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venerdì 13 novembre 2020

COVID-19 È STRAGE DI STATO

di Michele Nobile

 

«L'Italia non si ferma, volgiamo lo sguardo al domani, sempre più determinati a far correre l'economia. Questo vale per tutta l'Italia. Dobbiamo moltiplicare le nostre energie. Insieme ce la faremo» 

Giuseppe Conte su Facebook, 28 febbraio 2020 

 

«Se un individuo reca ad un altro un danno fisico di tale gravità che la vittima muore, chiamiamo questo atto un omicidio; se l’autore sapeva in precedenza che il danno sarebbe stato mortale, la sua azione si chiama assassinio. Ma se la società pone centinaia di proletari in una situazione tale che debbano necessariamente cadere vittime di una morte prematura, innaturale, di una morte che è altrettanto violenta di quella dovuta a una spada od una pallottola; se toglie a migliaia d’individui il necessario per l’esistenza, se li mette in condizioni nelle quali essi non possonovivere; se mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni finché non sopraggiunga la morte, che è la conseguenza invitabile di tali condizioni; se sa, e sa anche troppo bene, che costoro in tale situazione devono soccombere, e tuttavia la lascia sussistere, questo è assassinio, esattamente come l’azione di un singolo, ma un assassinio mascherato e perfido, un assassinio contro il quale nessuno può difendersi, che non sembra tale, perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale, e perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione. Ma è pur sempre un assassinio». 

         Friedrich Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra, 1845

 

1. L’epidemia di Covid-19 come Strage di Stato 

Mentre concludo questo intervento i morti a causa di Covid-19 sono in Italia oltre 43.000. Se la media giornaliera dei decessi da coronavirus rimarrà quella della prima settimana di novembre, per la fine del mese saranno aumentati a circa 48.000. 

E chi può dire con certezza quando si verificherà il picco e a quale altezza? 

E quindi, per Natale e Capodanno quale sarà il «regalo» complessivo della pandemia? 54.000 morti? 60.000?

Queste sono solo congetture, ma non irragionevoli. Se nelle prossime settimane la crescita dei decessi avrà un prolungato andamento esponenziale potrebbero rivelarsi assai ottimistiche. Si guardi a quel che è accaduto e accade non lontano da casa nostra: in Francia, in Spagna, nel Regno Unito, e nel resto del mondo, negli Stati Uniti, in America latina, in India.



Relativamente alla metà di settembre, quando era chiaro che l’epidemia si preparava a decollare nelle regioni meridionali e centrali, significa che abbiamo avuto - fino a questo momento - circa 8.000 morti in più. Morti che almeno in parte si potevano evitare, adottando immediatamenteadeguate misure preventive quando, a metà settembre nelle regioni meridionali, le curve di contagi, ospedalizzazioni e ricoverati in unità di cura intensiva iniziavano a puntare verso l’alto. 

Invece, in questi mesi abbiamo sentito ripetere da Giuseppe Conte la frase «non possiamo permetterci un altro lockdown», ribadita con fermezza da Fontana - Presidente della giunta regionale lombarda - nella sede appropriata, l’assemblea generale di Assolombarda il 12 ottobre, proprio mentre i contagi decollavano anche nella sua regione. Abbiamo anche sentito ripetere l’esorcismo «la scuola deve essere l’ultima cosa a chiudere». Come prevedibile, questi slogan si sono dimostrati la ricetta per arrivare comunque al lockdown e alla chiusura delle scuole, ma nel peggiore dei modi. Se adottate tempestivamente, misure più restrittive e chiusure nella ristorazione, nei trasporti, nel commercio al dettaglio, nelle scuole, avrebbero potuto soffocare il falò prima che diventasse un incendio incontrollabile, evitando morti, sofferenze e in definitiva, anche danni sociali ed economici maggiori e per un periodo più lungo. Il coronavirus è un nemico subdolo, che sa attendere il momento per infiltrarsi attraverso ogni varco, approfittare d’ogni temporeggiare per dilagare velocissimo. I varchi sono stati lasciati aperti, i temporeggiatori sono stati tanti.

