di Michele Nobile
1. Innanzitutto: fuori le truppe russe dall’Ucraina!
2. O si ammettono le guerre preventive imperiali e i poteri selvaggi o si guarda al diritto internazionale (come minimo)
3. Lenin: per il diritto di autodecisione dell’Ucraina, contro il nazionalismo imperiale grande-russo
4. Contro tutti gli imperialismi e il «campismo» della sinistra reazionaria
5. Le ragioni della guerra di Putin: consolidare il regime intorno al nazionalismo grande-russo e alla sfera d’influenza imperialistica eurasiatica
1. Innanzitutto: fuori le truppe russe dall’Ucraina!
Il sentimento di empatia per l’umana sofferenza è quanto basta per suscitare orrore nei confronti delle guerre e per questa guerra voluta da chi è a capo della Russia. Lo vediamo nella solidarietà spontanea popolare di questi giorni, nelle donazioni di medicinali e vestiti anche più che nelle manifestazioni. È cosa ben diversa dalla ragion di Stato, per ogni Stato diversa negli interessi particolari che persegue ma eguale nella sostanza antidemocratica e antipopolare. E c’è l’indignazione per il fatto che una grande potenza, armata fino ai denti e dotata di armi nucleari, a freddo stia aggredendo un popolo. Un popolo, prima di uno Stato. Perché quel che è in gioco in questa guerra è la libertà degli ucraini di decidere del loro futuro, giuste o sbagliate che siano le loro scelte. È per questo che deve tornare la pace, ma occorre anche chiedersi di come vi si possa giungere, a quali condizioni, in cosa consista.
Chi scrive è da mezzo secolo convinto della necessità che l’Italia esca dalla Nato. Conosco le nefandezze dell’imperialismo e so che la Nato ne è uno strumento. Aggiungo, che considero l’esistenza degli arsenali nucleari un attentato all’esistenza dell’umanità e che, quale che siano i colori delle loro bandiere e le loro ideologie, tutti gli Stati che le producono e le ospitano - senza eccezioni - commettono un crimine contro l’umanità. In un momento in cui la tensione internazionale è altissima e si sentono larvate minacce d’uso dell’arma nucleare, penso sia importante che i movimenti antimilitaristi si battano ovunque per allontanare le testate nucleari dal proprio Paese, senza attendere i risultati delle conferenze e degli accordi tra Stati Uniti e Russia. Lo slogan del disarmo nucleare unilaterale dovrebbe comparire in cima a qualsiasi rivendicazione riguardo all’ambiente, al clima ecc.
E quindi, esattamente per lo stesso motivo per cui ritengo giusto rivendicare che l’Italia esca dalla NATO, sostengo la resistenza all’aggressione putiniana con tutti i mezzi che gli ucraini hanno a loro disposizione. L’opposizione alla NATO ha l’identico senso della solidarietà con la resistenza ucraina: il rifiuto dell’imprigionamento di un popolo nella sfera d’influenza d’una grande potenza imperiale. Quel che valeva per il Vietnam o il Nicaragua o Grenada o Panama e tanti altri casi in cui l’aggressore era l’imperialismo statunitense vale anche per l’Ucraina, aggredita dall’imperialismo russo.
Non basta dire né con la Russia né con la NATO. Nella formula sono presenti le superpotenze ma non il soggetto più importante: gli ucraini e la loro resistenza. Bisogna dire chiaramente che, nonostante la sproporzione materiale delle forze in campo, essi fanno bene a resistere all’aggressione perché, se non lo facessero, allora il resto del mondo si sentirebbe autorizzato a disinteressarsi della loro sorte. Diventerebbero ostaggi nelle mani dell’imperialismo russo e merce di scambio tra le potenze. Fanno bene a resistere perché la pace richiede che la Russia si ritiri subito dall’Ucraina. La pace richiede che il debito estero dell’Ucraina sia cancellato e che l’aggressore compensi i danni della guerra.
A maggior ragione, coloro che considerano la guerra una «comprensibile» reazione russa all’espansione della NATO verso Est si pongono in una posizione politicamente e moralmente incoerente. Non si può rivendicare l’uscita dalla NATO dal proprio Paese ma «comprendere» l’invasione di un altro perché le grandi potenze non si accordano tra loro. Così si dimostra di non capire che la ragione dell’attacco all’Ucraina risiede nel carattere imperialistico del regime e del capitalismo russo. Si dimostra d’avere la mentalità di un Metternich o di un Bismarck, di pensare che il mondo debba essere governato dall’equilibrio tra le potenze e da esse spartito in aree d’influenza.
