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mercoledì 4 aprile 2018

DIECI RIFLESSIONI E UN COMMENTO: IL CICLO DELLA PAURA IN PIENO ANTROPOCENE, di Roberto Savio e Michele Nobile

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

È ormai chiaro che siamo in un periodo di transizione, anche se non sappiamo verso dove. Ma è evidente che il sistema politico, economico e sociale che ci ha accompagnato dalla fine della Seconda guerra mondiale non è più sostenibile.
Secondo Amnesty International, le diseguaglianze in crescita esponenziale ci hanno quasi riportato ai livelli del tempo della regina Vittoria: oggi a livello globale, tuttavia. Dieci anni fa, 652 individui avevano la stessa ricchezza di 2,3 miliardi di persone: ora sono appena otto.
Secondo le proiezioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i diciottenni di oggi andranno in pensione in media con 632 euro.
Nonostante le dichiarazioni ufficiali, e nell’indifferenza generale, stiamo raggiungendo il limite dei 2 gradi centigradi di aumento della temperatura atmosferica dal 1854, soglia oltre la quale il nostro pianeta subirà cambiamenti irreversibili.
La finanza si è staccata dall’economia creando un mondo proprio, il solo senza organismi internazionali di controllo, in cui le transazioni finanziarie giornaliere sono quaranta volte superiori alla produzione di beni e servizi dell’intero pianeta. Dal 2009, le principali banche hanno pagato oltre 800 miliardi di multe per operazioni illegali.
La partecipazione politica è scesa da una media dell’86%, nel 1960, al 63,7% di oggi.
Sebbene un’analisi profonda sia assai complessa e investa tutti gli aspetti della nostra vita, è possibile individuare importanti - e allo stesso tempo semplici - punti di riflessione su cui soffermarci insieme.

Riflessione nº 1

La crisi ha radici profonde.
Nel 1973, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò all’unanimità un piano di governabilità globale - progettato per ridurre le diseguaglianze tra i suoi membri - conosciuto con il nome di Nuovo Ordine Economico Internazionale. Il piano nacque con l’appoggio degli Stati Uniti (anche se promosso da Messico e Algeria).
Il sistema internazionale post-guerra - di cui sono parte, per esempio, le Nazioni Unite - era stato realizzato su iniziativa degli Stati Uniti, principali vincitori della Seconda guerra mondiale, che avevano interesse a preservare la pace e lo sviluppo in seguito a un conflitto in cui persero 405.000 soldati su una popolazione di 132 milioni di persone. La Germania ne perse più di cinque milioni su 78 di abitanti, di cui oltre due milioni di civili, contro 8.000 negli Usa e quasi tredici milioni in Urss.
Le Nazioni Unite furono create con l’impegno di Washington di contribuire al bilancio per il 25%, il che illustra la differenza con l’oggi, in cui Trump minaccia di ritirarsi.
Ma fino al summit di Cancún del 1981, che riunì i ventidue Capi di Stato più importanti del mondo (escluso il campo comunista), si viveva nell’illusione della fine delle diseguaglianze, sulla base di una democrazia mondiale in cui la maggioranza dei Paesi avrebbe deciso il corso da seguire per il bene comune.
Il neoeletto presidente Reagan era presente a Cancún e annunciò che gli Stati Uniti non avrebbero più accettato di essere sottomessi alle regole di un’astratta democrazia mondiale. Gli Usa - disse - non sono una nazione come le altre, e torneranno a decidere la loro politica internazionale e commerciale. Allo stesso vertice partecipava anche Margaret Thatcher, che divenne la sponda europea di Reagan.
Era nata una diversa visione del mondo: «la società non esiste. Esistono gli individui» (Thatcher); «non sono le fabbriche che fanno polluzione, bensì gli alberi» (Reagan). La povertà produce povertà, la ricchezza produce ricchezza. Di conseguenza i ricchi vanno tassati il meno possibile, perché distribuiscono ricchezza.

Riflessione nº 2

Nel 1989, pochi anni dopo Cancún, crollò il Muro di Berlino: era la fine delle ideologie, camicie di forza che ci avevano condotto a Nazismo e Comunismo.
L’idea-forza era che bisogna essere pragmatici. La politica doveva risolvere i problemi concreti, non perseguire utopie. Ma la soluzione di un determinato problema senza che questo sia inserito in una visione complessiva della società - destra o sinistra, poco importa - si chiama in realtà utilitarismo, e la politica rivolta all’amministrazione invece che alle idee allontana la partecipazione politica e aumenta la corruzione.
Senza programmi ideali, l’importanza della personalità del politico, possibilmente telegenico, cresceva e si misurava in TV anziché nelle pubbliche piazze. Il marketing, non le idee o i programmi, divenne lo strumento principale per le campagne elettorali.

