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lunedì 13 luglio 2020

BIOPOLITICA E CONTRADDIZIONI DEI REGIMI SANITARI INTERNAZIONALI


di Michele Nobile 

Dialettica di una pandemia: capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo, n. 4 (vedi articoli precedenti)

Continua
n. 1 «Dialettica di una pandemia: capitalismo-nella natura/natura-nel-capitalismo. Introduzione», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/06/dialettica-di-una-pandemia-capitalismo.html
n. 2 «La pandemia di covid-19 come sintomo di una nuova transizione epidemiologica», http://utopiarossa.blogspot.com/2020/06/la-pandemia-di-covid-19-come-sintomo-di.html
n. 3 «(Non) lezioni dalla storia. Commercio e sanità internazionale dalla febbre gialla a Covid-19» 
http://utopiarossa.blogspot.com/2020/07/lezioni-e-non-dalla-storia-dalla-febbre.html#more

1. Le epidemie internazionali e la genesi dei regimi sanitari internazionali
2. La Società delle nazioni e gli Stati nazionali: salute globale e nazionalismo statalista 
3. La Società delle nazioni, il colonialismo e la medicina coloniale 
4. Dire la verità fa male agli affari: gli Stati, l’Organizzazione mondiale della sanità e le emergenze di rilevanza internazionale

1. Le epidemie internazionali e la genesi dei regimi sanitari internazionali
La diffusione internazionale di febbre gialla, colera e peste bubbonica tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX non era mero retaggio dell’arretratezza. Al contrario, era diretto risultato dello sviluppo dell’economia mondiale capitalistica: d’una compressione spazio-temporale, conseguente dall’accelerazione dei trasporti commerciali attraverso gli oceani - sia grazie alle innovazioni tecniche, per cui nel 1880 l’attraversamento dell’Atlantico richiedeva un quarto del tempo impiegato nel 1830 (inferiore a quello della comparsa dei sintomi della febbre gialla), sia grazie alle «scorciatoia» del canale di Suez (operativo dal 1869) - e dall’estensione delle linee ferroviarie, che minacciava di portare le malattie dai porti all’interno dei Paesi, come negli Stati Uniti nel 1878. Accelerazione temporale ed estensione spaziale a loro volta rimandavano alla divisione internazionale del lavoro e alla crescita dei flussi commerciali e di capitale. Quanto più si sviluppavano le interdipendenze dell’economia mondiale tanto più le epidemie risultavano dannose al commercio internazionale e pericolose per le crescenti concentrazioni urbane del proletariato industriale, quindi per la potenza, stabilità sociale e legittimità politica dei governi. Il problema era la variabilità dell’atteggiamento degli Stati e pure dentro ciascuno di essi circa ispezioni sanitarie, disinfestazione dei carichi e quarantene. 
Obiettivamente le epidemie ponevano la necessità che si stabilissero delle regole comuni per la sorveglianza sanitaria dei trasporti di merci e dei movimenti di persone, per la comunicazione delle infezioni e per il tipo di misure da mettere in atto. Questa è la genesi di un campo della politica statale: quello della diplomazia sanitaria. Tuttavia, a seconda del criterio che si utilizza, qualcosa che possa dirsi un regime sanitario internazionale basato sulla formalizzazione del consenso intorno a regole e con un’organizzazione per la sorveglianza, comunicazione e determinazione delle risposte alle epidemie internazionali richiese come minimo mezzo secolo. Il fatto è che qualsiasi regime sanitario internazionale è attraversato da contraddizioni strutturali,

simili ad altre come l’inquinamento transfrontaliero ma anche più difficili da gestire.

