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lunedì 28 luglio 2025

«LA PROVINCIA» ORLANDO MARTÍNEZ

por Rafael Pineda

(Repubblica Dominicana)


Un día de marzo del 1975, Joaquín Balaguer mandó a llamar a dos generales para pedirles que les dieran un consejo a Orlando Martínez, el aguerrido periodista jefe de redacción de El Nacional, columnista, director de la revista Ahora.                


Los llamados fueron el jefe de Estado Mayor y el secretario en jefe de las Fuerzas Armadas, Enrique Pérez y Pérez, y Ramón Emilio Jiménez (Milo), a quienes preguntó por qué motivo Orlando Martínez escribía contra su gobierno.    


-Los he mandado a llamar, para que me digan qué es lo que le pasa a ese periodista que está hablando mal de mí por el periódico, ¿qué les han hecho ustedes?, ¿qué es lo que él quiere? Averigüen, a ver si me ayudan a recuperar la tranquilidad.


-Deje eso a nuestro cargo, doctor.  


- Hablen con él, porque ese joven me está dando problemas, y a ustedes también, ¿no se han dado cuenta?  


Presentes,  el general Rafael Mejía Lluberes, asistente personal,  y una  hermana  del  jefe de Estado. 


Los dos generales, dispuestos a callar a cualquier precio la pluma de Orlando Martínez, de allí mismo llamaron a otro general, a Salvador Lluberes Montás (Chinino), jefe de la Fuerza Aérea, a quien Milo Jiménez le preguntó:


- ¿Tú tienes algún personal de confianza que pueda ayudarnos a resolver un problema?  

-Sí, general, ¿cuál problema?


-Es que el presidente está muy bravo con el periodista Orlando Martínez y nos ha pedido que busquemos a alguien que lo pueda aconsejar.     


A lo que Chinino, comprendiendo que esto era una orden de arriba, respondió:


-Sí, general, tengo un equipo de acción rápida; cuento con Fredy Lluberes, usted sabe, ese al que les dicen  “Lluberito”;  también tengo al cabo Mariano Durán, tipo de buena puntería; y al capitán Joaquín Pou Castro…sí… sí…ése… es el de más experiencia, y el más duro del equipo.


-Pero adviérteles que lo único que el doctor quiere es que les den un consejo…  ¡oye bien Chinino!


Días después, Orlando cayó asesinado en Santo Domingo.  Y así fue que se escribió la historia de un crimen de estado.

Aunque nunca compareció ante un tribunal, la sociedad apuntó hacia el presidente Balaguer, pero ayer apenas escuché un testimonio de descargo dado por su asistente.   


Balaguer, quien en ese momento era presidente por cuarta vez, no disparó contra Orlando, ni contra ninguna otra persona. ¿Para qué? Él contaba con buenos profesionales que se ocupaban no sólo de ponerle la mejor corbata, sino de lavarle bien las manos y asumir ellos cualquier responsabilidad ante el juicio de la historia. Esto es lo contado por un testigo de excepción.


Lo que el doctor, quizás, estaba pensando en el momento de hacer la solicitud teniendo como testigos a su hermana  y a Rafael Mejía Lluberes quien, antes de morir en un accidente de tránsito, dio este impactante testimonio a través de una entrevista concedida al periodista Fausto Rosario,  publicada en el canal Acento TV, no era en la muerte de Orlando, sino en que les dieran “civilizadamente” unos palos que lo obligaran a irse del país, a recluirse por invalidez o a dejar de escribir sobre las maldades de su gobierno.  Pero los mensajeros actuaron según su condición, y lo mataron.


50 años después,  La Matas de Farfán, donde nació, se ha convertido, simbólicamente, en la Provincia Orlando Martínez.  Allí el monumento más importante es una espectacular representación de su figura,  dándoles la bienvenida a  los visitantes.


De Balaguer podrán decir que fue un ser mitológico,  que gobernó rodeado de militares vinculados a miles de crímenes, que la Máximo Gómez 25 era su laberinto, que rezaba y  hacía obras caritativas entre  pobladores hambrientos;  regalaba muñecas y bicicletas a niños que lo que necesitaban era educación,  y le hacía concesiones a jerarcas de las sombras; pero nunca que apretara el gatillo para matar a nadie. Menos a un periodista.  


El autor es poeta.

rafaelpinedasanjuanero@gmail.com




Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

domenica 13 luglio 2025

CHE GUEVARA A GAZA

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH - ESPANOL


Un membro brasiliano del comitato scientifico della Fondazione Guevara - acceso sostenitore di Putin e di Hamas - ha messo in Rete quattro articoli apparsi in vari siti che traggono alimento dalla foto che vedete sotto e che rappresenta il Che in visita a Gaza il 18 giugno 1959.

Tre articoli sono scritti da persone col nome arabo e inneggiano non solo al significato che quella visita avrebbe avuto per il popolo palestinese, ma attribuiscono a Guevara pensieri e possibili dichiarazioni consone con le posizioni che il Che, Castro e Cuba avranno effettivamente, soprattutto dopo la fondazione dell’OLP nel maggio 1964.