Riflessione nº 3

Allo stesso tempo, la globalizzazione neoliberale si impose come pensiero unico senza alternative (il There Is No Alternative - TINA - di Thatcher; è interessante notare che, prima della caduta del Muro, il termine globalizzazione non era mai comparso nei media).
Questa globalizzazione si basava sul modello socioeconomico e politico del cosiddetto Washington consensus, il paradigma di sviluppo imposto da Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Tesoro degli Stati Uniti. Prevedeva l’adozione delle seguenti riforme: stabilizzazione macroeconomica, liberalizzazione (di commercio, investimenti e finanza), privatizzazione e deregolamentazione.
Eliminava dovunque le barriere di protezione nazionale, riduceva le spese non produttive (educazione, sanità e assistenza sociale) e promuoveva la libera competizione fra gli Stati. Famosa la definizione che ne diede Kissinger: «il nuovo paradigma della supremazia americana». I Paesi in via di sviluppo la vissero come sottomissione alle regole economiche imposte dal Nord. Ma Kissinger non vide che una volta aperta la via della libera competizione, la Cina e altri Paesi sarebbero emersi.

Riflessione nº 4

La reazione della sinistra al pensiero unico fu la «terza via», proposta con successo da Tony Blair: era tempo di abbandonare le vecchie idee della sinistra e cavalcare la globalizzazione, accettando la mancanza di alternative.
La socialdemocrazia, da Blair a Renzi, cerca di trasformarsi in un partito trasversale che abbracci anche il centro, con una politica di fatti concreti e priva di gabbie ideologiche superate.
Di fatto, in questo modo la sinistra ha perso la sua base popolare, e la crisi del 2008, dovuta all’assenza di controlli sulle banche nordamericane e approdata poi anche in Europa (con la sinistra al governo quasi ovunque), elimina la sua capacità di redistribuire il surplus.
Operai, ceti medi in crisi e vittime della globalizzazione cercano nuovi difensori e votano per Le Pen (Francia), Farage (Gran Bretagna), Wilder (Paesi Bassi) e così via, fino a scegliere Salvini e il Movimento 5 Stelle (Italia).

Riflessione nº 5

Numerosi storici ritengono che la cupidigia e la paura siano stati fra i principali motori di cambiamento nella storia.
Nel suo ultimo libro, Nel nome dell’umanità, Riccardo Petrella sostiene che questi motori siano stati avviati utilizzando tre «trappole»: in nome di Dio, in nome della Nazione e in nome del Profitto. Non c’è dubbio che dalla caduta del Muro di Berlino i valori della globalizzazione (competizione, profitto, individualismo ed esaltazione della ricchezza), insieme alla scomparsa della giustizia sociale (solidarietà, trasparenza, equità ecc.) dal dibattito politico, abbiano creato un’etica basata sull’avidità.
E vent’anni dopo, nel 2009, la crisi economica e finanziaria - prima negli Stati Uniti (legata alla speculazione immobiliare) e poi in Europa (dovuta ai titoli sovrani) - ha aperto un secondo ciclo: quello della paura.

