Il significato storico e odierno della sua celebrazione secondo il Comitato Popolare Sangiulianese per la Palestina
di Andrea Vento*
Il 15 maggio è una ricorrenza di fondamentale importanza per i palestinesi. È il giorno in cui celebrano la Nakba, ovvero la 'catastrofe': tramite questa giornata viene mantenuto vivo il ricordo della cacciata dalle proprie abitazioni di centinaia di migliaia di persone e la mancata fondazione di un proprio Stato autonomo. La data scelta per questa ricorrenza ha un elevato significato simbolico: il 15 maggio 1948 segna, infatti, l'inizio della prima guerra arabo-israeliana, che si concluderà all'inizio del 1949 con la vittoria del neo costituito Stato d'Israele. È anche l'inizio delle lunghe traversie del popolo palestinese che, in oltre 70 anni, hanno portato alla drammatica situazione attuale caratterizzata da violazioni sistematiche dei diritti umani e delle risoluzioni delle Nazioni Unite, da un regime di occupazione militare particolarmente opprimente, da continui espropri e dalla colonizzazione abusiva delle terre, da espulsioni individuali e di massa che, nel corso dei decenni, hanno prodotto una quantità tale di profughi che, ad oggi, metà del popolo palestinese vive al di fuori dei cosiddetti "Territori occupati", acquisendo il poco invidiabile status di "popolo della diaspora". La celebrazione della Nakba, col passare del tempo, ha assunto pertanto un valore più ampio: se da un lato essa rappresenta il giorno dell'identità nazionale palestinese, dall'altro cerca di mantenere viva l'attenzione internazionale sulla negazione dei diritti, in primisquello all'autodeterminazione, di un popolo e alle insostenibili condizioni di vita cui esso è stato costretto.
Se, per un verso, la Nakba è un evento che unisce l'intero popolo palestinese, dall'altro esso costituisce un elemento di forte contrapposizione all'interno dello stato di Israele e della comunità ebraica in generale. La controversia ha iniziato ad emergere a seguito delle ricerche documentali effettuate, a partire dagli anni '80, dalla corrente dei cosiddetti "Nuovi storici" israeliani. Obiettivo di questi ricercatori era quello di accertare quanto avvenuto in Palestina nel decennio 1940/50, con lo scopo dichiarato di mettere in discussione la versione "ufficiale" dei fatti e fare emergere l'effettiva realtà degli eventi che avevano portato alla partizione della Palestina, alla fondazione dello Stato di Israele e all'espulsione di massa di quasi 800.00 palestinesi dalle proprie terre.
In questo quadro, particolare rilevanza scientifica ha assunto l'opera di Ilan Pappe, leader di questa corrente storiografica, che ha effettuato approfondite ricerche storiche sul problema dei profughi legato alla nascita dello Stato di Israele. Le sue ricerche sono sostenute dall'intento, l'autore prerogativa essenziale in una società realmente democratica, di formare l'opinione pubblica e le giovani generazioni sulla base di una narrazione veritiera del processo fondativo di Israele: solo in questo modo i suoi concittadini possono comprendere e padroneggiare il proprio passato e, su questa base, costituire con senso critico la propria coscienza personale e collettiva, affrancandosi dalla versione propagandistica del movimento sionista elevata a verità storica nazionale e, come tale, fedelmente riportata nei libri di storia e nei testi scolastici.
Secondo la versione ufficiale israeliana le Nazioni Unite avevano deliberato, tramite la Risoluzione 181 del 29 novembre 1947, la partizione della regione in due stati, che sarebbe entrata in vigore alla scadenza del Mandato britannico sulla Palestina Storica (Israele e Territori palestinesi occupati) (figura 1). Mentre il movimento sionista si era dichiarato favorevole al progetto, il mondo arabo e i palestinesi si opposero, per cui il giorno dopo la fondazione dello stato di Israele, proclamato alla mezzanotte del 14 maggio del 1948, gli stati arabi entrarono in guerra contro il neonato Stato ebraico e convinsero i palestinesi ad abbandonare le proprie case per facilitare le manovre degli eserciti arabi, nonostante gli appelli dei leaders ebrei a rimanere. La tragedia dei profughi palestinesi, secondo questa versione, non sarebbe dunque imputabile a Israele – che grazie alla guerra del 1948/49 estese di un altro 30% il suo territorio rispetto a quanto previsto dalla Risoluzione Onu (figura 2) – ma agli arabi stessi, nonostante a quella data 250.000 palestinesi fossero già stati espulsi. I "new historians" israeliani hanno sempre contestato questa versione e, dopo lunghi e approfonditi studi, compiuti sulla documentazione ufficiale del movimento sionista e sugli archivi militari israeliani desecretati nel 1998, giunsero a una ricostruzione storiografica in netto contrasto con quella ufficiale.