Quello che nessuno dei 3 articoli dice, tuttavia, è che a giugno del 1959 il Che non avrebbe potuto accennare nemmeno di sfuggita al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese-gazawi o a una sua indipendenza, perché a quell’epoca Gaza era una colonia dell’Egitto. Sì, proprio una colonia, occupata militarmente nel 1948 e che l’Egitto (anche dopo l’avvento di Nasser) aveva rifiutato di annettere, cioè di farla diventare parte del proprio Stato. Resterà sua colonia fino alla Guerra dei sei giorni (1967), quando diventerà una colonia israeliana, fino all’indipendenza del 2005, per la prima e ormai ultima volta nella storia del popolo gazawi.

(Per inciso: volesse Allah che ci fosse stata l'annessione! oggi Gaza sarebbe nuovamente una regione egiziana - l’ultima volta lo era stata sotto la celebre regina Cleopatra - che vivrebbe né male né bene e riconoscerebbe lo Stato d’Israele attraverso le scelte del governo egiziano, non sarebbe nato Hamas, l’Iran avrebbe avuto una postazione antisraeliana in meno e non sarebbero morte decine di migliaia di gazawi, oltre alle vittime del terribile pogrom.)

Dopo il 1948 l’Egitto aveva creato a Gaza un Protettorato e un Governo Pan-Palestinese, vòlto soprattutto a controbilanciare l’espansionismo della monarchia della Transgiordania, che già si stava impadronendo del West Bank.

Ebbene, a giugno del 1959 (non riesco a trovare se fu prima o dopo la visita del Che, fu comunque lo stesso mese), essendosi nel frattempo sciolto il Protettorato - assorbito nella neonata RAU (Repubblica Araba Unita) - Gaza fu messa sotto l’Amministrazione militare egiziana, con gestione amministrativa affidata all’esercito egiziano. Il Che, quindi, stava visitando una colonia dell’Egitto occupata militarmente, della quale non poteva certo chiedere l’indipendenza (ammesso che fosse giusto farlo…).

Come conoscitore del Che e di quel suo primo viaggio diplomatico all’estero, posso aggiungere che gli erano stati affidati soprattutto compiti di apertura di relazioni commerciali (vendita dello zucchero) e di riconoscimento del nuovo governo cubano, al potere da soli sei mesi. Insomma, non stava tessendo reti per future attività rivoluzionarie, come invece farà in viaggi successivi, soprattutto in quello afroasiatico del 1964-65.

Il quarto articolo messo in Rete con precisi intenti antisraeliani mi ha lasciato perplesso e temo che il brasiliano non lo abbia letto. Anzi, non si è nemmeno reso conto che uno che si chiama Yoav di-Capua, con un cognome molto diffuso tra gli ebrei romani, non può che essere di famiglia o discendenza ebraica. Si tratta in effetti di uno studioso di arabistica, docente presso una università del Texas, il quale - attratto da questo episodio nella vita del Che - ha voluto approfondire l’argomento.

Dopo aver verificato che nulla si trova negli archivi israeliani ed egiziani, di-Capua ha esaminato la stampa dell’epoca scoprendo con stupore che la visita del Che era stata pressoché ignorata dalle autorità egiziane, che c’era stata una sua visita a campi profughi e che alla cena ufficiale - fatta con la delegazione brasiliana presso l’Onu - non aveva partecipato neanche un feddayn. Insomma, quella visita di protocollo era stata passata quasi sotto silenzio, anche perché Guevara tutto sommato era ancora un illustre sconosciuto e agli egiziani tutto interessava meno che essere associati alla Rivoluzione cubana. Anche la foto che si vede sotto non è mai apparsa ufficialmente, pur essendo tutto ciò che ci resta di quella «storica» visita in cui il Che avrebbe inalberato a Gaza la bandiera della resistenza palestinese.


Frugando in questi materiali apologetici sul versante palestinese, mi sono imbattutto in una cosa che avrei dovuto prevedere, ma che ora vi comunico ufficialmente.

Come la storiografia araba fa partire la Nabka da una presunta aggressione israeliana avvenuta a maggio del 1948 (tacendo il fatto che questa fu una risposta all’aggressione della Lega araba), così la crisi attuale di Gaza viene fatta cominciare dal 9 ottobre, definito esplicitamente come giorno dell’aggressione israeliana. In un articolo ho trovato che questa fu la reazione sionista «all’azione militare di sorpresa» fatta da combattenti di Hamas. Vi prego di soffermarvi sul «militare» mentre il pensiero va a quelle centinaia di poveri giovani che stavano festeggiando un rave, senza immaginare cosa il destino avesse in riserbo per loro. D’ora in avanti, quindi, nei libri di storia filo-Hamas (il che per fortuna non vuol più dire l’intero mondo arabo e forse nemmeno una sua minima parte) la crisi di Gaza verrà fatta iniziare il 9 e non il 7 ottobre.

Concludo infine dicendovi che all’inizio della crisi di Gaza, un compagno romano mi disse polemicamente che oggi il Che starebbe a Gaza a combattere al fianco di Hamas: evidentemente tutto ciò che per anni ho scritto e pubblicato sull’«umanismo rivoluzionario» del Che sembra non esser servito a niente. Quello stesso Guevara, che in «Guerra di guerriglia un metodo», aveva apertamente respinto il terrorismo come forma di lotta, oggi correrebbe dietro a degli ebrei adolescenti, maschi e femmine, per sgozzarli, squartarli e farsi dei selfie mentre compie una tale gloriosa azione...

Povero Che e poveri gli ideali per i quali si è battuto, e che ha riassunto nel suo testamento teorico: Il socialismo e l’uomo a Cuba.



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