Riflessione nº 6

Il ciclo della paura nel quale siamo immersi (senza aver abbandonato l’avidità e mentre tornano di nuovo in uso le tre «trappole») ha creato una nuova destra che non è costruita sulle idee, ma basata sulle emozioni.
La Brexit e Trump ne sono le manifestazioni più evidenti, ma il fenomeno reale è molto più profondo. Ci troviamo in una società liquida non strutturata su ideologie o classi. E in questa società è facile veder salire alla ribalta leader che cavalcano paura e cupidigia.
La crisi del 2009 si aggiunge ai massicci flussi migratori provenienti da Paesi invasi dall’Occidente per deporne i dittatori ed istituire automaticamente la democrazia. (Tuttavia, la disgregazione della Iugoslavia - una nazione moderna ed europea - dopo la morte di Tito avrebbe dovuto costituire un monito.)
Non è la democrazia ad essere introdotta, ma caos, guerre civili, sangue e distruzione.
Nel 2003, George W. Bush iniziò l’invasione dell’Iraq. Nel 2011, in Siria scoppiò la guerra civile, diventando ben presto uno scontro fra potenze arabe, Europa, Stati Uniti e Russia (risultato: sei milioni di sfollati e mezzo milione di morti). Nel 2013, Sarkozy spinse per un’invasione della Libia.
Dalle rovine dell’Iraq nacque l’Isis - terrorismo in nome di Dio, per un ritorno all’Islam originario (il Wahhabismo, finanziato in tutto il mondo dall’Arabia Saudita con 80 miliardi di dollari negli ultimi vent’anni). Quindic’anni prima, i veterani della guerra finanziata dagli Stati Uniti contro l’occupazione sovietica in Afghanistan si erano riuniti sotto la guida di Osama Bin Laden in un’altra struttura, al-Qaida, mettendo in atto il primo attacco della storia su suolo nordamericano, nel 2001.
Come dice El Roto, celebre vignettista di El País: «noi gli mandiamo bombe, e loro ci mandano migranti».
Sui rifugiati in arrivo scattano due delle tre «trappole»: in nome di Dio e in nome della Nazione.
Ora, in Europa, i partiti identitari e sovranisti sono la seconda forza politica, davanti a quelli socialisti. Se oggi si tenessero le elezioni europee, la destra radicale otterrebbe quaranta milioni di voti. È al potere in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Austria, ma condiziona pure i governi dei Paesi nordici, dell’Olanda e della stessa Germania (da quando Alternative für Deutschland ha ottenuto 92 seggi).
In Ungheria, Orbán ha lanciato la cosiddetta «democrazia illiberale», la Polonia ha denunciato il laicismo dell’Unione europea e convoca una grande marcia con i populisti e sovranisti di tutto il continente, al grido di «in nome di Dio». Il Gruppo di Visegrád (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e ora anche Austria) ha denunciato il cedimento dell’Europa all’Islam e creato una frattura Est-Ovest in Europa, che si aggiunge a quella Nord-Sud sulla visione dell’economia: austerità o solidarietà.
C’è però una novità: gli Stati Uniti intervengono in Europa appoggiando apertamente i partiti della destra nazionalista e xenofoba, che allo stesso tempo guardano non solo a Trump, ma anche a Putin (che sta pure intromettendosi nelle elezioni europee), considerandolo un punto di riferimento.
Come risultato, in un’Europa che invecchia rapidamente (in Italia, per esempio, i giovani tra i 18 e i 25 anni sono il 3% degli aventi diritto al voto), l’immigrazione è diventata una grande bandiera della destra populista e xenofoba.
Nel frattempo, il Fondo monetario internazionale ha lanciato un avviso: l’Europa ha bisogno in tempi brevi di assorbire 20,5 milioni di immigrati, in modo da poter sostenere il suo sistema pensionistico e mantenere i livelli di produttività. Le statistiche mostrano che gli immigrati contribuiscono al sistema più di quanto costino; costituiscono la grande maggioranza delle nuove piccole imprese e il loro sogno è essere integrati rapidamente nel sistema europeo.
Ma non esiste un dibattito sull’immigrazione e su quali categorie di immigranti accogliere. Tutti sono ormai visti come pericolosi invasori, intenti a distruggere l’identità europea, alla criminalità e a togliere il lavoro ai cittadini europei, vittime di una diffusa disoccupazione. Perfino Trump, in un Paese costituito da immigranti, ha fatto del controllo sull’immigrazione uno dei suoi cavalli di battaglia.
Un fenomeno tragico è che i giovani, assai meno dei pensionati, non sono più attivi politicamente. Nella storia, i giovani irrompono sulla scena politica per cambiare il mondo che trovano. Se avessero votato, la Brexit non si sarebbe verificata. Ma il sistema politico - degli anziani - li ignora. In Italia, il governo Renzi ha stanziato 30 miliardi di euro per salvare quattro banche. Nello stesso anno, il bilancio totale per i giovani italiani era di due miliardi.
Dalla creazione delle Nazioni Unite nel 1945, siamo passati da 2,5 miliardi di abitanti ai 7,6 miliardi di oggi. La crescita si fermerà solo nel 2050, quando saremo 9,5 miliardi. O troviamo un accordo sulla governabilità e l’immigrazione di cui necessitiamo, oppure dovremo sparare sugli immigranti, come alcuni hanno già proposto.

Riflessione nº 7

Gli intellettuali e i politologi sono sempre più sorpresi dalla passività dei cittadini, che sembrano completamente anestetizzati e non reagiscono più a nulla, anche se la politica va contro i loro interessi.
La storia della Brexit è stata oggetto di tante analisi. Come è possibile che le aree più depresse, che tanto ricevevano dall’Europa, abbiano votato per uscirne? Come può essere che la Polonia, la più grande beneficiaria di fondi europei (tre volte il piano Marshall), voti contro l’Europa? Come si spiega che Trump, che doveva prosciugare la palude dai grandi interessi a favore del popolo ignorato dai poteri forti, governi alleandosi con il grande capitale e l’esercito (senza contare i suoi famigliari), e i suoi elettori gli siano comunque rimasti fedeli? Oggi il 92% di coloro che lo votarono si dichiara pronto a rieleggerlo.
Vi sono molte interpretazioni di questa situazione paradossale. Ma come diceva Talleyrand [in realtà, Joseph de Maistre (n.d.r.)], «ogni popolo ha il governo che si merita». E dovremmo riconoscere che dalla crisi del 2009, la classe politica è quella che ha perso più credito.
In questo contesto è opportuno menzionare l’impatto dell’evasione televisiva dei reality shows dal 1989 - e la relativa sensazione di estraneità dal potere politico - così come il rifugiarsi in uno spazio virtuale quale Internet, che ha contribuito a un individualismo frutto di frustrazione e della mancanza di dibattito e idee.
L’esempio più macroscopico di questa anestetizzazione riguarda sicuramente i cambiamenti climatici. I cittadini li vedono ogni giorno nella loro vita quotidiana: immagini impressionanti della sparizione dei ghiacciai, nevicate nel Sahara, uragani, incendi e tormente. Posseggono anche tutti i dati della comunità scientifica, che ha costretto i governi di tutto il mondo a riunirsi a Parigi, dove, ciononostante, è stato sottoscritto un accordo insufficiente, privo di controlli effettivi.
I cittadini non hanno bisogno di studiare la situazione per conoscere. Possono pure vedere come i governi parlino, ma non agiscano. Questi continuano a spendere per finanziare l’industria fossile tre volte più di quanto investono nell’energia rinnovabile. L’Italia ha addirittura indetto un referendum per decidere se proseguire nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi del Meridione.

