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martedì 27 dicembre 2011

IL TEMA DELLA VIOLENZA DOPO IL 15 OTTOBRE A ROMA, di Stefano Sbolgi («Birillo»)

Personalmente mi ci sono voluti almeno un paio di giorni per elaborare un ragionamento razionale sul 15 ottobre. Certo il turbamento ed il disagio che già si percepivano tra i compagni nel viaggio di ritorno erano palpabili. Poca era la voglia di commentare a caldo l’accaduto, grande la preoccupazione di dovere gestire nei giorni successivi la valanga di critiche che avrebbero coinvolto, in particolare i Cobas, a seguito delle tante situazioni paradossali verificatesi prima e durante l’evento.
Credo di poter dire che il mezzo disastro del 15 ottobre affonda le sue radici nelle molte, troppe ambiguità e differenze interpretative della fase storica che stiamo attraversando, solchi che segnano il movimento fin dalla sua genesi, ed in parte anche la nostra organizzazione. La giornata del 15 ottobre è stata la disfatta dell’idea stessa di organizzazione, della capacità del movimento di coordinarsi, di trovare una sintesi politica traducibile in parole d’ordine chiare ed unificanti. Sintesi, a mio avviso impossibile tra componenti la cui prospettiva strategica è “l’alternanza di governo” magari partecipandovi, e le altre, per le quali regna, con rinnovata forza e come orizzonte strategico, “l’alternativa di sistema” che qualcuno, al contrario ha liquidato da tempo e troppo presto, come stantia utopia totalitaria.
Già nelle settimane precedenti c’era un gran caos che circondava il corteo. Le assemblee a Roma si susseguivano senza sosta, ma chi ci partecipava ha deciso alla fine di lasciare la piazza a se stessa, decidendo una linea pacifica che, com’era chiaro a tutti fin da subito, non sarebbe stata l’unica presente. Ciò che era ampiamente previsto alla fine è successo. Sostanzialmente c’è stata una non-gestione, derivata da un’incapacità di leggere la situazione, vista la complessità degli elementi in campo.
L’unica sintesi individuata è stata attribuire alla manifestazione la cifra della pluralità e del pacifismo.
Un evento capace di accogliere qualsiasi orientamento purché contenesse una qualche critica dell’esistente. L’evento è stato derubricato ad una semplice conta, per dire “vediamo quanti siamo, poi decideremo che fare”. In Italia, però, c’è forte tensione, maggiore che negli altri paesi, dall’estate calda in Val di Susa, alle dure manifestazioni operaie di Fincantieri piuttosto che di Termini Imerese, fino agli scontri dei pastori sardi o degli stessi Cobas arrivati fin sotto il Parlamento. La consapevolezza che la crisi morde davvero e sta accendendo gli animi. Così era prevedibile che qualcuno pur non inquadrato nel gruppo organizzato decidesse di seguirli e passare direttamente all’azione.

domenica 25 dicembre 2011

SARKOZY E IL GENOCIDIO ARMENO, di Pier Francesco Zarcone


Quando si dice il tempismo ...
In una fase della politica internazionale in cui l’urgenza della questione turco/armena è praticamente a livello zero, l’Assemblea Nazionale francese ha approvato una legge che configura come reato il negazionismo del genocidio armeno compiuto dal governo ottomano dei Giovani Turchi durante la Prima guerra mondiale. Per chi pubblicamente sostenga che il massacro non arrivò a configurare un genocidio sono previsti un anno di prigione e 45.000 euro di multa. Si aspetta che il Senato approvi a sua volta, e sicuramente così sarà.
Poiché ciò avviene in un momento in cui le due parti in causa – Turchia e Armenia – sono impegnate in un processo, sia pure lento e faticoso, volto a instaurare rapporti reciproci definibili “normali”, è ovvio che ci si interroghi sul reale significato dell’iniziativa insieme a un minimo di chiarimento sul retroterra storico delle vicende implicate.
Ma prima ancora è utile spendere due parole sul nazionalismo e certi suoi effetti. Laddove infatti il nazionalismo ha operato all’interno di ambienti multinazionali, o multietnici che dir si voglia, il massacro del diverso ha sempre costituito la tragica “normalità”. Esempio: quando l’Impero ottomano fu espulso dai Balcani – a cominciare dalla Grecia ai primi dell’800 e per finire con la guerra balcanica all’inizio del nuovo secolo – la plaudente Europa dell’epoca omise di porsi il problema della sorte degli islamizzati locali (tutti inglobati, artificiosamente, nella categoria dei “turchi”, e quindi da esecrare) a seguito della vittoria “cristiana”: la risposta è semplice: fu l’apoteosi del massacro e del forzato esodo dalle proprie case e dai propri luoghi di origine. Tant’è che oggi – Albania e Bosnia a parte – di “turchi” lì ne è rimasta solo una sparuta rappresentanza.