Alla magistratura spetta accertare eventuali responsabilità penali individuali per fatti determinati: di sindaci, presidenti di giunte regionali, presidente del consiglio dei ministri e ministri, di dirigenti della sanità. Sono in gioco i reati di epidemia colposa ed omicidio colposo. 

Il giudizio politico e storico-sociale non ha però bisogno d’attendere l’accertamento della verità giudiziaria. 

Per molti anni ogni 12 dicembre si è protestato contro la strage di Piazza Fontana, che causò 17 morti. Quella strage venne subito detta Strage di Stato. 

Ora abbiamo di fronte un’enormità: non 17 ma quasi 43.000 morti. Quarantatremila

Per quanto riguarda le responsabilità politiche, ricordo l’articolo 32 comma 1 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti», a cui possono aggiungersi altre considerazioni circa la tutela del lavoro e i limiti dell’iniziativa privata come indicati, in linea di massima, dagli artt. 2, 35, 41. E rimando alla citazione di Friedrich Engels: la morte appare naturale, l’assassino sembra «tutti e nessuno» ma «è pur sempre un assassinio». L’ABC dell’epidemiologia non asservita al potere. 

Si può ragionare intorno a quante di queste morti siano dovute ad omissioni e azioni delle autorità politiche, ma non possono esserci dubbi sul fatto che a migliaia debbano attribuirsi ad azioni e non-azioni politiche del passato e del presente. L’evidenza delle responsabilità politiche è nel 2020 molto più forte che nel 1969. Anche in Italia come in altri Paesi, l’impatto dell’epidemia e la sua gestione da parte dei governi nazionali e regionali sono la prova irrefutabile del fallimento di un intero ceto politico e delle politiche sociali ed economiche messe in atto per molti, anni sia dal centrosinistra sia dal centrodestra, della priorità attribuita agli interessi economici. Che siano tanti i Paesi a soffrire per la pandemia ci dice quanto sia patogeno l’ordine politico e sociale esistente e che la transizione epidemiologica in corso richiede una prospettiva e un’azione che superi i confini nazionali. È comunque necessario che in ogni Paese si esprima un chiaro giudizio sulle responsabilità politiche e sociali. 

         Politicamente e storicamente ritengo quindi che la gestione della pandemia in Italia debba giudicarsi come una Strage di Stato, a cui hanno concorso e concorrono tutti i partiti con responsabilità di governo, nazionale, regionale, locale. Certamente non uso qui il termine strage come fattispecie giuridica, pertinente alle stragi deliberatamente messe in atto da organizzazioni fasciste, col concorso e la copertura di parti dell’apparato statale. Tuttavia, volendo racchiudere il giudizio in una formula sintetica e inequivocabile, non riesco a trovarne una migliore. E sia chiaro che, proprio perché qui l’espressione ha un significato sistemico, le responsabilità di questa Strage di Stato non ricadono solo sul ceto politico ma sulla classe sociale che antepone il profitto alla salute. Come spiego oltre, gli interessi delle imprese capitalistiche italiane hanno contribuito al dilagare dell’epidemia. È un motivo specifico e concreto per ribadire che le conseguenze socioeconomiche della pandemia non possono essere pagate dai comuni cittadini. 

Concepire le responsabilità pregresse e la gestione politica dell’epidemia nazionale come Strage di Stato concentra il giudizio politico e storico, sottolinea la gravità dell’evento, stabilisce l’esistenza di responsabilità politiche. Indica in modo chiaro e inequivocabile il nemico. Sono enormi i problemi sociali suscitati nel mondo sia dall’azione sia dall’inazione dei governi, inediti come questa situazione pandemica. Ed è proprio questa loro enormità, capillarità e multidimensionalità che richiede una visione ampia del problema e una risposta politica forte e unificante, per canalizzare in un unico corso la molteplicità delle rivendicazioni e la rabbia diffusa, sia derivanti dal pericolo e dal danno per la salute, sia conseguenti dagli effetti socioeconomici della gestione politica dell’epidemia. 