La prima contraddizione è tra continuità dei flussi di capitale (non solo commerciale) e salute pubblica. Questo, a sua volta, comporta una definizione di quel che è salute: implicitamente, s’intendeva per salute l’assenza di malattia, espressione di una politica sanitaria interna minimalista, individualizzante, strettamente medica, curativa più che preventiva. Oggi la contraddizione si pone non solo nei termini dei limiti posti alle politiche pubbliche dalle esigenze dell’accumulazione di capitale e dai vincoli di bilancio, ma come internalizzazione nella politica sanitaria dell’analisi tra costi finanziari e benefici degli interventi per la salute pubblica e dei modi mutuati dall’imprenditoria privata di selezionarli, gestirli e valutarli. 
La seconda contraddizione è data dall’ineguaglianza dei rapporti di potere nelle gerarchie del sistema internazionale degli Stati e dell’economia mondiale, rappresentata nel modo più forte dal tradizionale colonialismo imperiale ma riprodotta dalle forme più moderne del neocolonialismo e della divisione internazionale del lavoro. In altri termini, i rapporti socioecologici internazionali sono tali da riprodurre differenze dei quadri epidemiologici non riducibili a mere cause ecologiche. 
La terza contraddizione ha la sua specificità ma riassume le precedenti. Si basa sulla banale constatazione che le malattie infettive - o almeno i loro vettori - possono avere dei limiti ecologici ma di certo non riconoscono i confini statali: appunto la ragione della diplomazia sanitaria inter-statale. Eppure, nonostante i progressi del regime sanitario internazionale e la costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità, la gestione reale delle epidemie che costituiscono un potenziale pericolo globale rimane responsabilità degli Stati, a loro volta condensazione di rapporti di potere interni tra le classi sociali e nell’arena internazionale. La riforma del Regolamento sanitario internazionale nel 2005 ha indotto a sperare nell’avvento di un regime sanitario globale, ma direi che la pandemia di Covid-19 dimostra che così non è. Sempre e ovunque, gli interessi politici ed economici degli Stati sono in tensione con l’interesse della salute delle popolazioni del mondo. Gli Stati non sono la soluzione del problema della sanità globale ma parte stessa del problema. 
L’idea di una conferenza internazionale sulla questione delle epidemie internazionali di febbre gialla e di colera circolava già nel 1834, ma la prima si tenne solo da luglio 1851 a gennaio 1852, a distanza di vent’anni dall’ingresso del colera in Europa. Fino al 1912 ne seguirono una dozzina, con convenzioni limitate alla febbre gialla, al colera e alla peste, significative meno per l’efficacia e più perché le controversie sull’eziologia delle malattie e sulle risposte conseguenti contribuivano all’emergere di un campo di competizione e di collaborazione tra le potenze maggiori1.  
Fino all’avvento della batteriologia, uno dei problemi che ostacolavano un coerente atteggiamento internazionale verso le epidemie era l’incertezza sulle loro origini, da cui conseguivano strategie diverse. Ispezioni sanitarie delle navi, la messa in quarantena di quelle sospette e il trasferimento in lazzaretti degli infetti erano le soluzioni logiche proposte dai contagionisti. A questi si poteva però obiettare che le quarantene non impedivano le epidemie né l’insorgere di focolai senza apparente contatto. I sostenitori delle spiegazioni miasmatiche erano dunque contrari a misure d’ostacolo al commercio internazionale; inoltre, questa prospettiva si prestava bene a interventi sanitari per trattare la «questione sociale» e le condizioni di salute del proletariato. La malattia era uno stato clinico dall’ontologia, se così può dirsi, non chiara: schematicamente, si poteva distinguere tra la linea che insisteva sulle più ampie cause sociali che predisponevano la suscettibilità alle infezioni, ben rappresentata dal prussiano Rudolph Virchow (1821-1902) - padre della medicina sociale, democratico avversario di Bismarck- che poteva quindi spingersi a chiedere ampie riforme sociali e politiche; e la linea che enfatizzava determinate cause immediate delle malattie, la sporcizia e i rifiuti che generavano miasmi dannosi alla salute, come era il caso per il britannico Edwin Chadwick (1800-90) autore nel 1834 della riforma delle Poor laws che istituì le workhouses (case di lavoro per i poveri) e promotore di norme d’igiene pubblica, in particolare per la sanità dei rifornimenti idrici, le fognature e i servizi igienici, incorporate per la prima volta in una legge del 1848. La versione borghese delle malattie infettive costruiva una catena causale che procedeva dal degrado morale alla noncuranza per l’igiene e dalle malattie alla povertà. Poteva quindi fondere il moralismo paternalismo con interventi sanitari, senza comunque nulla concedere alla teoria che causa prima delle malattie e del degrado dei quartieri proletari fossero invece lo sfruttamento dei lavoratori. Questa linea si adattava bene agli interessi del Regno Unito, Stato liberale con un vasto proletariato, grande potenza coloniale e liberista perché, ancora a metà del XIX secolo «officina del mondo» con interessi in tutto il mondo e grandi flussi d’esportazioni e importazioni. Il quadro era diverso per gli Stati mediterranei, l’Impero ottomano e l’Impero austro-ungarico, più direttamente esposti al «colera asiatico» e alle malattie portate dai movimenti dei pellegrini islamici. Per questi, la teoria miasmatica non spiegava perché le epidemie scoppiassero proprio nei porti, fossero episodi invece che stati continui, si trasmettessero da persona a persona. 
Intorno alla metà del XIX secolo l’atteggiamento tendeva ad essere più tollerante, ma le epidemie di colera e poi di peste dei decenni seguenti crearono spesso tensioni, specialmente tra il Regno Unito e le altre potenze; le grandi potenze si confrontavano nell’Ufficio sanitario egiziano e nel Consiglio sanitario di Costantinopoli. Un cambiamento importante si verificò negli anni Novanta: la Germania, che a sua volta era diventata la prima potenza industriale europea e aveva acquisito colonie in Africa, assunse un atteggiamento più liberale a proposito delle quarantene, portando su questa linea anche gli alleati della Triplice, l’Austria-Ungheria e l’Italia. Sicché nel 1892 la conferenza internazionale di Venezia regolò il controllo del colera lungo il canale di Suez e l’anno seguente, a Parigi, questa convenzione venne estesa ai controlli via terra. Nel 1897 anche la peste divenne motivo obbligatorio di notificazione internazionale da parte degli Stati. L’idea di un’agenzia internazionale della sanità circolò nelle conferenze sanitarie di Vienna (1874) ed è presente in una delle risoluzioni della conferenza di Washington (1881), col voto contrario di Francia, Stati Uniti e Giappone. D’altra parte, su iniziativa statunitense venne costituita nel 1902 la prima organizzazione sanitaria internazionale poi noto come Ufficio sanitario pan-americano, inizialmente con mezzi assai scarsi. Tra la conferenza internazionale di Parigi (1903) e la convenzione stipulata a Roma (1907), i bersagli della prevenzione della peste non furono più gli uomini ma i ratti, di cui era stato definitivamente stabilito, da eliminare dalle navi e dai porti, con controlli nei porti di partenza (invece delle quarantene nei porti di destinazione) e l’abolizione delle quarantene nei percorsi via terra (con l’eccezione di chi mostrava i sintomi del colera e della peste). 
La conferenza di Roma istituì l’Ufficio internazionale d’igiene pubblica (Office international d’hygiene publique, Oihp), con sede a Parigi, a cui aderirono alla fondazione Belgio, Brasile, Spagna, Usa, Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Romania, Russia, Svizzera, kedivato d’Egitto.Nonostante la fortissima impronta francese, l’Oihp non era sgradita alle altre potenze, in particolare al Regno Unito, perché i suoi compiti erano limitati a raccogliere e comunicare agli Stati membri informazioni relative a febbre gialla, colera e peste, i voti del suo Comitato permanente erano attribuiti in base ai contributi finanziari e «in nessun modo l’Ufficio può intromettersi nell’amministrazione degli Stati»2