venerdì 23 dicembre 2011

PIOVONO MESSAGGI DI FINE ANNO - GOVERNO LADRO!

Da Pino Bertelli:

* * * *
Michele Nobile ci chiede di riportare questa strofa tratta dal film L'armata Brancaleone:

Senza armatura
senza paura
senza calzari
senza denari
senza la brocca
senza pagnocca*
senza la mappa
senza la pappa
senza cavallo
né caciocavallo...

E ci prega di aggiungere: «Nonostante tutto l’avventura continua!».

martedì 20 dicembre 2011

La manifestazione di Firenze dopo la strage dei senegalesi, di Antonio Marchi


Caro Roberto,
ho fatto bene ad andare a Firenze alla manifestazione dei "senza patria" in risposta all'assassinio di Diop Mor e Samb Modou e dei tre feriti senegalesi, vittime dell'odio razziale di una classe politica di marca leghista che ha armato la mano dell'assassino. Lo sforzo è stato ripagato da una giornata di incontri, di sguardi, di colori di parole sussurrate e gridate, di una forza imponente che ha dimostrato di essere "padrona" (oltre il suo numero citato dai giornali - 30/35.0000 - e mortificato dalla questura 12/15.000) della piazza e in prospettiva capace di risolvere da sé lo scontro in atto. Una massa in movimento che ha preso coscienza di sé (...).

lunedì 19 dicembre 2011

LA LOTTA AL VISCONTI PALACE HOTEL, di Andrea Furlan


(fotografia tratta da http://www.cinquegiorni.it/news.asp?id=5517  ) 
I lavoratori del Visconti Palace Hotel di Roma continuano la loro lotta contro l'apertura della procedura di terziarizzazione da parte dell'azienda di 26 lavoratori su un totale di 75. Martedì 13 si sono trovati davanti all'azienda e hanno effettuato un presidio con volantini, striscioni  e slogan, per far sentire tutta la  loro rabbia contro la decisione di dare in appalto i reparti facchinaggio, piani, guardaroba.

sabato 17 dicembre 2011

LE LEZIONI DELLA CRISI, di Michele Nobile

(intervento letto al Convegno-dibattito "Dentro la crisi del capitale", organizzato dalla Confederazione Cobas Firenze il 15 dic. 2011  e al quale hanno partecipato anche Guglielmo Carchedi, Domenico Moro e Roberto Massari)

Lezione 1.

Nell’autunno 2008 molti commentatori e politici di sinistra annunziarono la fine del cosiddetto neoliberismo. Si facevano così due errori, tra loro connessi. Il primo errore concerneva proprio la caratterizzazione dell’epoca, la stessa nozione di neoliberismo. Il secondo errore concerneva il rapporto tra crisi economica, sbocchi politici e radicalizzazione sociale.
Ora siamo nella fase in cui governi e padronato intendono effettivamente far pagare alla classe dei salariati i costi della crisi capitalistica e del salvataggio delle banche private. Con l’eccezione parziale della Grecia, questo accade senza che al momento si profili una risposta delle classi dominate europee all’altezza dell’attacco che ad esse viene portato.
La prima lezione è che non esiste alcun nesso meccanico tra crisi, anche crisi grave, e fuoriuscita dalla cosiddetta globalizzazione neoliberista; e non esiste neanche nessun nesso meccanico tra crisi e rilancio della lotta di classe.
Bisogna chiedersi perché.

giovedì 15 dicembre 2011

L'ISLAM «MODERATO»: MA CHE COS'È? (Mondo arabo in rivolta XXVI), di Pier Francesco Zarcone