2. O si ammettono le guerre preventive imperiali e i poteri selvaggi o si guarda al diritto internazionale (come minimo)
Che la politica mondiale sia nei fatti più simile a una jungla che a una società civile è la scoperta dell’acqua calda. Nondimeno, esistono regole, trattati, accordi, princìpi di civiltà che possono esser fatti valere e che costituiscono un criterio per giudicare i comportamenti degli Stati.
Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, l’Ucraina era la terza potenza nucleare del mondo: si trovava in possesso di 176 missili balistici intercontinentali, ciascuno capace di portare 10 testate nucleari, di 42 bombardieri nucleari, di mine nucleari, per un totale di circa 1900 testate strategiche e oltre 2000 tattiche. Certo, i codici di lancio restavano a Mosca, le testate ponevano problemi di sicurezza ed economici. Gli Stati Uniti fecero pressione perché questo ricco arsenale per la distruzione di massa venisse smantellato, finanziando l’operazione. Nel 1992 tutte le testate tattiche erano state trasferite e smontate in Russia, ma il governo ucraino era restio a cedere quelle strategiche, perché riteneva che i finanziamenti statunitensi non fossero equamente ripartiti tra i due Paesi e anche perché in Russia crescevano le pretese nazionaliste su territori ucraini. Due anni dopo, il 5 dicembre 1994, Ucraina, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti, cui si aggiunsero Francia e Cina, firmarono il Memorandum di Budapest, dando garanzie di sicurezza all’Ucraina in cambio della sua adesione al Trattato di non-proliferazione nucleare. È in seguito a questo accordo che le restanti testate nucleari vennero trasferite alla Russia.
In questo Memorandum le potenze si obbligarono:
«1. (...) A rispettare l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina e gli attuali confini dell’Ucraina».
«2. (...) Ad astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dell’Ucraina, e che nessuna delle loro armi sarà mai usata contro l’Ucraina eccetto che per autodifesa o altrimenti in accordo con la Carta delle Nazioni Unite».
«3. (...) Ad astenersi dall’esercitare la coercizione economica con l’intento di subordinare ai propri interessi l’esercizio da parte dell’Ucraina dei diritti inerenti alla sua sovranità e quindi assicurarsi vantaggi di qualsiasi tipo».
Nel quarto punto i firmatari si impegnavano a convocare il Consiglio di sicurezza dell’Onu nel caso l’Ucraina fosse «vittima di un atto d’aggressione o oggetto di una minaccia d’aggressione in cui sono usate armi nucleari» e nel quinto a non utilizzare armi nucleari nei confronti di uno Stato non-nucleare, eccetto che in caso d’attacco di tale Stato in alleanza con uno Stato nucleare¹.
Questo Memorandum è un documento che impegna la Russia ad offrire precise garanzie all’Ucraina in cambio, a sua volta, della rinuncia da parte dell’Ucraina ad armi nucleari strategiche, che allora erano già in suo possesso, e all’adesione al Trattato di non proliferazione nucleare.
Il terzo punto del memorandum si può dire violato dall’interruzione delle forniture di gas all’Ucraina - e ad altri Paesi europei - messe in atto dalla Russia, ad esempio nel 2006, chiaramente in relazione alla «rivoluzione arancione» che contestò i risultati delle elezioni presidenziali favorevoli a Viktor Janukovyč, l’esponente dell’oligarchia del Donbas apertamente sostenuto da Putin e dai media russi; e di nuovo nel 2009. Il memorandum fu anche clamorosamente contraddetto dall’annessione della Crimea nel 2014 e dal sostegno, diretto e indiretto, alla secessione delle province di Doneck e Lugansk; ed è ovviamente stracciato dall’invasione del 2022. Per gli stessi motivi, con le azioni del 2014 la Russia violò il Trattato di amicizia, cooperazione partnerariato firmato dai Presidenti di Russia ed Ucraina nel 1997, terminato dall’Ucraina nel 2018.