Riflessione nº 8

Consideriamo ora l’impatto della tecnologia, in particolare quello della Quarta rivoluzione industriale ormai avviata.
La Prima avvenne ai primi dell’‘800, quando la meccanizzazione sostituì il lavoro individuale: i telai a vapore presero il posto di quelli manuali. Fu facile riciclare i lavoratori, che passarono dal telaio casalingo a quello della fabbrica.
La Seconda fu alla fine del XIX secolo, grazie all’utilizzo di macchine azionate da energia meccanica e nuove fonti energetiche. Nacquero le reti ferroviarie; si costruirono navi a vapore e mezzi di comunicazione veloci; vi furono scoperte importanti in campo chimico, medico e scientifico - l’elettricità, per esempio; vennero inventati la catena di montaggio, il telefono ecc.
Anche qui, attraverso il travaso dai campi alle fabbriche, gli esseri umani restavano vitali per la produzione: iniziarono quindi battaglie politiche per un giusto riconoscimento del loro lavoro; e nacque la politica moderna.
La Terza rivoluzione industriale si verificò nel secondo dopoguerra: il progresso tecnologico, con Internet al centro, cambiò il modo di lavorare delle persone.
E oggi, come sua conseguenza, è già iniziata la Quarta, fondata su intelligenza artificiale e robotizzazione, che ora riguarda il 17% della produzione di beni e servizi - ma, secondo i calcoli, nel 2030 arriverà al 30%.
In Europa, la sola automazione dei trasporti renderà obsoleti sei milioni di tassisti, camionisti e guidatori di mezzi pubblici, rivoluzionando il sistema dei trasporti, l’industria automobilistica, le imprese di assicurazione ecc. I conduttori di tassì, questa volta, sapranno «riciclarsi» in una società che privilegerà la conoscenza tecnologica sul lavoro tradizionale?
Andiamo verso un problema strutturale, che la politica ancora ignora. Ma questo non rischia di aumentare la disoccupazione, la paura e le tensioni sociali e politiche? È solo un esempio di quanto si stia drammaticamente allargando la distanza della politica da tecnologia, finanza e globalizzazione.

Riflessione nº 9

E veniamo ora alla crisi del multilateralismo.
Dalle rovine della Seconda guerra mondiale - dopo le tragedie provocate dai nazionalismi e dall’idea di dominio sugli altri - era nata la consapevolezza che solo attraverso la cooperazione multilaterale si poteva giungere a una pace duratura.
Furono create le organizzazioni internazionali - le Nazioni Unite con tutte le sue agenzie e fondi: dall’Unicef alla Fao, dall’Organizzazione mondiale della sanità all’Agenzia internazionale per l’energia atomica; e in Europa il grande progetto della Comunità europea, insieme a tutti i progetti regionali: dall’Asean all’Organizzazione dell’unità africana, da quella degli Stati americani al Mercosur ecc.
Tutto questo sistema multilaterale è oggi in crisi. Le guerre commerciali di Trump stanno distruggendo il sistema degli scambi commerciali. Dalla democrazia mondiale di Roosevelt, dalla libera competizione e il free trade di Reagan, siamo passati all’esclusività degli interessi statunitensi: America First. Le guerre monetarie sono all’orizzonte.
Ecco l’idea di competere invece di cooperare, la cupidigia come valore da sostituire a quello della cooperazione; quest’ultima, che aiuta i deboli e controlla in forti, sta andando ad esaurirsi.
Ma proprio come Kissinger non vide che un giorno la libera competizione si sarebbe rivolta contro gli Stati Uniti, Trump non si accorge che aprire una politica di scontri potrebbe ritorcersi contro di lui, in futuro. Russia, Cina e Stati Uniti stanno tornando all’era - che sembrava ormai conclusa - della politica delle cannoniere.
Il presente e l’immediato futuro sembrano essere una pericolosa riedizione degli anni ‘30, poi sfociati nella Seconda guerra mondiale. Ne hanno coscienza coloro che votano per il nazionalismo? Come dice papa Francesco, siamo già in una Terza guerra mondiale «a pezzi».
Alle guerre in nome della Nazione in Africa si vanno aggiungendo quelle in nome di Dio, dai Rohingya in Myanmar ai terroristi islamici.
Abbiamo passato decenni ad abbattere muri, e oggi ne stiamo costruendo più di prima. Il futuro sembra andare contro gli interessi dell’umanità, che conosce ora minacce planetarie che non esistevano negli anni Trenta - dal clima al nucleare - in un processo di darwinismo sociale ed economico che sappiamo già dove conduce.