Il "luogo comune"
In ogni ambito della vita umana il più insidioso, ricorrente e tenace nemico risponde al nome di "luogo comune". Per il fatto di esprimersi con le parole, esso rientra appieno nel famoso ammonimento di Nanni Moretti: «chi parla male, pensa anche male». Infatti il luogo comune fa davvero pensare male, poiché si sovrappone, si sostituisce del tutto alla realtà a cui si riferisce. Quando se ne forma uno, poi sono dolori per chi pretenda di voler vedere le cose in termini più effettivi. Non che il luogo comune impedisca le analisi oggettive, però ne rende i risultati non facilmente assimilabili dagli altri.
Il luogo comune oggetto del nostro esame è quello dell'Islam "moderato", che ormai si è conquistato un posto "indiscusso" nell'ideario dei mass media e – ahimè – dei politici (in buona o mala fede).
Innanzitutto c'è da chiarire a cosa effettivamente ci si riferisca con questa espressione, e capirlo non è difficile se si sgombera il campo dal concetto di Islam in quanto religione. "Moderato" è un aggettivo di relazione, implicante un giudizio di esistenza riguardo a due parti (di uno stesso insieme o di due realtà distinte): la moderata e l'estremista.

È corretto parlare di Islam?
Islam è un concetto astratto, con il quale evidentemente incontrarsi e dialogare è "alquanto arduo", giacché il Corano è qualcosa di statico con cui non si interloquisce. Semmai ci si incontra e si dialoga con le persone, che possono essere moderate o immoderate. Il fatto è che le religioni - in sé e per sé – sono quello che sono, e soltanto in un'ottica comparativa interreligiosa va applicato un giudizio di maggiore o minore rigidità. Prendiamo il fenomeno più affine all'islamismo a motivo della stessa matrice etno-culturale: l'ebraismo biblico. Anch'esso è quel che è; e anche nel suo testo sacro – come del resto nel Corano – è possibile trovare tutto e il contrario di tutto.
In entrambi i casi, però, intervengono le interpretazioni (cioè le persone che le creano o vi aderiscono) a definire storicamente le diverse correnti e/o sfumature teologiche alle quali possono essere attribuiti i giudizi di "estremista" oppure di "moderato". Questo fa sì che anche a livello concettuale nessuna religione sia monolitica. Il che vale anche per l'Islam, a parte magari il periodo della vita del profeta Muhāmmad, giacché dopo c'è stata la frammentazione nelle due sfere fondamentali del Sunnismo e dello Sciismo, a loro volta articolatesi in varie correnti e sottocorrenti, ciascuna con i suoi moderati ed estremisti.
Questo come premessa.

domenica 11 dicembre 2011

DENTRO LA CRISI DEL CAPITALE

Giovedì 15 dicembre

presso il Circolo ARCI la Loggetta V. Aretina 301
Dentro la crisi del capitale 
Convegno-dibattito sulla crisi economica

Partecipano:

Guglielmo Carchedi (Professore di economia all’università di Amsterdam e York):
“Dietro e oltre la crisi” la giusta prospettiva per capire la crisi attraverso la legge della caduta
tendenziale del saggio di profitto – Marx o Keynes.

Domenico Moro (Economista e sociologo - direttivo Associazione Marx XXI):
Le cause del debito europeo il che fare - La linea di Confindustria sul debito pubblico: privatizzazioni –
dietro il debito pubblico bassi salari e delocalizzazioni.

Michele Nobile (Autore di Merce-natura ed ecosocialismo (1993) e Imperialismo. Il volto reale della
globalizzazione (2006); già membro del Comitato direttivo della rivista Giano, redattore di Utopia Rossa):
Oltre la critica del neoliberismo, per un movimento di massa anticapitalistico. I diversi livelli esplicativi,
temporali e geografici della crisi.

Roberto Massari ("editore rivoluzionario"):
Il contesto internazionale, processi in corso in America latina e la loro maggiore o minore ricaduta sul
contesto europeo - "Le insorgenze dall'America latina all'Europa".