Tuttavia, se in accordo alla visione dei potenti del mondo la pandemia è vista solo come un fatto naturale; oppure, se si pensa che Covid-19 sia malattia appena un po’ più pericolosa di una normale influenza, che «tanto colpisce solo gli anziani e chi ha già più patologie»; oppure che l’emergenza sia solo un’invenzione dei mass media, dei governi e di chi intende stabilire la «dittatura sanitaria» o qualcosa del genere; oppure se si pensa che sia possibile cavarsela con mezze misure e inzuccherare la medicina... allora non sussiste motivo per utilizzare l’espressione Strage di Stato. 

 

2. I lockdown. Un doppio fallimento ma una sola contraddizione: tra profitto e salute

I cosiddetti lockdown sono un doppio fallimento, risultante però da un’unica contraddizione: quella tra interessi economici privati e capitalistici e salute pubblica. 

I lockdown sono un fallimento innanzitutto dal punto di vista della salute pubblica. Non perché non servano: al contrario, bene o male le misure non farmaceutiche (tra cui il distanziamento fisico, maschere protettive e, in ultimo, anche in ultimo anche il lockdown o sospensione della vita sociale) riducono contagi e decessi. Si deve discutere di alcune misure inutilmente restrittive della libertà di movimento individuale, della chiusura di biblioteche e musei, della procedura istituzionale, della forma giuridica, del sostegno del reddito e del contrasto della povertà indotta dalla sospensione dello sfruttamento e dell’autosfruttamento. Un punto deve però rimaner fermo: che quando l’incendio dell’epidemia è scoppiato, al fine di proteggere la salute pubblica le misure non farmaceutiche erano e sono indispensabili. E devono anticipare, non seguire, il decollo dei contagi, devono essere ad ampio raggio e venire applicate con fermezza. L’alternativa è lasciar bruciare l’incendio dell’epidemia fino a quando non abbia consumato tutto il combustibile: il che significa ardere corpi umani, a decine e centinaia di migliaia, a seconda dei casi. Semmai, la critica da fare ai governi è che questi provvedimenti sono stati e sono tardivi e incoerenti. Fatto che non riduce ma aggrava anche i costi economici, sociali e psicologici

Le quarantene sono un fallimento che rivela quanto inadeguata sia la robustezza dei sistemi sanitari nazionali - la loro capacità d’assorbire l’impatto di un’emergenza sanitaria come questa - e quanto siano state compromesse la medicina preventiva e territoriale: per i tagli di spesa in nome dei vincoli di bilancio ma a favore della finanza; per l’introduzione nella sanità pubblica di criteri gestionali da impresa privata; per la promozione dell’imprenditoria della sanità privata, anche questo in nome della presunta efficienza del mercato. Per aver disorganizzato e pressoché distrutto la medicina preventiva e di comunità, come è stato nella sanità lombarda, che però è solo il caso limite di un orientamento generale. Il modo migliore di dirlo è lasciare la parola agli stessi medici del primo epicentro dell’epidemia italiana, quelli dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, come in una lettera pubblicata il 21 marzo 2020. È anche un modo per rendere omaggio a quei «soldati» di prima linea, per cervello e umanità infinitamente migliori dei «generali» d’ogni colore che siedono a Milano e Roma. Dopo aver descritto la situazione disastrosa di quel momento scrissero: 

 

«I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di patient-centered care(un approccio per cui le decisioni cliniche sono guidate dai bisogni, dalle preferenze e dai valori del paziente, ndt). Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care. Stiamo dolorosamente imparando che c’è bisogno di esperti di salute pubblica ed epidemie. A livello nazionale, regionale e di ogni singolo ospedale ancora non ci si è resi conto della necessità di coinvolgere nei processi decisionali chi abbia le competenze appropriate per contenere i comportamenti epidemiologicamente pericolosi.

Per esempio, stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19, poiché si riempiono rapidamente di malati infetti che contagiano i pazienti non infetti. Lo stesso sistema sanitario regionale contribuisce alla diffusione del contagio, poiché le ambulanze e il personale sanitario diventano rapidamente dei vettori. I sanitari sono portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza. 

Alcuni rischiano di morire, compresi i più giovani, aumentando ulteriormente le difficoltà e lo stress di quelli in prima linea.

Questo disastro poteva essere evitato soltanto con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio. Per affrontare la pandemia servono soluzioni per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali. (...) 