2. La Società delle nazioni e gli Stati nazionali: salute globale e nazionalismo statalista 
E poi vennero la guerra mondiale, e dopo l’immane catastrofe, la Società delle nazioni (Sdn). La Sdn si distinse dai precedenti tentativi di mediazione tra le grandi potenze europee attraverso accordi e conferenze periodiche: era la prima organizzazione multilaterale stabile, comprensiva di quasi tutti gli Stati indipendenti allora esistenti, inclusi quelli dell’America centrale e meridionale, la Cina, il Giappone, la Liberia, il Siam, poi l’Impero etiope. Oltre alla salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale, suo scopo era promuovere la cooperazione tra le nazioni, con una generica prospettiva progressista. Il Patto costitutivo della Sdn affidava alla tutela mandataria delle «nazioni più progredite» i popoli che erano stati sotto il dominio degli imperialismi sconfitti ma che non erano ancora ritenuti in grado di governarsi da sé: tutela che doveva essere «una missione sacra di civiltà» (art. 22). Stabilì anche che gli uffici internazionali già esistenti sarebbero stati sottoposti alla Società (art. 24) e che gli Stati membri si sarebbero impegnati a stabilire umane ed eque condizioni di lavoro per gli uomini, le donne e i fanciulli, ad eseguire gli accordi sulla tratta di donne e fanciulli, sull’oppio e altre sostanze nocive e a «prendere provvedimenti di carattere internazionale per la prevenzione e la repressione delle malattie» (art. 23 a, c, f). A questo scopo vennero creati anche uffici e comitati ispirati all’idea del progresso sociale, come l’Ufficio internazionale del lavoro e il Comité de la santé, il cui braccio operativo era l’Organisation d’hygène de la Société des nations o Lhno, secondo l’acronimo inglese, diventata organizzazione permanente nel 1923. E non si deve dimenticare che nel 1913 era stato creato l’International health board (poi divisione) della Fondazione Rockefeller, di cui Packard scrive che «sarebbe diventata l’organizzazione sanitaria internazionale più potente e influente nella prima metà del XX secolo», operativa entro il 1951 in 80 Paesi e finanziatrice di scuole di medicina in 21.
Per la Lhno si posero diversi problemi, in parte conseguenti dalla preminenza delle grandi potenze nell’organizzazione, in parte specifici a partire da quello delle competenze relativamente ad organi già esistenti, come l’Ufficio internazionale d’igiene pubblica e l’Ufficio sanitario panamericano, per costituzione presieduto dal surgeon general degli Stati Uniti d’America. Problematico era l’ambito geografico operativo: la Lnho doveva occuparsi solo dell’Europa martoriata dalla guerra o anche del resto del mondo, ad esempio delle colonie? Problematica era la definizione della missione: l’organizzazione doveva limitarsi a raccogliere dati ed elaborare statistiche o anche promuovere attivamente misure legislative in campo sanitario? A questo proposito si scontrarono più volte George Buchanan, membro britannico del Comitato con un orientamento conservatore e Ludwik Rajchman, Direttore della Lnho fino al 1938 e poi primo direttore della Unicef nel secondo dopoguerra, che dei compiti dell’organizzazione aveva una visione molto ampia e internazionalista. I fondi erano scarsi, per cui un terzo del bilancio della Lnho venne finanziato dalla Fondazione Rockefeller. Sotto l’aspetto del finanziamento, la traiettoria storica dell’attuale Organizzazione mondiale della sanità, per cui nel XXI secolo sono diventate importantissime le donazioni private e i contributi volontari degli Stati, il ruolo della fondazione Melinda e Bill Gates e la collaborazione con il settore privato, appare come un regresso secolare. 
La Lnho non aveva autonome capacità d’intervento sanitario e i suoi compiti principali furono la raccolta e l’elaborazione di dati, gli studi e la comunicazione internazionale. Non fu mai un corpo monolitico, vi si confrontavano e operavano idee diverse della salute e della missione dell’organizzazione, ma sotto l’impatto della Grande depressione si orientò in direzione della medicina sociale, ben oltre il taglio iniziale. La Lnho agì entro i limiti dello Stato liberale e coloniale, ma fece anche esperienza e iniziò questioni che iniziavano a forzarli. Del resto, occorse una Depressione e un’ancor più immane tragedia perché i limiti storici di quella forma statuale e di quella situazione mondiale venissero oltrepassati e le contraddizioni spostate su un piano più alto. Questo può essere un bilancio: 