Inizio dei lavori ore 18,00
Ore 20,00 – 21,00 pausa buffet
21,00 -23,30 circa, conclusioni
Confederazione Cobas di Firenze

Leggere l'intervento di Michele Nobile

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

venerdì 9 dicembre 2011

RED UTOPIA AND A NEW IDEA OF REVOLUTION, by Roberto Massari

An interview with Roberto Massari by Michele Azzerri

Dear friend and comrade,
this is the English translation of the interview on my idea of revolution made by Michele Azzerri on April 2011. I hope you'll find the time to read it and, if possible, to comment it. It is just an interview (then not a theoretical text) but I consider it a good synthesis of my present approach to the possibility (hope?) of revolution. It has been necessary for me to go through 45 years of revolutionary experiences in various parts of the world and the writing of almost 30 books in order to arrive to such a synthesis: but I know that it might be overcome in the same moment you read it. Luckily that on the ground of principles, the pace of change is not so rapid. So you may still find in it something reasonable. That "reasonable" part can be further discussed and improved. It can be also a mean of political connection between us, provided that you still consider the process of thinking a possible future revolution in the first place as a collective project.
Thanks for giving your attention to it.
Roberto Massari


© Jean Michel Basquiat
To begin with, can you introduce me to Red Utopia - to its national and international profile?
RU is a libertarian political association, which at the moment is comprised of comrades of many origins: Marxists, Libertarian Marxists, Anarchists, Situationists, Trotskyists, Guevarists, Leninists, Feminists, trade unionists, and Christians, if I haven't forgotten anyone.
Everyone is free to maintain his own individual ideology and is not responsible for the ideological positions of the others. We try to operate in a way that allows everyone to learn and understand the positive aspects that come from the various ideological origins. It is therefore a non-ideological association (nor ideologised) in which statutes do not exist, there are no conventions, executive committees, hierarchies, or similar structures. Neither is it obligatory to pay any membership dues. In fact, on closer inspection, there are no obligations whatsoever, apart from respecting the six principles of revolution that we will discuss later on. You are a part of RU because you want to be, at your own pace, without sacrifice, obligations or being made to feel guilty for «non-involvement».
Viewed in comparison with the small political groups, our most unusual characteristic - which was, however, a founding characteristic of the First International until it split - is that we do not have a political programme. Despite the fact that I have personally written many of them during my long life as a militant (as one can read from the collections of my unpublished writings: up to now there are four volumes, dating from the 1960's until 1980; the fifth volume is a work in progress). Leaving aside the controversy with small groups or political factions who utilize the supposed Programme (with a capital P) as a sort of panacea or a tournament of teams, even for more serious organisations adopting a single and obligatory programme is a foolish thing.
In the first place a revolutionary political programme cannot be written once and for all, but it should act as a guide to the course of events and therefore it should be continuously brought up to date in real-time (something that has never happened in history, with the partial exception, however to be discussed, of February-October 1917).
The truth is that the so-called revolutionary Left is continually quarrelling about past written programmes and agendas which are unfailingly left behind by reality. And it is not worth wasting a single word on the texts, often infantile and theoretically unfounded, that small political factions pass off as «Revolutionary Programmes» - they are actually timeless and unrealistic shopping lists.
And also because a political Programme assumes that when there are differences they should cohabit within the same organization and under the same leadership: however, the entire history of Leninism (and of Trotskyist parties) shows that differences can only live together for a short time. There are always majorities that expel the minorities or minorities which sooner or later separate from the majority (which is more or less the same thing): it is only a matter of time.
If all the historical evidence was not enough to prove this, one can recall what happened to the comrades of the old Fmr (the Third International tendency or fraction within the Fourth International of Mandel, Maitan, Frank) when after three years of written and rigorously elaborated criticism of the majority leadership, they were expelled in Italy, Austria, in Portugal and even erased from the history of that organization. The funny and absurd thing is that in relation to the political line of the majority we were right about everything (you can read the almost 600 pages of materials dedicated to this episode material that I have published), even though being right is always relative, tied to a determined context, as well as to a certain accumulation of knowledge.

domenica 4 dicembre 2011

LE ELEZIONI EGIZIANE, di Pier Francesco Zarcone (Mondo arabo in rivolta XXV)