Questa epidemia non è un fenomeno che riguarda soltanto la terapia intensiva, è una crisi umanitaria e di salute pubblica. Richiede l’intervento di scienziati sociali, epidemiologi, esperti di logistica, psicologi e assistenti sociali. Abbiamo urgente bisogno di agenzie umanitarie che operino a livello locale. 

L’OMS ha lanciato l’allarme sugli allarmanti livelli di inazione (dei paesi occidentali, ndt). Sono necessarie misure coraggiose per rallentare l’infezione. Il lockdown è fondamentale: in Cina il distanziamento sociale ha ridotto la trasmissione del contagio di circa il 60%. Ma non appena le misure restrittive saranno rilassate per evitare di fermare l’economia, il contagio ricomincerà a diffondersi.

Abbiamo bisogno di un piano di lungo periodo per contrastare la pandemia.

Il coronavirus è l’Ebola dei ricchi e richiede uno sforzo coordinato e transnazionale. Non è particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus.

La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque»1

 

Non è l’unico documento che si possa citare su questa linea da parte di medici che conoscono bene Covid-19. Si notino le parole che, purtroppo, anticipano quanto sta di nuovo avvenendo. E s’impari qualcosa da chi l’epidemia non l’ha vista solo in televisione o ridotta a numeri, ma l’ha conosciuta in tutta la sua concreta letalità. 

Gli articoli 117 comma 2 e 120 comma 2 della Costituzione italiana parlano chiaro. L’art. 120 afferma chiaramente che «il governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle città metropolitane, delle Province e dei Comuni», tra gli altri nel caso «di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica». A ragione si può evocare la storica inettitudine della burocrazia italiana, ma questa va posta nel contesto contemporaneo del fideismo mercantile e della privatizzazione e frammentazione del sistema sanitario, evidente nello scaricabarile e nel conflitto di competenze tra governo nazionale e Regioni: tutti fattori politici che, stante la pericolosità del coronavirus, hanno contribuito alla gravità dell’epidemia nella prima onda e nei momenti successivi. Inettitudine manifesta nel fatto che il piano anti-pandemia non è stato aggiornato dal 2010 e che sue ampie parti sono rimaste solo sulla carta, sia a livello nazionale che regionale: ad esempio, è la ragione della drammatica carenza di riserve di dispositivi di protezione individuale anche per medici e infermieri. Ricordo che il primo caso di Covid-19 in Italia venne scoperto a Codogno solo perché una dottoressa decise di non seguire il protocollo ministeriale del 27 gennaio, che prescriveva di testare solo pazienti sintomatici con un qualche contatto con la Cina. Stranamente, il protocollo del 27 sostituiva quello di cinque giorni prima, che era molto meno vincolante: il nuovo protocollo presupponeva che l’Italia non corresse rischio epidemico e che la situazione fosse sotto controllo. Questa tragicommedia si è riproposta durante l’estate e nel periodo tra settembre e ottobre, con conseguenze disastrose. 

Quindi, perché infine si è arrivati al lockdown? Esso è l’estremo tentativo di salvare la legittimazione dell’autorità politica a fronte di una grave epidemia che non si è riusciti a prevenire e contenere, che tanto più è pericolosa quanto più i sistemi sanitari pubblici sono stati indeboliti: se questi sono fragili, allora non resta che ricorrere al più rozzo metodo medievale, accompagnato da misure restrittive tanto più irrazionali quanto più il sistema è fragile e si deve dimostrare alla cittadinanza che qualcosa pur si fa. È questa la ragione della schizofrenica alternanza tra personalità diverse: tra il bon vivant, che tranquillamente beve l’aperitivo e vuole tutto aperto, e lo sceriffo del West maniaco del confinamento in casa. 

 

3. Lockdown? Sì, ma addomesticato dalla Confindustria

Tuttavia, la messa in quarantena della vita sociale è un fallimento anche dal punto di vista interno al sistema, degli interessi economici privati e capitalistici. Infatti la quarantena interrompe la continuità dello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, contrae la domanda aggregata e, dal lato dell’offerta, disorganizza la divisione nazionale e internazionale del lavoro. È interesse del capitale che alla quarantena e alle misure restrittive di determinate attività economiche si ponga fine al più presto possibile, anche a costo della salute pubblica. È questa la ragione degli atteggiamenti tranquillizzanti, dello scaricabarile tra autorità locali e governo nazionale. 