«Riassumendo: impegnandosi in meta-studi, avviando indagini su larga scala e a lungo termine, formulando standard e linee guida, mettendo insieme le competenze di diverse aree in studi completi della complessa e multiforme realtà della salute, la Lnho stabilì il modello di un’organizzazione sanitaria internazionale attiva, innovativa e interdisciplinare»3

Nonostante le malattie non riconoscessero i confini, anche in materia sanitaria l’atteggiamento degli Stati era in linea con il presupposto storico del sistema internazionale degli Stati definito dalla pace di Vestfalia: la non interferenza negli affari interni. David Fidler ha così riassunto le caratteristiche del regime sanitario internazionale vestfaliano: 

«L’attenzione del regime era rivolta alla gestione delle interazioni statali - commercio e viaggi - non alle condizioni di salute pubblica e ai problemi che esistevano nei territori sovrani degli Stati. Le regole non penetravano nello stato richiedendo miglioramenti del controllo nazionale delle malattie infettive. Come uno Stato organizzava e implementava la salute pubblica nel proprio territorio non era oggetto della diplomazia delle malattie infettive o del diritto internazionale sul loro controllo»4.

         Ci si deve chiedere se il regime sanitario del 2020, in piena pandemia di Covid-19, abbia superato i limiti del sistema vestfaliano. E dell’eredità del colonialismo. 

3. La Società delle nazioni e la medicina coloniale 
Il primo tratto saliente del regime sanitario internazionale emerso a cavallo dei secoli XIX e XX è che le convenzioni sanitarie internazionali miravano essenzialmente a proteggere le frontiere esterne degli Stati europei (il congresso degli Stati Uniti non ratificò l’adesione alla Società delle nazioni) e a regolare i reciproci rapporti inter-statali, mantenendo in sostanza lo statu quo coloniale fuori d’Europa. Negli anni Venti del XX secolo la Lnho estese la sua influenza in Asia, in Africa e anche nell’America meridionale, ma sempre entro i limiti dell’ordinamento esistente e in collaborazione con le autorità coloniali. 
Un tratto caratteristico degli interventi sanitari nelle colonie era la loro funzionalità agli interessi dei colonizzatori: per ridurre i rischi sanitari degli immigrati bianchi, degli amministratori e delle truppe, come è chiaro nel caso di Cuba e della zona del canale di Panama; per assicurare la continuità delle attività produttive e dei flussi commerciali; per il prestigio nell’arena internazionale. 
Le operazioni sanitarie nelle colonie erano condotte in stile militare, dall’alto verso il basso; miravano a colpire determinati parassiti e malattie - ad es. le zanzare per la malaria e la febbre gialla - non a costruire veri sistemi sanitari o ad intervenire sulle cause socioeconomiche delle malattie, in questo esprimendo una concezione limitata della salute. Solo negli anni Trenta anche per le colonie s’iniziò a ragionare in termini di medicina sociale e di cause sociali delle malattie, ma in termini di diagnosi di cause immediate, non di struttura sociale e di dipendenza politica. Questi interventi di per sé non modificavano sostanzialmente o su ampia scala il quadro epidemiologico dei colonizzati. 
Inoltre, le convenzioni internazionali riguardavano malattie considerate esotiche: colera, innanzitutto, poi febbre gialla e peste, a cui poi si aggiunsero tifo, vaiolo e febbre ricorrente. In linea col princìpio di non-interferenza nelle politiche interne e con l’obiettivo di minimizzare gli intralci al commercio internazionale, malattie infettive endemiche nei Paesi europei come tubercolosi e vaiolo non furono inizialmente oggetto di regolazione, benché ovviamente anch’esse fossero «esportabili». Colera, febbre gialla e peste erano anche le malattie con obbligo di notifica delle originarieInternational sanitary regulations dell’Oms adottate nel 1951, ridenominate International health regulations, (Regolamento sanitario internazionale, Rsi), emendate nel 1969 e nel 1981 per limitarle alle prime tre (il vaiolo era stato dichiarato eradicato nel 1979). Ovvio che la limitazione degli obblighi di comunicazione a poche malattie fosse funzionale anche a ridurre i vincoli al commercio. Solo dal 2005 il Regolamento sanitario internazionale prevede che 