Fatti salvi eventuali futuri sconvogimenti di rilievo, questa è l’ultima corrispondenza sul mondo arabo in rivolta e sulla cosiddetta “primavera araba”. Essa è scritta con innegabile amarezza perché le aspettative erano altre; ma forse si è commesso il non infrequente errore di confondere le minoranze attive con le maggioranze votanti.
Anche in Egitto si è votato e l’evento era attesissimo, trattandosi (sotto tutti i profili) del più importante paese arabo. Questa tornata elettorale è stata solo la prima nel complicato sistema di voto voluto dai militari. Per ora si è votato in solo 9 delle 27 regioni egiziane. Nel gennaio prossimo voteranno le restanti regioni, per la Camera Bassa; poi ci saranno le elezioni per il Senato e infine, a giugno (se tutto va bene) verrà eletto il Presidente della Repubblica (si ricordi che l’Egitto è Repubblica presidenziale). Fino a quest’ultimo evento i militari non sembrano affatto disposti a mettersi da parte; e infatti il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha fatto presente che continuerà a detenere il potere di nomina del governo anche dopo le elezioni politiche e fino all’avvento del nuovo Capo dello Stato eletto. 
Alle elezioni si è presentato un ampio ventaglio di partiti e alleanze, di cui le principali entità sono: l’Alleanza Democratica (ha il principale nucleo nel Partito Libertà e Giustizia, braccio politico della Fratellanza Musulmana, ci sono poi i partiti al-Ghad e al-Karama);l’Alleanza Islamica salafita, fra al-Nur, al-Asala, al-Fadila e il partito Costruzione e Sviluppo; il Blocco Egiziano (al-Kutla al-Masriya), laico, guidato dal copto Samuel Essam, riunisce gruppi liberali e di sinistra (Tagamu, Partito Socialdemocratico Egiziano, al-Masrin al-Ahrar o Egiziani Liberi; il giovane blocco rivoluzionario al-Zaura al-Mustamira; che riunisce gruppi marxisti; al-Kifaya, che fu attivissimo nei moti di piazza; la Associazione Nazionale per il Cambiamento, di orientamento laico e democratico fondata da Mohamed el Baradei; il Movimento 6 Aprile, espressione del mondo giovanile e universitario; la Coalizione della Giovane Rivoluzione, attiva sul piano sociale.
Il risultato della tornata elettorale parziale testè svoltasi non dà adito a giochi interpretativi: la vittoria è del Partito Libertà e Giustizia. Quindi, la Fratellanza Musulmana (oggetto di forti repressioni da parte di Nasser, Sadāt e Mubarāk), sostanzialmente assente nei moti di piazza, dal comportamento ambiguo verso i militari, e oggi probabilmente in combutta con essi, si è rivelata espressione dell’Egitto maggioritario.
I sospetti sul “moderatismo” di questi vincitori sono plausibili ed è meglio riservarsi il beneficio d’inventario. Il quadro però si oscura se si pensa al successo del partito estremista dei Salafiti (al-Nur; la luce!) che ha riscosso un buon pacchetto di voti, tali da fare ottenere – sulla carta, però, e se nella seconda tornata l’esito sarà dello stesso tipo – la maggioranza governativa al fronte islamico che comprende gli estremisti. Ricordiamo che i Salafiti vogliono l’applicazione integrale della legge islamica (e con interpretazioni restrittive), per cui si oppongono all’emancipazione della donna, alla musica, al ballo e chi più ne ha ne metta.
Essendo difficile che le altre regioni egiziane ribaltino il risultato, dobbiamo prendere atto di una schiacciante sconfitta storica dei partiti laici. Ancora una volta, dopo la Tunisia e il Marocco. C’è da scommettere senza rischio che in Libia le cose non andranno diversamente (o forse andranno peggio); ci sarà da piangere quando la stessa sorte toccherà all’Algeria e – per quanto cinico sia, un osservatore non può tacerlo – in Siria dopo la probabile caduta di al-Assad (qui ci saranno ripercussioni a catena dagli esiti difficilmente positivi).