È ridicolo pensare che l’Ucraina abbia mai avuto motivi, capacità e volontà di minacciare militarmente o economicamente l’integrità territoriale della Russia. Semmai è vero l’inverso, a causa del nazionalismo imperiale e annessionista russo, fin dagli anni Novanta del secolo scorso agitato da politici e intellettuali a proposito della Crimea e del Donbas; della dipendenza dell’Ucraina dal gas esportato dalla Russia; della base navale di Sebastopoli il cui utilizzo l’Ucraina ha più volte confermato alla Russia, l’ultima nel 2010 fino al 2042. L’Ucraina non è neanche membro della Nato che, non senza ipocrisia, si definisce organizzazione difensiva.
Putin ha invocato l’art. 51 della carta delle Nazioni Unite circa «il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite», ma la guerra di Putin non è reazione a un attacco armato. È vero che l’art. 51 può essere interpretato in modo che consenta l’attacco preventivo per autodifesa, tanto che «a questi argomenti, e alla difesa preventiva, hanno fatto ricorso Israele nel 1967 (contro l’Egitto), nel 1975 (contro il Libano) e nel 1981 (nel caso dell’attacco contro il reattore nucleare vicino Baghdad), e l’Irak nel 1980, per giustificare il suo attacco contro l’Iran»².
Il dibattito riguardo a questa interpretazione ampia dell’art. 51 fu rilanciato dalle guerre dell’amministrazione Bush. Nella National Security Strategy of the United States of America del 2002 si leggeva infatti
che «dobbiamo adattare il concetto di minaccia imminente alle capacità e agli obiettivi degli avversari di oggi» e
«Dobbiamo essere preparati a fermare gli Stati canaglia e i loro clienti terroristi prima che siano in grado di minacciare o usare armi di distruzione di massa contro gli Stati Uniti e i nostri alleati e amici»; «maggiore la minaccia, maggiore è il rischio dell’inazione e più convincente è il caso per intraprendere un’azione anticipatoria (anticipatory action) per difenderci, anche se permane l’incertezza riguardo al tempo e al luogo dell'attacco nemico. Per impedire o prevenire tali atti ostili da parte dei nostri avversari, gli Stati Uniti, se necessario, agiranno preventivamente (act preemptively)»³.
La questione cruciale è la distinzione tra prevention e preemption nell’uso della forza militare⁴. Un attacco preemptive anticipa l’attacco imminente di un nemico, come si può desumere dal dispiegamento delle sue forze; un attacco preventive ha invece l’obiettivo d’impedire che in un futuro indeterminato possa emergere la minaccia di un attacco. Per gli Stati Uniti si pongono le questioni dell’estensione geografica e degli obiettivi per cui è autorizzato l’uso della forza, e della durata dell’autorizzazione del Congresso, ma qui si parla dell’attacco russo all’Ucraina nel 2022 non di quello statunitense all’Iraq nel 2003 o dell’utilizzo dei droni per colpire presunti terroristi.
Ciò che differenzia i due concetti è dunque l’orizzonte temporale della minaccia. Direi che l’azione preemptive si possa paragonare al colpo d’incontro del pugilato, ma di quelli veramente molto veloci. Perché la preemption sia legittima non devono esistere alternative di risoluzione pacifica della contesa; l’attacco deve essere imminente e la risposta commisurata ad esso.
S’intende che nella realtà inter-statale si può giustificare un’aggressione creando artificiosamente la percezione di un attacco imminente. Nondimeno, la distinzione concettuale esiste. Su questa base l’attacco russo all’Ucraina non ha nulla della preemption ed è chiaramente in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite. Se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non fosse l’organo oligarchico che è, in cui cinque potenze tra cui la Russia hanno potere di veto, esso sarebbe legittimato ad infliggere sanzioni non militari alla Russia, come previsto dall’art. 41 della Carta dell’ONU, ed eventualmente il Consiglio potrebbe «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale» ai sensi dell’art. 42.
Intanto, con 141 voti a favore, 5 voti contrari (Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Russia, Siria) e 35 astenuti l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato il 2 marzo una risoluzione che impone alla Russia «di ritirare immediatamente, completamente e senza condizioni tutte le sue forze militari dal territorio dell’Ucraina entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti». E gli attacchi delle forze russe contro obiettivi civili possono e devono essere considerati crimini di guerra da sottoporre a giudizio della Corte penale internazionale. Questo è quanto ci dice il diritto internazionale, se non si vuol lasciare il mondo in preda a poteri selvaggi scatenati.