«Ogni Stato parte deve notificare all’Oms - utilizzando i più efficienti mezzi di comunicazione disponibili, tramite il centro nazionale per il Rsi, ed entro 24 ore dalla valutazione delle informazioni relative alla sanità pubblica - tutti gli eventi che possano costituire all’interno del proprio territorio un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale» (art. 6, comma 1 Rsi). 

Attenzione: tutti gli eventi ecc., quindi non solo per poche determinate malattie, ed entro 24 ore. Quando a non rispettare questo termine temporale perentorio non è un Paese povero e sottosviluppato, che per motivi (diciamo così) finanziari non dispone di una sanità decente e a maggior ragione di un adeguato sistema di sorveglianza nazionale in grado di rilevare malattie insolite e rischiose per la comunità internazionale, ma una qualsiasi delle maggiori potenze economiche e militari del mondo, allora non sono accettabili scuse d’alcuna sorta e le conseguenze per la valutazione politica sono gravi. O dovrebbero esserlo, perché per i governi e un apparato come l’Oms possono intervenire considerazioni d’opportunità e di diplomazia; per singoli individui la cecità ideologica o l’ignoranza o la compensazione psicologica oppure, peggio ancora, una combinazione dei tre fattori. 

4. Dire la verità fa male agli affari: gli Stati, la diplomazia sanitaria e le emergenze sanitarie internazionali, tra cui la pandemia di Covid-19
Da sempre, ovunque e ancora oggi la sanità internazionale si muove in pratica tra le esigenze contraddittorie indicate all’inizio. Nella realtà dell’attuale regime sanitario e nel quadro del Rsidell’Oms, in certe circostanze drammatiche queste contraddizioni si manifestano innanzitutto nella difficoltà di dire spontaneamente e tempestivamente la verità.
Informare i cittadini e il mondo che è in corso un’epidemia pericolosa può costare molto: può danneggiare l’attività produttiva, le prospettive d’investimento dall’estero, il turismo, i trasporti aerei. Il rischio è che gli altri Paesi ricorrano a controlli, quarantene e divieti d’importazione - anche per pretestuosi motivi a scopo protezionistico - che rallentano o bloccano i flussi commerciali e scoraggiano gli investitori: l’epidemia di peste del 1994 costò all’India 1,8 miliardi di dollari. Inoltre, un’epidemia può compromettere l’immagine di un governo e di un regime politico, i «sogni» che si sforza d’alimentare, il suo prestigio internazionale; e ovviamente questi motivi economici e politici s’intrecciano. Per questo le convenzioni sanitarie internazionali hanno sempre avuto al loro centro la preoccupazione di limitare le misure precauzionali d’ostacolo ai flussi economici. Anche l’articolo 2 del vigente Rsi indica come suo scopo e ambito 

«Prevenire, proteggere, tenere sotto controllo e fornire una risposta sanitaria alla diffusione internazionale di malattie tramite modalità commisurate e limitate ai rischi per la sanità pubblica e che evitino inutili interferenze con il traffico e il commercio internazionale». 