Verso la fine di febbraio, sindaci e quotidiani nazionali sponsorizzarono dei video di Confcommercio e ristoratori all’insegna di «Milano non si ferma!», «Bergamo non si ferma!», con il messaggio: continuate ad andare al caffè e a fare shopping. Il 27 febbraio il segretario del Pd e presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, raccolse allegramente l’invito del collega di partito Sala per un aperitivo a Milano, risultando poi contagiato dal coronavirus. Quello stesso giorno il ministro degli esteri Di Maio - insieme al ministro della salute Speranza - tenne una conferenza stampa in cui dichiarò: «noi in Italia siamo passati da un rischio epidemia ad una infodemia da disinformazione acclarata, che in questo momento sta colpendo i nostri flussi turistici, le nostre imprese, il nostro tessuto economico», e poi: «sono coinvolte unità [di contagiati e malati] che vanno nell’ordine dello zero virgola, sia dal punto di vista dei comuni, sia dal punto di vista del numero dei cittadini»; «se i nostri figli vanno a scuola nella maggioranza delle scuole questo significa che anche gli stranieri possono venire qui come turisti e come investitori». Queste sono parole che spiegano perché non venne tempestivamente chiuso l’ospedale di Alzano lombardo né adottate più estese misure di contenimento, perché dopo pochi giorni «governatori» e industriali facessero pressioni per riaprire le scuole ed evitare altre misure: il calcolo era sui costi economici, non sul «danno collaterale» dei morti. Questa è la stoffa di cui son fatti i nostri politici. Questo è quanto ci costa decine di migliaia di morti. Questo è perché si può parlare di Strage di Stato. E quanti a sinistra pretendono di fare opposizione al governo e alla classe dominante rivendicando però la libertà di commerciare e contestando la didattica a distanza (senza considerare l’eccezionalità della situazione), devono chiedersi se, nonostante le intenzioni, in fondo non stiano condividendo la stessa visione normalizzante dei ministri, dei demagoghi e degli affaristi. Di quelli de «l’Italia non si ferma!» neanche al prezzo di migliaia di morti. 

Mettiamo meglio a fuoco la realtà del lockdown. Riprendo le parole di Matteo Gaddi, in un libro recentemente pubblicato. In pratica, 

 

«fino all’entrata in vigore del Dpcm “Chiudi Italia”, annunciato il 22 marzo, in questi comuni della Val Seriana - su un totale di 2.446 aziende e seimila attività di servizi operative sul territorio, con un fatturato annuo totale pari a quasi 5 miliardi di euro - potevano lavorare circa 30 mila addetti, di cui 20.109 lavoratori dipendenti. Nell’epicentro del focolaio pandemico, fino al 22 marzo - ovvero fino a un mese dopo la scoperta dei primi contagi all’ospedale di Alzano Lombardo -, 30 mila persone sono state autorizzate a circolare in una zona infetta per esigenze lavorative»2

 

Quanto al valore delle esportazioni, la Lombardia è la prima regione italiana (col doppio della seconda, il Veneto), la provincia di Milano è al primo posto e Bergamo disputa il secondo posto a Brescia: la Val Seriana è altamente produttiva. Sarà anche per questo che fra il 20 febbraio e il 31 marzo a Bergamo e provincia ci furono 5.058 morti in eccesso, e 2.665 a Brescia e provincia.