Riflessione nº 10

È evidente che la riflessione finale debba riguardare la necessità di trovare una governabilità della globalizzazione e della Quarta rivoluzione industriale.
Non è vero che siamo senza ideologie: la globalizzazione neoliberale è un’ideologia di una forza senza precedenti, che ha prodotto fenomeni nuovi come la finanza globale, un sistema multinazionale più possente degli stessi governi, in cui l’esempio dell’uso di Facebook per usare i cittadini come merci e influire su scelte politiche e commerciali dimostra che ci troviamo in una profonda crisi di democrazia.
Stiamo entrando in un mondo distopico descritto dai pionieri della science fiction: quello di George Orwell e di Arthur C. Clarke, basato sulle macchine e il potere di pochi.
Solamente dieci anni fa era impensabile un’ascesa al potere assoluto come quella di Xi Jinping in Cina, di Erdoğan in Turchia o di Putin in Russia; erano inconcepibili la Brexit e Trump; era assurdo pensare che i paradisi fiscali avrebbero raggiunto la colossale cifra di 80 trilioni di dollari; era inimmaginabile che otto persone avrebbero posseduto la stessa ricchezza di 2,3 miliardi; era impossibile credere che la Norvegia avrebbe avuto un inverno con temperature vicine a quelle primaverili.
Dieci anni fa la crisi finanziaria apriva un periodo di profonde e drammatiche trasformazioni. Con questa «accelerazione del ritmo della storia umana», come la chiamava Toynbee, dove saremo tra un decennio?
Occorre avviare subito un dialogo generale, che può essere fondato solo sulla riscoperta di valori comuni, sulla costruzione di pace e cooperazione, sul diritto internazionale come caposaldo dei rapporti fra Stati, e ritrovare il senso della condivisione, della pace e della giustizia sociale come base per la convivenza, che riporti l’uomo al centro della società - sostituendo capitale, finanza e avidità - e liberi la società dalla paura.
Saremo in grado di trovare il cammino per farlo?

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© La Forgia
RIFLESSIONI SUL MONDO E LA NOSTRA EPOCA, di Michele Nobile

Le riflessioni di Roberto Savio toccano problemi la cui radice non è recente e che col passare del tempo divengono sempre più gravi. I suoi argomenti incontrano i miei, che sono diretti sia al presente che a una rilettura del passato alla luce delle urgenze contemporanee. Senza alcuna pretesa di esaustività, quelle che seguono sono alcune considerazioni che l’articolo di Savio mi ha stimolato.

1) Quando ci si chiede seriamente se siamo in transizione verso un mondo nuovo, allora vuol dire che con ogni probabilità un passaggio è già stato compiuto. Il concetto segue l’idea, ma il reale non è razionale: è pieno di contraddizioni. Ed è per questo motivo, e per le sfasature tra diverse scale temporali e spaziali, che si aprono delle possibilità di azione.
Su una scala temporale e spaziale più lunga e più ampia, il mondo in cui viviamo è contraddistinto da due transizioni. La prima è quella segnata da Hiroshima e Nagasaki, dallo sviluppo degli arsenali nucleari e dalla loro proliferazione. Con l’arma atomica siamo entrati in un’era in cui concepire la fine dell’umanità o della civiltà non è più una fantasia mistica o una visione letteraria, ma una possibilità reale: l’umanità può por fine alla propria storia non per giudizio divino o per il moto casuale di un asteroide, ma per propria mano.
Che dal 1945 l’arma atomica non sia più stata utilizzata per colpire un nemico non significa che essa non abbia effetti molto concreti. Ne ha, molti e pervasivi, anche se spesso non sono facilmente percepibili nella vita quotidiana. Dietro l’uso delle forze convenzionali esiste sempre la minaccia dell’arma nucleare; e questa è formalmente l’ultima risorsa per difendere il potere: ragion per cui - oltre a Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Israele, India e Pakistan - la «bomba nazionale» è utile a un regime tirannico come quello della Corea del Nord e costituisce una speranza per la teocrazia iraniana.
Il possesso dell’arma nucleare dimostra che il potere dello Stato in questione ha natura anti-umana e potenzialmente sterminicida. Sono convinto che la lotta contro tutti gli arsenali nucleari, di qualsiasi Stato, dovrebbe essere al primo posto nella battaglia contro il militarismo e l’imperialismo. La distruttività dell’arma nucleare è l’esatto contrario della solidarietà internazionale dei popoli in lotta contro i loro oppressori; la difesa dalla minaccia nucleare è un potente mezzo per giustificare il militarismo e raccogliere il consenso intorno alle classi e alle caste politiche al potere.
Anche la seconda transizione è già avvenuta, ma come per la prima si tratta di controllarne gli effetti e ridurne i danni, se è ancora possibile.
Si discute sull’importanza cumulativa degli effetti ecologici della Prima rivoluzione industriale, ma tutto fa pensare che i pochi decenni che seguirono la Seconda guerra mondiale - un periodo infinitesimale su scala geologica - abbiano prodotto lo straordinario effetto di determinare quella che è ormai considerata da gran parte degli specialisti una nuova e particolare epoca geologica: l’Antropocene. Con ciò s’intende che l’impatto dell’attività umana sul pianeta è così diffuso e profondo da rivaleggiare con le forze della natura e meritare un posto nella scala del tempo geologico. Non è una buona notizia per l’umanità: è un progresso, per così dire, di cui non si può essere orgogliosi, in quanto minaccia catastrofi.
La battaglia contro il riscaldamento globale ha la sua specificità, ma nello stesso tempo è il condensato delle contraddizioni interne alla società mondiale e nel rapporto fra i sistemi sociali moderni e la natura. Per esempio, quella battaglia passa anche attraverso la riduzione della crescita demografica, ma il passaggio su scala mondiale a un regime demografico di bassa natalità e bassa mortalità richiede pure che si affronti sulla stessa scala il dramma della diseguaglianza delle condizioni di vita fra i popoli del pianeta. Si tratta di qualcosa che richiede sia il cambiamento sociale che quello tecnologico. Un’impresa senza precedenti, per la quale tutti i poteri economici e politici esistenti sono assolutamente inadeguati.
Arsenali nucleari e cambiamenti climatici sono la dimostrazione dell’insostenibilità del sistema mondiale attuale. Essi sono il prodotto della tecnologia e della scienza più moderna, ma non sono determinati da queste. La tecnologia è una causa materiale, ma la causa efficiente risiede interamente nella sfera dei rapporti fra gli esseri umani, cioè nei rapporti e nelle istituzioni in cui si concentrano il potere economico e politico.
La transizione nell’epoca del possibile annientamento atomico della civiltà è stata voluta e coscientemente organizzata dai detentori del potere politico, innanzitutto - ma non solo - Stati Uniti ed Unione Sovietica. La transizione verso l’Antropocene è stata invece un prodotto spontaneo dovuto in primis a una forma di ricchezza astratta, e quindi senza limiti nella sua accumulazione: la ricerca del massimo profitto. È dunque il risultato dello sviluppo del capitalismo e della mercificazione universale, a partire dal lavoro umano.
Tuttavia, all’Antropocene ha contribuito anche l’industrializzazione degli Stati sedicenti socialisti come mezzo per consolidare ed accrescere la potenza delle caste dominanti degli Stati stessi; e le particolari contraddizioni di quell’industrializzazione, che si possono compendiare nello spreco enorme di tutte le risorse possibili, da quelle umane a quelle naturali, con un ritmo (da distinguere dal volume complessivo) perfino superiore a quello del capitalismo, per il quale contribuisce positivamente al saggio del profitto il risparmio di tempo di lavoro, ma anche - secondo le circostanze - il risparmio di materia e di energia.
Arsenali nucleari e cambiamenti climatici globali hanno questo in comune: sono il risultato della razionalità tecnologica e scientifica applicata in un tipo di società complessivamente irrazionale, cioè non finalizzata a soddisfare consapevolmente i bisogni della maggioranza della popolazione e a mantenere un equilibrio nel rapporto fra società e natura.
Tecnologia come causa materiale, classi capitalistiche e caste politiche come causa efficiente, riproduzione dei rapporti e delle istituzioni di potere economico e politico come causa finale: è così che le forze di produzione si sono convertite in forze di distruzione.
Per quanto siano forme sociali distinte, capitalismo e pseudosocialismo hanno anche questo in comune: la riproduzione dei rapporti di potere - concentrati nello Stato e nelle imprese - attuata mediante il «libero» mercato o la pianificazione statale, nega la possibilità del controllo sociale sulle dinamiche politiche ed economiche. In modi diversi negano la possibilità dell’autogestione consapevole della società su tutte le scale. In questo senso condannano l’umanità a vivere in una sorta di preistoria.
Le considerazioni precedenti si pongono a un alto livello di generalità, ma sono pure necessarie per prendere coscienza del salto qualitativo nella storia umana realizzatosi nel corso del XX secolo. Sono anche ragioni sufficienti per concludere che il controllo e il rovesciamento delle due transizioni richiede il rigetto delle due forme sociali che le hanno prodotte: il capitalismo e lo pseudosocialismo totalitario.