Le norme del Regolamento riguardano i movimenti di persone e merci, in particolare attraverso porti e aeroporti, indicando le misure massime che possono essere adottate dagli Stati membri. In pratica, sanità internazionale e interessi economici sono sempre in tensione. A questo si devono aggiungere i problemi di consenso politico che possono nascere all’interno dei Paesi a causa delle epidemie e delle conseguenze sociali di blocchi delle esportazioni. Tutti questi elementi entrano in gioco nella gestione - o non-gestione - politica nazionale delle epidemie (non solo umane) da parte degli Stati e nella diplomazia sanitaria internazionale di cui l’Organizzazione mondiale della sanità è parte importante. 
Una questione di fondamentale importanza per la gestione accorta delle epidemie è la tempestiva e corretta comunicazione alla popolazione, agendo rapidamente con misure adeguate che, si deve presumere, siano attuate «nel pieno rispetto della dignità, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo» (artt. 3 e 32 Rsi), ovvero dei diritti civili e politici. Il concetto è senz’altro ragionevole, la sua attuazione risponde a un dovere dei governi nei confronti dei propri cittadini e dei popoli del mondo, etico-politico ancor prima che legale, ma l’ideale di civiltà del rispetto della dignità e delle libertà fondamentali non risponde affatto alla situazione della maggior parte dei regimi politici esistenti. Sicché nel mondo reale il dovere di notifica all’Oms può essere a lungo ignorato per ragioni economiche e politiche. Sono le ragioni per cui tra novembre 2002 e aprile 2003 il governo cinese cercò, nell’ordine, di sopprimere la notizia di una polmonite atipica divenuta nota come Sars, poi di minimizzarne la portata, affermando d’avere la situazione sotto controllo, infine malvolentieri decidendosi a collaborare con la Oms ma quando il virus s’era già diffuso all’estero e sotto la duplice pressione dell’estero e dell’impossibilità di continuare a impedire il diffondersi della malattia e della notizia nella stessa Cina5. L’epidemia di Ebola più estesa e grave per vite umane si è sviluppata tra la fine di dicembre 2013 e il dicembre 2016 – il suo termine ufficiale - non in Africa centrale (in Zaire, ora repubblica democratica del Congo) ma in Africa occidentale, tra Guinea, Liberia e Sierra Leone, seguendo le linee della deforestazione per far posto alla coltivazione commerciale della palma da olio. S’intende perché i governi nazionali ne abbiano a lungo minimizzato l’importanza6. E la stessa Oms si decise a dichiarare una Emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale (Public health emergency of international concern, Pheic) su questa epidemia di Ebola soltanto l’8 agosto 2014, dopo che si erano verificati casi negli Stati Uniti, nonostante da mesi Médecins sans frontières fosse lì impegnata allo stremo e da giugno avesse avvertito che l’epidemia era fuori controllo. Ne nacque una polemica, che si è ripetuta durante la ripresa dell’epidemia nel 2018-97.
Quelli prima indicati sono i motivi per cui anche nel 2020 per almeno due settimane le autorità cinesi (sicuramente quelle locali) hanno inizialmente tentato d’impedire la diffusione della notizia d’una nuova epidemia, cioè della malattia Covid-19 con cui il mondo sta ancora facendo i conti; sono gli stessi motivi per cui, in tanti Paesi non sono stati presi provvedimenti tempestivi per fronteggiare l’emergenza, fatto tanto più grave e intollerabile dopo l’allarme dell’epidemia in Cina e la chiara evidenza della diffusione internazionale del nuovo coronavirus, manifesta combinazione di cinismo e criminale incompetenza che ha causato decine di migliaia di morti e il ricorso a misure estreme e generalizzate di contenimento, che sarebbe stato possibile evitare prendendo sul serio il rischio, preparandosi per tempo e sforzandosi di delimitare immediatamente i punti caldi. 
La dichiarazione di una situazione pandemica o di emergenza sanitaria internazionale è una responsabilità pesante, nella quale si devono soppesare due aspetti: il rischio di diffusione geografica della malattia e l’importanza del pericolo per la salute pubblica. La stessa definizione di cosa sia una pandemia è problematica. L’Oms è stata criticata a causa del suo primo Pheic, nel 2009 a proposito dell’influenza suina, che si rivelò meno grave di quanto previsto: si richiede quindi che si tenga conto del pericolo reale, secondo una scala graduata. 
Anche a proposito di Covid-19 si sono verificate polemiche a proposito dei tempi di dichiarazione della Pheic da parte dell’Oms - il 30 gennaio, ma la dichiarazione era attesa già per la riunione del Comitato d’emergenza del 22-23, che si divise - e dello stato di pandemia, l’11 marzo. Questa volta però la polemica ha un segno opposto alla precedente: riguarda il ritardo e non la fretta della dichiarazione dello stato d’emergenza e della pandemia nonché l’aver accreditato la versione delle autorità cinesi di metà gennaio, per cui non c’era chiara evidenza della trasmissione da uomo a uomo, benché l’epidemia avesse già varcato i confini della Cina. 