Il Dpcm del 22 marzo consentiva le attività industriali e di servizio «funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività di cui all’All. 1.», tramite autocertificazione e comunicazione al Prefetto. Utilizzando le tavole input-output del 2016, Gaddi e Nadia Garbellini hanno dimostrato e quantificato come, grazie alla genericità dei codici Ateco e alla mancata pianificazione delle forniture alle attività di cui si doveva comunque assicurare la continuità, questo Dpcm «apre la strada a una liberalizzazione completa di tutte le attività economico-produttive: chiunque infatti può dichiarare di essere a servizio di uno dei tanti codici Ateco dell’elenco e proseguire indisturbato la produzione»3. Dopo il Dpcm del 22 marzo che avrebbe dovuto chiudere l’Italia, «nell’area più colpita dall’epidemia ben 13.495 addetti, di cui 9.230 dipendenti, possono continuare a lavorare» e «in Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna abbiamo calcolato che in piena fase uno circa tre milioni e mezzo di persone sono state chiamate al lavoro, di cui circa 300 mila solo nella provincia di Bergamo: si può parlare di lockdown a fronte di cifre così consistenti?»4

No, non si può parlare di vero lockdownI padroni non lo volevano e non lo vogliono.

Specialmente durante la prima onda di Covid-19 si è fatto grande uso della retorica da Grande guerra, col nemico coronavirus da fermare su una nuova linea del Piave. Lo scopo era l’«unità nazionale» di fronte all’aggressione del coronavirus: l’epidemia come sventura naturale precipitata in un corpo nazionale altrimenti sano. Tuttavia, colpisce quanto poco in realtà sia stato fatto in termini strutturali per prevenire il contrattacco del coronavirus e quanto miope sia stata la strategia, in quella che pure avrebbe dovuto essere una guerra totale.

Per essere all’altezza della retorica bellica, come in tempo di guerra sarebbe stato necessario ricorrere alla pianificazione degli investimenti pubblici in alcuni campi cruciali e mobilitare tutte le risorse nazionali per schiacciare la crescita delle infezioni. Ad esempio, sarebbe stato necessario investire grandi somme sul potenziamento dei mezzi e del personale dei trasporti, sull’edilizia scolastica e il personale docente e non docente; sulla produzione di massa di test e tamponi e sui mezzi e il personale necessari alle operazioni di prelievo e analisi, sulla scala più ampia possibile; sui migliori dispositivi di protezione per il personale degli ospedali e i medici di base. Invece abbiamo avuto l’alternarsi di diverse ma sempre ingestibili riduzioni percentuali dei posti disponibili per i viaggiatori, col risultato di autobus pieni nelle ore di punta; e ora mancano medici e infermieri per gestire le unità di cura intensiva. Finalmente è stata fatta la «scoperta» delle classi pollaio, ma i pollai sono rimasti quel che erano: nessuna riduzione del numero di alunni per classi, neanche nelle nuove classi, e ovviamente nessuna stabilizzazione del precariato vecchio e nuovo, nessuna nuova costruzione, almeno di prefabbricati, o reperimento di edifici o strutture utilizzabili. Quando si pretendevano gli studenti fissi al loro posto, alla distanza di non-sicurezza di un metro e addirittura «staticamente» senza mascherina, abbiamo invece avuto la «geniale» innovazione dei banchi con le rotelle.

Al primo di giugno 2020 Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto contavano per il 72% dei casi positivi totali nazionali; la Lombardia da sola per il 38% dei casi positivi totali e il 48% dei decessi nazionali da Covid-19. Al culmine dell’epidemia e ancora all’inizio dell’estate, esisteva un abisso tra l’incidenza dei contagi per 100 mila abitanti tra le regioni del Nord da e quelle del Centro e del Sud. Occorreva escogitare dei modi per limitare al massimo l’esportazione del coronavirus dalle regioni settentrionali dove più alta era la sua incidenza, ad esempio chiedendo di fare un tampone prima di recarsi in altre regioni. Si è preferito fare un regalo all’industria del turismo e del divertimentificio, puntando sul distanziamento degli ombrelloni e la buona educazione propria della «nuova normalità». Addirittura, le discoteche furono chiuse soltanto il 17 agosto, misura insufficiente e tardiva, decisa quando la frittata era già stata servita. 

La conseguenza è stata che tra la fine di luglio e la prima settimana d’agosto i contagi hanno iniziato a crescere sensibilmente nelle regioni meridionali, in quelle centrali tra la metà e la fine d’agosto. E infine, a modo suo il coronavirus ha unificato l’Italia: per i primi di settembre l’incidenza su 100.000 abitanti fra le tre macroregioni era quasi identica, ora cresce verticalmente e parallela, col Nord tornato in testa, Centro e Sud all’inseguimento. Nella specialità dell’incidenza su 100.000 abitanti la Val d’Aosta è in testa con un bel vantaggio, ma spiccano Lombardia, Piemonte, Toscana e Campania. 