Figura 1: Il piano di partizione della Palestina in base alla Risoluzione 181 dell'ONU
Figura 2: I territori conquistati da Israele con la Guerra del 1948/49
Fin dagli anni '30 i vertici del movimento sionista, sotto la guida di Ben Gurion, futuro fondatore di Israele, avevano programmato un piano di pulizia etnica della Palestina. Questa tesi ha, evidentemente, gravi implicazioni morali e politiche, in quanto definire in questi termini ciò che Israele ha attuato nel 1948 significa accusare la sua leadership di un crimine perpetrato consapevolmente. Nello specifico, un crimine contro l'umanità, nel linguaggio giuridico internazionale. Tuttavia, la finalità dell'opera di Ilan Pappe, che ha raccolto e pubblicato i frutti della propria ricerca storica nel libro La pulizia etnica della Palestina, non era quella di incriminare i responsabili quanto quella di indurre i propri connazionali e l'opinione pubblica mondiale ad ammettere questo "peccato originale" della fondazione di Israele come precondizione per l'avvio di un equo processo di pace fra israeliani e palestinesi. L'opera di Pappe ha però incontrato la netta opposizione dei vertici politici, di gran parte della società e del modo accademico del proprio Paese, fino a costringerlo a lasciare l'Università di Haifa, e trasferirsi nel Regno Unito per insegnare all'Università di Exeter e da lì continuare la sua battaglia per affermare la verità sulla nascita dello Stato di Israele e sulla genesi del problema, tuttora aperto, dei profughi palestinesi. La sua ricostruzione storiografica continua ad essere fermamente negata ancora oggi dai governi e dai media israeliani, evidentemente impregnati dell'ideologia sionista e ostaggi del movimento dei coloni.
La rigorosa ricerca storica di Pappe ha dimostrato in modo difficilmente confutabile, sulla base dei documenti del movimento sionista stesso, come le prime azioni ai danni dei palestinesi siano iniziate sin dal dicembre del 1947, all'indomani della Risoluzione n. 181 delle Nazioni Unite, e siano state intensificate a partire dal 10 marzo successivo, allorché venne approvata, nella Casa Rossa di Tel Aviv, sede della leadership sionista, la quarta versione del "Piano Dalet" contenente i dettagli dei metodi da utilizzare per la sistematica espulsione dei palestinesi dal territorio assegnato dall'Onu al futuro stato di Israele (figura 3). Il Piano Dalet come afferma lo stesso Pappe "era il prodotto inevitabile della determinazione ideologica sionista ad avere una esclusiva presenza ebraica in Palestina"e occorsero "6 mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta più della metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone era stata sradicata, 531 villaggi e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti". A questa prima ondata di profughi si sarebbe poi aggiunta quella seguita alla Guerra dei 6 giorni, del 1967, a seguito della quale Israele ha ulteriormente esteso il proprio controllo militare ai residui Territori Palestinesi (figura 4).
Figura 3: I villaggi palestinesi distrutti nel 1948
Figura 4: I territori conquistati da Israele con la “Guerra dei 6 giorni” del 1967
Secondo l'impostazione della ricerca di Pappe, le due narrazioni storiche ufficiali – quella israeliana e quella palestinese – seppur in contrapposizione su quanto avvenne in Palestina nel 1948 ignorano entrambe il concetto di pulizia etnica: "da un lato la versione sionista-israeliana sostiene che la popolazione se andò 'volontariamente', dall'altro i palestinesi parlano di una 'catastrofe' che li colpì, Nakba, un termine che in qualche modo si riferisce al disastro in sé e non tanto a chi o a che cosa lo ha provocato. Il termine Nakba fu adottato, per comprensibili ragioni, come tentativo di controbilanciare il peso morale dell'Olocausto ebraico, ma l'aver trascurato i protagonisti può in un certo senso aver contribuito a perpetuare la negazione da parte del mondo della pulizia etnica della Palestina nel 1948 e successivamente".Un limite di prospettiva che tuttavia non cancella il significato che questa giornata rappresenta per il popolo palestinese, vittima di errori propri ma, soprattutto, di un contesto geopolitico internazionale che, soprattutto negli ultimi anni, ha ignorato le violazioni sistematiche del diritto internazionale compiute da Israele e avallato, al di là dei proclami e dell'appoggio ad un equivoco “Processo di pace”, la strategia israeliana di guadagnare tempo a vantaggio dell'inesorabile attuazione dell'originario progetto di esproprio e colonizzazione delle terre palestinesi (figura 5) e di totale ebraizzazione di Gerusalemme (figura 6).
Figura 5: Le tappe della colonizzazione israeliana della Palestina
Figura 6: Il processo di ebraizzazione di Gerusalemme Est
Ricordare la Nakba oggi, a 74 anni di distanza, significa mantenere viva l'attenzione sui diritti negati del popolo palestinese, al fine di indurre l'opinione pubblica internazionale a prenderne realmente coscienza e ad esercitare pressioni sui propri governi affinché, si giunga finalmente a un loro definitivo riconoscimento. Inclusa la questione dei profughi (figura 7), del loro diritto al ritorno e al risarcimento per i gravi danni subiti per le proprietà confiscate. A queste problematiche di carattere storico, i gravi accadimenti di questi ultimi giorni ci impongono di aggiungere alla giornata odierna, di ricorrenza e di lotta, richiesta di verità e giustizia per la giornalista palestinese Shireen Abu Aqlehbarbaramente uccisa a sangue freddo, martedì 11 maggio, dalle forze militari israeliane mentre documentava la loro incursione nel campo profughi di Jenin. Un intenzionale omicidio che non deve restare impunito. Palestinian lives matter, le vite dei palestinesi contano, e non solo quelle ucraine, come la narrazione mediatica main stream ci ricorda, fino all'ossessione, ogni giorno. Terra, diritti e libertà per il popolo palestinese.
Figura 7: I campi profughi palestinesi nel 1983
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