A questo proposito osservo che accusare la Oms d’essere una organizzazione sinocentrica è assurdo perché, semmai, l’organizzazione è più che mai condizionata dall’azione di istituzioni con base statunitense come la Bill and Melinda Gates Foundation, da criteri manageriali basati sull’analisi di costi, benefici, performance, da un approccio medico che privilegia soluzioni tecniche per specifiche malattie8. In altri termini, la Oms vive più che mai la tensione tra la sua finalità costitutiva - la salute per tutti intesa in senso più ampio dell’assenza di malattia - e i metodi prevalenti nella sanità internazionale. Inoltre, l’evoluzione storica del regime sanitario internazionale a cavallo dei secoli XX e XXI è caratterizzata dal ruolo centrale degli accordi tra pubblico e privato e da tante ricche iniziative internazionali in cui l’Oms è solo uno degli attori e neanche il più importante. Il quadro complessivo del regime sanitario contemporaneo è quindi completamente diverso da quello dei primi decenni del dopoguerra e ancor più, sotto i profili programmatico e dell’indirizzo pratico, da quello degli anni Settanta del secolo scorso, culminante nella Dichiarazione di Alma Ata (1978). Allora la Oms puntava sulla sanità di base decentralizzata, un approccio non meramente medico ma sociale, tecniche appropriate alla situazione specifica dei Paesi, l’autonomia delle comunità locali, addirittura un Nuovo ordine economico mondiale, sostenendo la rivendicazione (illusoria) dei Paesi «in via di sviluppo» che ne costituivano il sostegno diplomatico più sicuro in seno all’assemblea delle Nazioni unite e nell’annuale Assemblea mondiale della sanità9. Quel che dovrebbe sorprendere è l’abisso tra quel periodo, in cui i «medici scalzi» cinesi potevano essere portati tra gli esempi di un approccio diverso da quello tecnologico «occidentale», e la facilità con cui la Cina si è inserita in questo nuovo quadro, con la sua autonoma diplomazia sanitaria che combina in modo peculiare – anche nella sanità - un atteggiamento politico vestfaliano all’apertura neoliberista nei confronti delle public-private health partnerships al più alto livello, incoraggiate con decisione dal 2013: certo non propone un modello che possa dirsi alternativo all’esistente10. Tra l’altro, questi sono tutti motivi per cui sono risibili le ipotesi di un qualche complotto di matrice statunitense o dell’industria farmaceutica: non hanno alcun bisogno di destabilizzare l’ordine esistente di cui sono a capo. 
Il nocciolo della questione è che sulla scena della sanità mondiale la Oms ha perso la posizione di indiscussa protagonista principale a favore d’una molteplicità di iniziative pubblico-private la cui ragion d’essere è la diffidenza nei confronti delle burocrazie statali e della stessa Oms, secondo una logica di fondo di matrice «neoliberista» ma applicata in modo modificato al campo specifico della salute. Ciò implica che la diplomazia sia diventata per la Oms ancor più importante e difficile di prima, specialmente se si tratta di grandi potenze che si trova preferibile non irritare, tanto più nel mezzo dell’emergenza. Questo può anche spiegare le lodi per la gestione dell’epidemia di Covid-19 nella Repubblica popolare cinese, altrimenti incomprensibili alla luce del comportamento iniziale e dei tempi di comunicazione dell’epidemia, questioni usate in modo affatto ipocrita dall’amministrazione Trump ma che non per questo sono false. 
La salute è sempre più una questione globale, non solo in senso normativo e umanitario ma proprio di causalità e di dimensioni socioecologiche. Si può dire lo stesso della sanità? Una politica sanitaria globale e multidimensionale, per cui i confini statali cessino d’essere ostacoli, come è nel sistema vestfaliano, e sottratta alla logica del profitto e dei criteri managerial-finanziari è l’unica all’altezza dei problemi contemporanei, ma è possibile entro l’economia mondiale e il sistema internazionale degli Stati? Anticipo le risposte: decisamente no, a entrambe le domande. Tuttavia, il regime sanitario internazionale contemporaneo non è vestfaliano nello stesso senso dell’anteguerra o anche solo di 25 anni fa. L’articolazione di Stato e mercato, poteri pubblici e poteri privati, può variare nel tempo ma essi non sono alternativi bensì complementari: oggi cooperano - e si integrano - nella economicizzazione della vita e della salute. La pandemia di Covid-19 dimostra i risultati di questo processo su scala mondiale nell’assoluta impreparazione nel fronteggiare l’emergenza, da cui sembra conseguire un’apparente incoerenza o oscillazione tra due modalità d’azione e di discorso, variamente combinate nei diversi Paesi e in diversi momenti: tra l’intervento autoritario e di sospensione della vita sociale e l’enfasi sulla responsabilità dei comportamenti individuali nella «nuova normalità» del consumo e del lavoro. Entrambe le modalità presuppongono che la collettività, qualcosa di più della somma aritmetica degli atomi individuali, sia priva di potere. 
Nell’ultimo quarto di secolo il regime sanitario internazionale è cambiato molto e velocemente nel primo decennio del nuovo secolo. Per motivare le precedenti risposte occorre considerare in modo più dettagliato la traiettoria storica della Oms, i caratteri del regime sanitario internazionale contemporaneo e le reazioni alla pandemia di Covid-19.