Nella conferenza stampa del 4 novembre Conte ha dichiarato: «se introducessimo misure uniche in tutta Italia produrremmo un duplice effetto negativo, non adottare misure veramente efficaci dove c'è maggior rischio e imporremo misure irragionevolmente restrittive dove la situazione è meno grave». Era giusto per la prima onda dell’epidemia, una volta bloccati i trasferimenti tra le regioni: infatti, nelle regioni centrali e meridionali la fase due poteva iniziare anche prima del 4 maggio, eppure le misure furono omogenee sul territorio nazionale, appunto con l’effetto descritto da Conte. Adesso, invece, è difficile dire in quali province del Centro e del Mezzogiorno non s’impongano restrizioni, anche perché la crescita delle infezioni è ovunque veloce. Tra i primi giorni di giugno e gli ultimi di settembre in Molise non si verificarono decessi, in Basilicata solo uno tra primi giorni di maggio e gli ultimi di settembre: in poco più di un mese raddoppiarono in entrambe le regioni. 

Con diversi articoli e un libro5, sulla base della documentazione scientifica ho spiegato che la genesi della pandemia e le linee di diffusione della malattia non siano solo un fatto biologico ma anche sociale. Più precisamente: il danno inflitto dal coronavirus dipende sia dalle sue proprietà biologiche e dalle risposte degli organismi individuali, sia dalle caratteristiche obiettive della società e dalle risposte che le autorità politiche. La pandemia di Covid-19 è per questi motivi un fatto sociale totale e mondiale, che investe tutte le dimensioni, nessuna esclusa, della vita sociale planetaria. Un fatto sociale totale richiede una risposta altrettanto totale. La pandemia del 2019-20 non è un «cigno nero». Della concreta possibilità della diffusione pandemica d’un virus o coronavirus pericolosamente virulento si discute seriamente da tre decenni e nel XXI secolo abbiamo avuto diversi campanelli d’allarme: influenza «aviaria», sindrome respiratoria acuta grave da Sars-CoV-1, influenza «suina», sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus Mers-CoV, giusto per fare soltanto alcuni esempi del più ampio fenomeno della nuova transizione epidemiologica globale. Parafrasando il titolo d’un libro del 2005 del marxista statunitense Mike Davis, dedicato all’«aviaria»: il mostro ha più volte bussato alla porta e con Covid-19 infine l’ha sfondata. 

La risposta a un fatto sociale totale quale la guerra o una pandemia richiede d’andare alla radice del problema, una valutazione politica nel senso più alto e forte del termine e una prassi conseguente.

Quanti altri morti perché nelle piazze si torni a gridare che Covid-19 è Strage di Stato? 

 

1       Mirco Nacoti-Andrea Ciocca-Angelo Giupponi-Pietro Brambillasca-Federico Lussana, Michele Pisano-Giuseppe Goisis-Daniele Bonacina-Francesco Fazzi-Richard Naspro-Luca Longhi, Maurizio Cereda-Carlo Montaguti, «At the epicenter of the Covid-19 pandemic and humanitarian crises in Italy. Changing perspectives on preparation and mitigation», Catalyst-New England Journal of Medicine, 21 marzo 2020, uso qui la traduzione di Fabio Sabatini, che si può leggere nel sito Bgreport. I corsivi sono miei. 

2       La citazione di Gaddi è da Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, Laterza, Bari-Roma 2020, p. 111. 

3       Matteo Gaddi-Nadia Garbellini, «Settori fondamentali: li stiamo identificando nel modo giusto?», Fondazione Claudio Sabbatini, http://www.fondazionesabattini.it/ricerche-1/ricerca-coronavirus-e-lavoro

4       F. Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionaleop. cit., pp. 112-3.

5       Michele Nobile, Un solo mondo, una sola salute. Il rapporto fra capitalismo, pandemie ed ecosistemi, Massari editore, Bolsena 2020.    

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