Dunque, quali sono le conseguenze del prendere per buona la narrazione di Putin, secondo cui l’attacco all’Ucraina sarebbe reazione dall’espansione verso Est della Nato?
È semplice: si legittimano - presumo senza rendersene conto - le guerre di Bush jr. nel XXI secolo, le guerre dette «a bassa intensità» dell’amministrazione Reagan nell’America centrale e Caraibica degli anni Ottanta (a «bassa intensità» per gli Stati Uniti, non per chi le subiva), nonché molte altre nefandezze conseguenti dal «contenimento del comunismo». E sì, perché se questa guerra preventiva è in qualche modo «comprensibile», allora appariranno giuste anche le guerre preventive dell’imperialismo occidentale. Quindi, secondo i propri gusti, a ciascun imperialismo le sue buone ragioni, affermate però sempre sulla pelle dei popoli.
3. Lenin: per il diritto di autodecisione dell’Ucraina, contro il nazionalismo imperiale grande-russo
Non è mia consuetudine scrivere del presente facendo ricorso a citazioni di «classici». Tuttavia questa volta ho sentito che sarebbe stato utile scomodare Lenin, per le ragioni che ordino in senso di decrescente importanza.
In primo luogo perché Lenin era russo ma fierissimo nemico dell’imperialismo zarista e del nazionalismo grande-russo, che oggi rivivono nella Russia putiniana e si esprimono apertamente nella guerra in corso. Comprendere perché Lenin considerasse imprescindibile il diritto di separazione statuale dei popoli oppressi dall’imperialismo russo - ed anche dall’Unione Sovietica⁵ - fornisce spunti di riflessione per fondare saldamente una prospettiva di convivenza pacifica tra i popoli nelle e tra le Repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. La lezione politica che si trae da Lenin è che i popoli debbano abbattere le dittature e le oligarchie capitalistiche che oggi dominano in quei Paesi, per cui il nazionalismo è tanto un mito per costruire consenso quanto uno strumento d’oppressione. La lezione di metodo è che occorre comprendere i nessi tra la struttura interna del potere nei singoli Paesi e le relazioni che legano gli interessi delle loro oligarchie a quella della Russia. Significa comprendere il ruolo internazionale che Putin vuole costruire per la Russia, che nella sua più recente versione eurasiatica ricorda quello ottocentesco dell’Impero zarista quale gendarme dei regimi reazionari europei. In breve, l’approccio leniniano alla questione nazionale combinava la solidarietà transnazionale tra i lavoratori e le lavoratrici del mondo, uniti nella comune lotta al capitalismo; e il diritto dei popoli oppressi all’autodecisione politica, ovvero a lottare contro il colonialismo e la spartizione del mondo in sfere d’influenza tra le grandi potenze imperiali e i rispettivi capitalismi.
In secondo luogo, è stato lo stesso Putin a indirizzarmi verso Lenin. Nel lungo discorso del 21 febbraio 2022 egli ha dato al mondo una lezione di storia russa al cui centro è la negazione del diritto di autodecisione politica delle nazioni della ex Unione Sovietica, diritto da lui considerato un madornale errore bolscevico. Si badi al fatto che Putin non si è limitato a dire: «Allora, inizierò con il fatto che l’Ucraina moderna è stata interamente e completamente creata dalla Russia, più precisamente, dai bolscevichi, dalla Russia comunista». No, ha detto anche:
«Inoltre, infatti, a queste unità amministrative è stato conferito lo status e la forma di enti statali nazionali. Ciò solleva un’altra domanda: Ancora una volta mi chiedo: perché fu necessario fare regali così generosi, oltre i sogni più sfrenati dei più zelanti nazionalisti e, oltre a tutto ciò, dare alle Repubbliche il diritto di separarsi dallo stato unitario senza alcuna condizione?»⁶.
Quelle che Putin considera «unità amministrative» dell’Impero zarista divennero Repubbliche nazionali dopo la Rivoluzione russa; ed egli dimentica le nazionalità oppresse dallo zarismo che diedero vita a Stati indipendenti. Alla sua domanda retorica segue la sua risposta:
«Dal punto di vista del destino storico della Russia e dei suoi popoli, i princìpi leninisti della costruzione dello Stato non furono solo un errore; furono molto peggio di un errore, come dice il proverbio. Questo è diventato assolutamente ovvio dopo il crollo dell’URSS nel 1991.