Note 
1) Per la ricostruzione storica ho utilizzato: Dorothy Porter, Health, Civilization and the State. A history of public health from ancient to modern times, Routledge, Londra 1999; di David P. Fidler: «The globalization of public health. The first 100 years of international health diplomacy», Bulletin of the World Health Organization, 79 (9), 2001 e SARS, governance and the globalization of disease, Palgrave MacMillan, 2004; di Jeremy Youde: «Enter the fourth horseman. Health security and international relations theory», Whitehead Journal of Diplomacy and International Relations, 4, 2005 e Biopolitical Surveillance and Public Health in International Politics, Palgrave Macmillan, 2009; Iris Borowy, Coming to terms with world health. The League of nations health organisation 1921-1946, Peter Lang, Francoforte sul Meno 2009; Nancy Krieger, Epidemiology and the people's health. Theory and context, Oxford University Press, New York 2011; Mark Harrison, Contagion. How commerce has spread disease, Yale University Press, 2012; Randall M. Packard, A history of global health. Interventions into the lives of other peoples, Johns Hopkins University Press, Baltimora 2016; Frank M. Snowden, Epidemics and society. From the Black death to the present, Yale University Press, 2019.      
2) Rispettivamente, articoli 4, 6 e 2 dello statuto dell’Oihp, https://www.jstor.org/stable/pdf/4562416.pdf?refreqid=excelsior%3A0612e7cbe5bfa07bad939adad3907e37
3) Iris Borowy, Coming to terms with world health. The League of nations health organisation 1921-1946, Peter Lang, Francoforte sul Meno 2009, p. 287. 
4) D. P. Fidler, SARS, governance and the globalization of diseaseop. cit., 2004, p. 29.
5) ibidem. Si veda anche il primo capitolo «The great bird flu blame game» in Big farms make big flu. Dispatches on influenza, agribusiness, and the nature of science, Monthly Review Press, 2016, dell’epidemiologo e biologo evolutivo Rob Wallace.
6) F. M. Snowden, Epidemics and society. From the Black death to the presentop. cit.; Robert G. Wallace-Rodrick Wallace, a cura di, Neoliberal Ebola. Modeling disease emergence from finance to forest and farm, Springer International Publishing, 2016; R. G. Wallace et al., «Did neoliberalizing West African forests produce a new niche for Ebola?», International journal of health services, 46, n. 1, 2015.
7) Monica Rull, «The Ebola wake-up call. The system’s failings in responding to outbreaks», International development policy-Revue internationale de politique de développement [online], dicembre 2015, URL https://journals.openedition.org/poldev/2178; discussione tra M. Rull, Ilona Kickbusch, Helen Lauer, «International responses to global epidemics: Ebola and beyond», International development policy-Revue internationale de politique de développement [online], dicembre 2015, https://journals.openedition.org/poldev/2178D. P. Fidler, «To declare or not to declare. The controversy over declaring a public health emergency of international concern for the Ebola outbreak in the Democratic Republic of the Congo (September 27, 2019)», Asian journal of WTO & international health law and policy, vol. 14, n. 2, 2019. pp. 287-330, https://ssrn.com/abstract=3460190    
8) Il riferimento è a iniziative come l’Alleanza mondiale per i vaccini e l’immunizzazione (Gavi Alliance, 1999), Medicines for malaria venture (Mmv, 1999), il Fondo global per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria (dal 2002), Global financing facility (Gff) della Banca mondiale, allo U.S. President’s emergency plan for Aids Relief to fight Aids in Africa and Caribbean (Pepfar) lanciato dall’amministrazione Bush nel 2003, ai tanti programmi di public-private health partnerships (pphps) il cui primo esempio fu l’International Aids vaccine initiative (Iavi) lanciata nel 1996. 
9) Per i cambiamenti dell’orientamento della Oms: Nitsan Chorev, The World health organization between North and South, Cornell University Press, 2012.
10) Esempi sono articoli come questi, della versione digitale internazionale di China daily di proprietà del Partito comunista cinese e del Consiglio di Stato: «Unique advantages in public-private health partnerships for biopharma», 9 aprile 2019, http://www.chinadaily.com.cn/cndy/2019-04/09/content_37456194.htm; «Global health security must be multiplayer», 29 aprile 2020, in cui l’autore auspica non solo un maggior contributo della Cina alla Oms ma anche che «nello scegliere tra le numerose agenzie multilaterali creative e non tradizionali con cui lavorare, la Cina dovrebbe dare la precedenza a quelle come la Bill & Melinda Gates Foundation, il Global Fund, Cepi e Gavi che condividono la stessa priorità». 





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