Che manovre si profilano?
Restando all’Egitto, in apparenza si profilerebbe il complicarsi della situazione politica con la contrapposizione fra islamici e militari. Tuttavia questa ipotesi potrebbe non essere realistica, in quanto – al di là della sommatoria fatta a tavolino fra i voti del Partito Libertà e Giustizia e quelli di al-Nur – un fronte islamico unito al momento non esiste affatto. I rapporti fra i predetti due partiti sono pessimi (al-Nur si contrappone alla Fratellanza Musulmana e l’accusa di essersi accordata con i militari); è in ballo il potere e in queste condizioni non pare proprio che la Fratellanza Musulmana sia disposta a spartirlo con al-Nur, e magari correre il rischio che un’alleanza con esso le faccia fare una fine analoga – tanto per intenderci fra italiani – a quella del Psi unito al Pci nel Fronte Popolare.
E poi – non da ultima – una considerazione: i dirigenti della Fratellanza Musulmana sanno bene di avere a portata di mano un’occasione d’oro: legittimarsi di fronte all’Egitto e al mondo come gli adeguati governanti del paese. Imbarcare i Salafiti – e quindi subirne il condizionamento, trattandosi di una fazione per niente malleabile – vorrebbe dire, oltre alla rottura della tregua con i militari o addirittura dell’accordo con essi, portare il paese al disastro economico, innanzi tutto. Vorranno correre questo rischio? Una radicale svolta islamista avrebbe come immediata coseguenza, sul piano economico, il sostanziale azzeramento del turismo, settore fondamentale per le finanze egiziane e per l’enorme massa dei suoi operatori (e relative famiglie) diretti e indiretti (venditori ambulanti inclusi). Finora i dirigenti della Fratellanza hanno assicurato di non voler imporre la sharía e di rispettare il pluralismo politico. D’altro canto il carattere non antislamico dell’ordinamento giuridico egiziano – con la sharía fondamento della legislazione - è già sancito dall’attuale Costituzione.
L’alleanza con i Salafiti equivarrebbe a creare, a partire dalle urne elettorali, un sistema fortemente autoritario, anche sul piano della vita quotidiana: già ci sono elementi salafiti che (come in Tunisia) cominciano a interrompere concerti e riunioni musicali (anche private) per tutelare il bene spirituale dei musulmani. Una tale alleanza potrebbe riaprire la via agli scontri di piazza, alle repressioni e altro.
Il coordinatore del Blocco Egiziano si è dichiarato, a caldo, sicuro che se la Fratellanza Musulmana non rispetterà la linea proposta alle elezioni, andrà al fallimento: auspicio o certezza?
Dal canto loro i vertici delle Forze Armate non si trovano in una situazione agevole: da un lato la Fratellanza Musulmana con la sua imprevista capacità di mobilitazione di una “maggioranza silenziosa”, dall’altro il dominus statunitense, che inevitabilmente si farà sentire, anche se è difficile prevedere come.
Non si può non rilevare che nella “rivoluzione” egiziana si è verificato un moto circolare da vera e propria rivoluzione astronomica in relazione all’Egitto laico. Cioè a dire, politicamente, e con tutta l’anomalia del caso, per gli Egiziani laici le Forze Armate restano l’ombrello di protezione dall’estremismo islamico. Ombrello autoritario però, e con tanti saluti alle speranze di rinnovamento “democratico”.
C’è da chiedersi: ma i milititari ci staranno ancora a svolgere un ruolo del genere? Fermo restando che nessuno ha un magica palla di vetro, si può pensare di sì, per il semplice motivo che altrimenti le loro sfere di potere (economico e non solo politico) saranno implacabilmente erose e occupate dalla famelica e assolutista volontà degli islamisti. Con le conseguenze facilmente intuibili.

Che dire, alla fin fine, nel vedere l’Egitto – il primo paese arabo ad aprirsi alla modernizzazione nel secolo XIX – volgersi agli islamisti? E non solo: in certe circoscrizioni i Salafiti hanno “stracciato” perfino i candidati della Fratellanza Musulmana. In primo luogo “ringraziamo” per questo risultato le conseguenze di tutte le manovre sporche dell’imperialismo, britannico prima e statunitense poi. In secondo luogo, restiamo in attesa di vedere se hanno ragione i mass-media che continuano ad accreditare valido il modello turco di Erdoğan anche per la Fratellanza Musulmana. Il corollario è che nelle società islamiche i laici sono e restano minoranza, che l’orientamento culturale delle masse è ancora radicato in una dimensione che per i laici d’Occidente – quand’anche “credenti” – appartiene al Medio Evo.
Certo è che se il modello turco non si affermerà, allora si dovrà fronteggiare la situazione della crescita vittoriosa degli islamisti in tutto il Nordafrica e delle sue ripercussioni sul Vicino Oriente. Prevedendo anche scenari peggiori, se si dovesse scivolare verso il cosiddetto “scontro di civiltà”, e mettendo in conto disastrosi colpi di testa degli Usa in appoggio a Israele (Stato alieno al contesto di inserimento e oggi senza più alleati nell’area).

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