Ovviamente non possiamo cambiare gli eventi del passato, ma dobbiamo almeno ammetterli apertamente e sinceramente, senza riserve e giochi politici interessati».
Nel complesso questo è un discorso da nazionalista grande-russo nostalgico dell’Impero zarista che ammette, ahimè, di non poter far tornare indietro la storia, che significherebbe cancellare le attuali Repubbliche indipendenti post-sovietiche, ma... ma per Putin qualcosa si può ben fare. Innanzitutto estirpando «il virus del nazionalismo che è ancora con noi», cioè per Putin i non-russi in Russia, perché invece il nazionalismo russo va promosso. E poi, costruendo l’alternativa di civiltà euroasiatica, al cui centro sono la Russia, la cultura russa e, quindi, i russi fuori della Russia. Che, se necessario, vanno protetti.
Lungi dall’essere un tentativo di blandire l’opposizione «occidentale» assumendo una posizione antibolscevica, come con grande ingenuità è stato scritto, il punto è di cruciale importanza per farsi un’idea degli obiettivi di guerra putiniani e della visione geopolitica che essi comportano. Invito a leggere le traduzioni dei discorsi di Putin. Questi sono zeppi di falsificazioni, omissioni e mistificazioni tipici della politica e della storiografia imperiale grande-russa, sia zarista sia stalinista. Purtroppo, chi ha solo una conoscenza superficiale della storia medievale e moderna russa, ucraina e polacca non si rende ben conto di quanto queste siano enormi. In un altro articolo farò qualche esempio di come la rilevanza della storia per il presente muova in senso opposto a quello predicato dal Presidente russo.
In terzo luogo, ricordo Lenin perché la cultura politica è caduta terribilmente in basso, anche quella di chi si dice marxista e magari pure leninista, al punto che non pochi di questi ultimi non si rendono conto che la giustificazione dell’aggressione all’Ucraina, anche parziale, o l’equidistanza tra aggressore e aggredito, contraddicono apertamente alcuni princìpi politici fondamentali del celebre dirigente russo.
4. Contro tutti gli imperialismi e il «campismo» della sinistra reazionaria
Il primo princìpio da cui parte il mio ragionamento non era peculiare di Lenin ma proprio di tutta la sinistra rivoluzionaria del socialismo internazionale al tempo della Prima guerra mondiale: il rifiuto, categorico e politicamente discriminante, di schierarsi con una delle fazioni imperialiste in conflitto e di prendere per buone le argomentazioni «difensiviste» portate da ciascuno degli imperialismi contrapposti. Al «difensivismo» dei governi gli internazionalisti opponevano che nemico non è il fratello che veste l’altra divisa ma chi, in ciascun Paese, comandava di uccidere e farsi uccidere. Idealismo? Sì, ma si tratta di un idealismo che ha cambiato la faccia del mondo.
Tuttavia, l’Ucraina non è una grande potenza imperialistica. Storicamente - e per la logica imperiale grande-russa evidentemente ancora oggi - si trova nei confronti dell’imperialismo russo grosso modo nella stessa posizione dell’America centrale e caraibica secondo l’imperialismo statunitense. Se nella geopolitica statunitense l’America centrale e caraibica è the backyard, il cortile di casa, per la geopolitica imperiale russa l’Ucraina è «l’estero vicino» e parte del «mondo russo», in sostanza assimilabile a quanto Putin disse della Crimea nel 2014: «storicamente è una terra russa delle origini» (Крым есть исторически исконно русская земля).
Lenin avrebbe cacciato via a calci nel sedere i «leninisti» che ora appoggiano la posizione «difensivista» di Putin. Durante la guerra mondiale li avrebbe definiti «socialpatrioti», come i menscevichi e i socialrivoluzionari di destra. È sulla base di questo princìpio che, nel corso della guerra mondiale, prese vita il movimento politico che poi portò alla costituzione dei Partiti comunisti. Pare, però, che ci siano presunti comunisti o simil-comunisti che lo ignorano.
Chi, da sinistra, contesta le guerre dei Paesi Nato e il neocolonialismo del cosiddetto Occidente, ma non le guerre e l’oppressione nazionale messe in atto dalla Russia, rinnova l’utilizzo di pesi e misure differenti secondo il proprio comodo e, quindi, nella memoria storica di tanti popoli, l’equazione tra stalinismo e socialismo. L’alternativa logica è sostenere che la Russia non sia uno Stato imperialistico ma l’idea, ormai, farà ridere anche i polli. E dove finisce la coerenza se si sostiene questa posizione, oppure l’equidistanza tra Russia e Ucraina e, nello stesso tempo, si appoggiano le lotte contro l’imperialismo occidentale?
