluppo sociale mondiale. La Quarta internazionale non è riuscita a frenare tale regressione (in questo senso ha fallito politicamente) e non è più in grado di adeguare il proprio programma alla nuova situazione (in questo senso ha fallito storicamente).
Tra la fine della Prima e la nascita della Seconda internazionale vi furono degli anni di vuoto. Idem tra la Seconda e la Terza. E idem tra la Terza e la Quarta. Dagli anni ‘70 in poi stiamo vivendo nuovamente questa situazione di vuoto, anche se è legittimo pensare che il vuoto sia cominciato ad agosto del 1940 quando Trotsky fu ucciso da un sicario staliniano, in un momento in cui la Quarta già non esisteva più in termini operativi o politico-organizzativi.
Personalmente ho sempre ritenuto giusto il tentativo compiuto nel dopoguerra di ricostruire la Quarta internazionale e io stesso ho fatto parte di tale tentativo, mettendo le mie energie giovanili e la mia preparazione culturale al servizio della sezione italiana. Questa mi ha espulso insieme ai compagni che la pensavano come me, ma ciononostante ho continuato a ritenere che il Segretariato unificato svolgesse un ruolo tutto sommato positivo, nonostante il suo carattere centrista sui generis. Ora non più. Le avvisaglie di degenerazione dello stesso centrismo sui generis si colgono in vari Paesi e nel funzionamento generale della direzione internazionale. Possiamo legittimamente pensare che tale degenerazione non sia dovuta solo alle singole personalità che compongono tale direzione, ma alla conclusione di un ciclo storico che vede obsoleti e inattuali alcuni fondamenti del Programma storico della Quarta (non solo quello scritto nel 1938, lo ripetiamo, ma anche quello di sostanza e di percezione da parte del mondo esterno nell’epoca attuale).
La Quinta internazionale nascerà a un determinato momento, ma ancor prima dovrà essere riconosciuta la necessità della sua esistenza, non dico tra la maggioranza dei lavoratori del mondo, ma perlomeno in alcuni settori d’avanguardia, nel mondo del lavoro fisico e mentale. Oppure non nascerà, pur esistendone già oggi l’esigenza, per ragioni politiche e planetarie che oggi sarebbe infantile tentar di prevedere. Nulla è predeterminato per sempre.
Per essere all’altezza dei compiti storici che l’attendono, comunque, essa dovrà fare tesoro delle esperienze delle quattro Internazionali precedenti e dovrà incarnare il meglio di esse, nel senso di un superamento e non di una piatta ripetizione. Nella sostanza dovrà essere un’Associazione internazionale dei lavoratori come la Prima; in più dovrà aiutare i lavoratori a organizzarsi sindacalmente e a combattere politicamente in forma unitaria come la Seconda; in più dovrà dichiarare guerra al capitalismo e all’imperialismo come la Terza; in più dovrà dichiarare guerra agli eredi dello stalinismo, agli apparati burocratici e alle caste che si vorranno appropriare del potere statale in qualsiasi parte del globo come la Quarta; in più dovrà porsi il problema della difesa del pianeta Terra, della salvaguardia fisica e psichica di tutte le forme di vita che in esso convivono. E a questo punto e solo per questo sarà la Quinta.
Non sarà un’internazionale di partiti, ma in primo luogo di movimenti. Non sarà essa stessa un partito (e men che mai un partitino) mondiale. Non sarà una confraternita di professionisti della politica, ma sarà un’internazionale di realtà effettive che si riconoscano in tutto o in parte nei punti sopracitati. Non avrà preclusioni ideologiche fondate sul passato e non avrà una direzione centrale che possa ordinare in lungo e in largo la cosiddetta «linea politica». Non sarà un’internazionale centralizzata o centralistica, ma libertaria e decentrata. Non sarà parlamentaristica, elettoralistica o istituzionalizzata. Sarà per il massimo di democrazia diretta e avversaria di ogni forma di Stato (ivi compreso il presunto Stato della società di transizione), e forse in questo modo potrà ricomporre la frattura del 1872 con i fratelli libertari o perlomeno con quelli di loro che si riconoscono nei punti precedenti. Non sarà una sigla, ma un grido di battaglia. L’appartenenza alle sue file non sarà un sostituto alla solitudine e alla frustrazione dell’uomo moderno, ma sarà un sogno... in via di realizzazione.
O almeno così voglio sperare.
La Quarta è morta: avanti verso la Quinta internazionale.

[Vi fu un aggiornamento di questa relazione dopo il 1989, in cui non si poté che prendere atto della conclusione dei processi qui descritti, ribadendo con maggior forza la fine programmatica, sotto il profilo storico, della Quarta fondata da Trotsky e rilanciando la necessità di lavorare nella prospettiva di una Quinta internazionale. Per il momento, tuttavia, non sono riuscito a trovare la registrazione di quella relazione (nota del 2010).]


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