2) Paradossalmente, l’avvento dell’era atomica e il progressivo intensificarsi dei processi risultanti nel cambiamento climatico globale coincidono con la creazione di un insieme di istituzioni multilaterali e, col tempo, di accordi internazionali regionali di varia natura: le Nazioni Unite e le sue varie agenzie, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Comunità economica europea, la Nato, il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), il Patto di Varsavia, l’Asean e via elencando.
Mai come nel secondo dopoguerra la società internazionale è stata così ampiamente strutturata e istituzionalizzata. E, altro fatto paradossale, mai come nel secondo dopoguerra la società internazionale ha negato la legittimità della guerra come mezzo per risolvere le controversie fra gli Stati e affermato il diritto dei popoli e degli individui all’eguaglianza, alla libertà, all’autodeterminazione e perfino a taluni diritti economico-sociali.
Ciò mentre i missili nucleari, le alleanze militari e le dinamiche del potere economico limitavano fortemente - lì dove esistevano (vale a dire in una piccola parte del mondo) - l’ampiezza e le possibilità dell’esercizio dei diritti democratici e della sovranità del popolo.
In questi paradossi si manifesta la contraddittorietà delle forme sociali della modernità: promessa di progresso e liberazione, ma allo stesso tempo intensificazione dei rischi e dei problemi su scala globale.
Il fatto è che la vera globalizzazione non è economica né politica, ma dei rischi e dei problemi. Mentre l’incorporazione dell’arma nucleare nei missili, lo sviluppo del capitalismo e l’industrializzazione degli pseudosocialismi totalitari producevano rischi e problemi globali per tutta l’umanità, gli istituti del potere sono rimasti particolari e nazionali, sia pure con un raggio d’azione che travalica i confini territoriali e con fitti rapporti diplomatici.
La forma e la dinamica della società mondiale non sono statiche, ma continuano a reggersi sulla riproduzione delle differenze nei livelli di sviluppo socioeconomico e della potenza economica e politica. Mentre cresce l’interdipendenza, si riproduce la diseguaglianza sociale e si complicano le sue forme.
Se ne deduce che la risposta ai rischi e ai problemi globali non può darsi al livello nazionale. O meglio, lo Stato territoriale costituisce l’àmbito in cui l’azione politica inizia un processo di cambiamento - rovesciando le istituzioni del potere - che può però realizzare pienamente e stabilmente i propri obiettivi soltanto su scale superiori: regionali, continentali e mondiale.