Il fatto comico è che i presunti «sinistri» che simpatizzano con la Russia o che ne smussano la responsabilità in un’aggressione imperialistica, sembrano non rendersi conto che sul Cremlino non sventola più la bandiera rossa, ma lo stemma della nuova Russia, cioè la vecchia aquila bicipite zarista, e questo è veramente emblematico della natura del regime putiniano.
5. Le ragioni della guerra di Putin: consolidare il regime intorno al nazionalismo grande-russo e alla sfera d’influenza imperialistica eurasiatica
Tuttavia, a differenza dei loro simpatizzanti interni ed esteri, Putin e i suoi soci non sono ingenui. Hanno di certo elaborato diversi scenari e valutato con la massima attenzione le gravi conseguenze di un atto così aperto d’aggressione, che va oltre la reaganiana «guerra a bassa intensità» e anche oltre quella sua più sofisticata variante che è detta «guerra ibrida», già praticata dalla Russia nel Donbas. In effetti, con la sua litania circa le malefatte dell’Occidente, Putin ha già ammesso d’aver perso la competizione per la sfera d’influenza in Europa. Sa che, per quanto l’esercito d’invasione russo possa vincere le battaglie contro la difesa ucraina, per quel che riguarda gli ucraini e quella cosa che dice l’Occidente, politicamente la guerra è persa in partenza. Con l’annessione della Crimea e lo scatenamento del movimento secessionista in Doneck e Lugansk, Putin aveva già reso impossibile un governo filorusso in Ucraina. Invadendo l’Ucraina Putin può tenersi le Repubbliche di Doneck e Lugansk ma, nello stesso tempo, ammette definitivamente di non poter avere più alcuna influenza politica dall’interno sul resto del Paese.
La guerra di Putin è una disgrazia che ha l’effetto immediato di rafforzare la NATO e le ragioni per cui gli Stati dell’«estero vicino» alla sfera russa si sono posti sotto l’«ombrello» NATO. E infatti, la possibilità di un attacco russo all’Ucraina è stata sottovalutata perché si riteneva fosse una mossa irrazionale, che avrebbe prodotto l’effetto d’indebolire invece che di rafforzare la posizione strategica e politico-militare della Russia nel teatro europeo.
E allora, perché la guerra? È stata un errore di calcolo?
Gli errori strategici sono parte della storia (basti pensare a tutti quelli che fece Stalin nella sua alleanza con Hitler) e anche in questo caso è possibile che siano state sottovalutate sia la resistenza ucraina sia la reazione internazionale. A monte, però, credo esista una motivazione abbastanza forte da aver indotto a correre il rischio. Che non è la reazione negativa all’allargamento della NATO e alla «perdita» dell’Ucraina, che oramai è politicamente scontata. L’obiettivo è invece «positivo», per così dire, ed è il consolidamento del regime interno simultaneamente a quello della sfera d’influenza, la saldatura tra la costruzione di una nuova identità nazionale e postmoderna della Russia e progetto imperiale eurasiatico.
Spiegherò perché in successivi articoli.
1 Budapest Memorandums on Security Assurances, 1994, https://treaties.un.org/doc/Publication/UNTS/Volume%203007/Part/volume-3007-I-52241.pdf.
2 Sabino Cassese, Violenza e diritto nell’era nucleare, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 43.
3 The National Security Strategy of the United States of America, The White House, Washington settembre 2002, pp. 14, 15.
4 Si veda, ad es., Aiden Warren-Ingvild Bode, Governing the use-of-force in international relations. The post 9-11 US challenge on international law, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2014.
5 Rimando al capitolo «Questione nazionale e autodeterminazione dei popoli» in Roberto Massari, Lenin e l’Antirivoluzione russa, Bolsena 2018, ora estratti consultabili: http://utopiarossa.blogspot.com/2022/03/ucraina-2-il-diritto.html.
6 Address by the President of the Russian Federation, 21 febbraio 2022, testo sul sito del Presidente della Russia. Si veda anche Vladimir Putin «On the historical unity of Russians and Ukrainians», 12 luglio 2021, http://en.kremlin.ru/events/president/news/66181.
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