3) Consideriamo la cupidigia e la paura menzionate da Savio.
Nel nostro tempo, la paura e l’insicurezza sono forze potenti in cui si fondono più timori: la precarietà del lavoro e della disoccupazione, il futuro dei figli, il mutuo, l’immigrato e il terrorismo. L’insicurezza e la paura dell’immigrato manifestate da tanti cittadini europei sono il risultato di precise politiche economiche e sociali europee, articolate nei diversi Stati dell’Unione e della zona euro. La paura dell’immigrato equivale alla definizione di capro espiatorio, a un falso bersaglio.
Le politiche regionali e nazionali, a loro volta, si inscrivono in una determinata configurazione strutturale degli squilibri macroeconomici secondo cui, schematicamente, gli Stati Uniti sono il polo della domanda mondiale e Germania, Cina e Giappone i poli dell’offerta mondiale. La precarietà dell’occupazione in Europa è dunque il risultato sia di una struttura che di decisioni (e non-decisioni) politiche. Ed è questa precarietà, mossa dalla cupidigia, che alimenta a sua volta la paura dell’immigrazione.
Come si può risolvere, restando sul piano nazionale, un doppio problema che risulta sia da una struttura dell’economia mondiale, sia da politiche e istituzioni che operano su una scala regionale quasi continentale?
La risposta è che il doppio problema non si può risolvere se non sulla scala appropriata, cioè quella regionale. Pensare che si possa risolvere su scala nazionale è velleitario e si presta facilmente a una vera e propria regressione reazionaria: che è appunto quanto avviene in buona parte dell’opinione pubblica continentale.
Se il doppio problema della paura dell’immigrato e della cupidigia che produce la precarietà non si può risolvere su scala nazionale, è su questa scala che si può iniziare ad affrontarlo. Tuttavia, non in un’ottica nazionalista e mettendo il carro davanti ai buoi, cioè non rivendicando l’uscita dall’Unione europea e dalla zona euro.
Si inizia ad affrontare con lotte parziali e settoriali, con movimenti difensivi, ma che con la loro unificazione inizino a cambiare i rapporti di forza con il potere economico e politico nazionale. Solo allora si può porre la questione del governo nazionale e del rapporto con gli altri governi dell’Ue e della zona euro, benché a dire il vero non si capisce quali partiti potrebbero governare in modo credibile secondo una prospettiva opposta a quella corrente, neoliberista oppure socialiberista di «terza via»: abbiamo visto pochi anni fa l’esempio di Syriza e del governo Tsipras, ultima tomba dei partiti di sinistra europei.
Oltre ad essere ridicolo porre l’obiettivo dell’uscita dall’Unione europea e dalla zona euro quando non si è neanche in grado di condurre lotte difensive né si dispone di un soggetto politico che possa governare (il carro davanti ai buoi di cui sopra), qualsiasi movimento sociale e qualsiasi governo che intenda seriamente combattere cupidigia e paura deve potersi rapportare ad altri movimenti e possibilmente ad altri governi in Europa.
In altri termini, problemi come quelli della precarietà e dell’immigrazione non possono essere risolti effettivamente se non su scala continentale. Ciò per cui occorre battersi non è la distruzione dell’Unione europea e dell’unità monetaria. Il fatto è che a questa mancano un bilancio e una politica economica e sociale comuni, orientati a soddisfare i bisogni della cittadinanza invece che quelli della competitività fra gli Stati della regione e nel mondo. In altre parole: occorre battersi per gli Stati Uniti d’Europa.
Un processo che deve essere pensato come conflittuale e diseguale, e il cui risultato dipende molto dal non chiudersi a priori in una presunta indipendenza nazionale. Dovunque il processo inizi, occorre fungere da stimolo per tutti i lavoratori e i cittadini europei affinché i movimenti convergano sugli obiettivi fondamentali. Se ciò avvenisse, obiettivamente si metterebbero in discussione anche i pilastri del potere economico e politico del capitalismo e dell’imperialismo degli Stati europei: gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili nel quadro dei diversi capitalismi e imperialismi europei.
E ciò è tanto più necessario per i motivi che seguono: primo, la precarietà non è risultato né della tecnologia né dell’immigrazione come tali, ma di politiche che non hanno l’occupazione come obiettivo; e, secondo, perché a sua volta l’immigrazione extracomunitaria non è solo il risultato della crescita demografica dei Paesi sottosviluppati - che pure è un problema - ma anche della loro povertà.
«Aiutarli a casa loro» non è un’idea sbagliata, ma suona del tutto ipocrita e impotente quando ciò non si traduca in modi diversi dallo sfruttamento imperialistico di persone e risorse naturali.

4) Quanto precede evidentemente non è cosa all’ordine del giorno, ma a me pare molto più realistico di linee alternative chiuse nello Stato nazionale che concepiscono l’internazionalismo come mera somma di movimenti nazionali. Quest’ultima è una prospettiva da tempo superata dallo sviluppo del capitalismo e perfino delle sue assai imperfette istituzioni internazionali: porsi al di sotto del livello storico raggiunto dall’avversario significa votarsi all’impotenza - o peggio, contribuire alla diffusione di una mentalità reazionaria.
Se e quando in futuro si verificherà qualcosa che si avvicini al sincronismo dei movimenti sorti a cavaliere degli anni ‘60 e ’70, sarà anche messa alla prova la possibilità degli Stati Uniti d’Europa. Eventualità che nessuno può prevedere e men che mai determinare, ma che considero probabile proprio perché l’interdipendenza è oggi più forte che mezzo secolo fa.
Non deve stupire che questo non si sia verificato nel bel mezzo della crisi finanziaria del 2008, nonostante la sua gravità. O forse anche per questo: è noto - salvo nelle menti che vogliono illudersi - che non esiste correlazione automatica fra crisi economica e grandi movimenti sociali progressisti. La crescita della disoccupazione non favorisce la mobilitazione, men che mai quando la serie di sconfitte è lunga.
Tuttavia, qui non interessa un discorso sociologico su condizioni e dinamica della mobilitazione dei lavoratori, che può divenire un alibi fatalistico. Il nocciolo del problema storico della passività dei cittadini europei segnalata da Roberto Savio è parte di un problema più grande.
Sappiamo già quanto il sistema sia forte e quali siano le sue capacità destrutturanti e ristrutturanti - che storicamente passano attraverso crisi e catastrofi - per quanto concerne sia i rapporti socioeconomici che politici. Non mi soffermo sulle ragioni e la dinamica della postdemocrazia e della società dello spettacolo, e nemmeno sull’effetto atomizzante che possono avere i social networks.

5) In conclusione, mi interessa puntare il dito su un altro problema: quello della soggettività di quel che si dice «sinistra» in Europa. Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, la sinistra ha subìto una regressione colossale, di cui l’Italia è un caso esemplare e acuto proprio perché un tempo, fra i Paesi a capitalismo avanzato, vantava la sinistra più consistente, sia parlamentare (Pci, Psi e Psiup) che extraparlamentare (i vari gruppi della nuova sinistra). Ebbene, il problema di questa sinistra non è solo e forse nemmeno tanto d’essere stata travolta dal generale arretramento dei rapporti di forza tra le classi. Non si può dire che la sinistra sia stata sconfitta per aver ingaggiato una battaglia risolutiva: sicuramente non il Pci, che con Berlinguer scelse l’«unità nazionale», proteggendo così il regime democristiano nel momento della sua crisi e ponendo le basi per la controffensiva che il padronato avrebbe poi gestito in proprio. Il problema fondamentale della sinistra italiana - e in generale della sinistra europea - è la sua degenerazione e corruzione interna, corruzione da intendersi innanzitutto come fatto ideale e politico.
A questo proposito, a volte mi vien da pensare che siamo regrediti alla fine del XIX secolo e che l’orizzonte politico di questa sinistra è segnato a destra dal riformismo di Bernstein - ben disposto a collaborare con la borghesia liberale - e a sinistra dal gradualismo parlamentare di Kautsky - il custode della purezza politica e teorica della presunta ortodossia marxista che attende la maturazione del socialismo, nel frattempo iniettando dall’esterno dosi di coscienza di classe nel proletariato. Ma si tratta di un errore, un eccesso di ottimismo. Se esistessero un centro e una destra socialdemocratica, allora potremmo forse avere anche una sinistra della socialdemocrazia: non solo Bernstein e Kautsky, ma anche Rosa Luxemburg, Trotsky, Lenin e tanti altri. Invece non è così. Il tempo non è passato senza danni irreversibili: quelli che sarebbero oggi gli eredi di Bernstein e di Kautsky sono anche il risultato del terrore di massa, delle purghe e della rovina politica e ideale dello stalinismo.
Su questa linea di pensiero mi sovviene un passaggio di Marx, pur in tutt’altro contesto. Lo trovo suggestivo e adeguato, sia per quel che riguarda la soggettività della sinistra europea che per la condizione dei Paesi ex «socialisti», in particolare Cina e Russia:
«Oltre le miserie moderne, ci opprime tutta una serie di miserie ereditarie, che sorgono dal vegetare di modi di produzione antiquati e sorpassati, che ci sono trasmessi col loro corteggio di rapporti sociali e politici anacronistici. Le nostre sofferenze vengono non solo dai vivi, ma anche dai morti. Le mort saisit le vif! [Il morto fa presa sul vivo]» (Prefazione alla I edizione de Il Capitale, 25 luglio 1867).
Si può dire che l’ideologia, che per la sinistra europea era motivo di alterigia davanti ai compagni del resto del mondo, è diventata oppure si è rivelata essere un peso morto, o meglio una sorta di non-morto che continua a divorare il vivo. Direi che oggi il centro esistenziale di qualcosa che possa dirsi sinistra si è spostato verso il Nuovo Mondo: in senso più politico nell’America latina, in senso più intellettuale negli Stati Uniti. Non mi sorprenderei se, come in passato, proprio dagli Usa arrivasse una gradita sorpresa.
Sia come sia, combattere il non-morto è una delle nostre priorità.

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