di Michele Nobile
Ho il piacere e l’onore di collaborare con Michele Nobile dalla metà degli anni ’70, da quando, di me più giovane e appena uscito dal liceo, s’impegnò attivamente nel movimento rivoluzionario italiano e internazionale. Conosco il suo carattere modesto, schivo e restio rispetto a qualsiasi ambizione di carriera politica o di spettacolarizazione della propria enorme preparazione teorica. Per questo mi assumo la responsabilità – e spero che lui non me ne abbia – di proporre questo suo nuovo testo come un Manifesto politico per la fase che stiamo vivendo e per quella che la pandemia capitalistica sta aprendo di fronte a noi.
Considerare questo testo come un Manifesto politico internazionale non implica alcun vantaggio per Michele o per il blog rossoutopico al quale egli collabora. Non implica nemmeno alcuna proposta organizzativa o alcuna demagogia agitazionistica. È solo un Manifesto delle coscienze che può essere ignorato o valorizzato.
Tutto qui, ma è moltissimo perché nel profluvio di testi che stanno dilagando in Rete e nel mondo, questo Manifesto può rappresentare una solida pietra di partenza: senza secondi fini elettorali, senza ambizioni di carriera politica o accademica, senza demagogia gruppettara e minoritaria.
Il mondo andrà come andrà, il capitalismo purtroppo sopravviverà anche a questo suo nuovo crimine (qui descritto in poche parole da Michele), ma alcuni di noi non gli concederanno la cosa più importante: la nostra libertà di pensiero e la nostra convinzione che solo l’abolizione del capitalismo su scala mondiale (Cina compresa) potrà preparare l’umanità alle prossime gravissime emergenze climatiche ed epidemiologiche rispetto alle quali questa pandemia capitalistica da Coronavirus sembrerà solo una piccola prova generale.
Grazie Michele.
P.S. È evidente che più questo testo circolerà tradotto in varie lingue, meglio sarà per tutti noi. Ma poiché stiamo vivendo un periodo d’inflazione planetaria di testi politici sul Coronavirus (sintomi di un disperato bisogno di presenzialismo da parte degli individui afflitti dall’angoscia di isolamento, a riprova della nostra impotenza anticapitalistica storica e collettiva), sarà indispensabile scegliere: quali testi far circolare, quali tradurre, quali considerare come Manifesti politici. Anche questa decisione, che invito ad assumere dopo aver letto il testo, sarà importante per chi si ripromette d’influenzare il prossimo futuro.
(r.m.)
UN SOLO MONDO, UNA SOLA SALUTE, UNA SOLA UMANITÀ
1. Situazione pandemica e questioni di metodo politico
2. Diagnosi: «il nemico principale si trova nel proprio Paese»
3. Terapia? Struttura e congiuntura, politica ed economia
4. Per un capitalismo più sano? lo Stato contro la pandemia?
5. Un solo mondo - Una sola salute - Una sola umanità
1. Situazione pandemica e questioni di metodo politico
All’inizio di marzo - una settimana prima che l’Organizzazione mondiale della sanità si decidesse a dichiarare ufficialmente che quella in corso era una pandemia - ero preoccupato dal fatto che nella sinistra non-governativa si sottovalutasse o addirittura si negasse il rischio reale posto dal nuovo coronavirus Sars-CoV-2 («La diffusione del coronavirus annuncia pericoli maggiori, http://utopiarossa.blogspot.com/2020/03/la-diffusione-del-coronavirus-annuncia.html). Questo avrebbe comportato sia sottovalutare il pericolo immediato per l’insieme della popolazione e specialmente per medici e infermieri, ma anche per tutti quei lavoratori dell’industria e dei servizi costretti a lavorare; sia trovarsi sprovvisti di argomenti critici nei confronti delle autorità politiche locali e nazionali. E in termini più generali significava non cogliere il fatto che questa pandemia è l’ennesimo campanello d’allarme di un insieme di processi strutturali che generano nuove malattie e il riemergere di altre già note: sia a causa delle trasformazioni degli ambienti naturali, sia a causa dell’industrializzazione nell’allevamento degli animali. Il tutto aggravato dalle politiche sanitarie perseguite da decenni.
In questo intervento m’interessa evidenziare alcune delle implicazioni di metodo politico che scaturiscono dall’idea della pandemia come fatto sociale totale: che chiama in causa contemporaneamente tutte le dimensioni della vita sociale e che entra simultaneamente nell’esistenza quotidiana di almeno metà dell’umanità: oltre quattro miliardi di persone.
Sono imprescindibili la critica puntuale sia delle misure dei governi nella congiuntura, pandemica e postpandemica, che delle politiche della sanità attuate negli ultimi decenni. Ma ci si può fermare a questo? Ritengo di no, se si prende sul serio la pandemia come fatto sociale totale. Il punto è importante già nella congiuntura attuale perché le critiche, anche locali, saranno tanto più efficaci quanto più radicali. Ed è anche più importante per la prospettiva politica anticapitalistica dei prossimi anni. Da questa tragica esperienza c’è molto da imparare. Riavutisi dal tramortimento della «sospensione» della vita sociale, milioni di persone si faranno domande o saranno disposte ad ascoltarle, forse in tanti se le stanno già facendo.
Giusto per fare un esempio, si considerino coloro che sono ora celebrati come gli eroi della lotta al coronavirus, gli infermieri e i medici che, in una grande epidemia mal gestita, combattono il nemico male attrezzati. Questi - i «reduci» dalle trincee nella guerra al coronavirus - dovrebbero essere i primi a pretendere che si rovesci la tendenza in corso da decenni, che asservisce la politica sanitaria e la ricerca scientifica al profitto e alle sedicenti compatibilità di bilancio. È una precisa responsabilità dei lavoratori della sanità e dei ricercatori scientifici andare oltre la responsabilità di una particolare politica, estendere l’epidemiologia dal campo del microscopico, dei batteri e dei virus, a quello macrosociale, delle cause sistemiche, sociali ed ecologiche. Questa è una linea che già esisteva negli anni Settanta del secolo scorso, in Italia ne è testimonianza Medicina democratica. È una potenzialità implicita al concetto «Un solo mondo - Una sola salute», adottato pochi anni fa, dopo la pandemia d’influenza aviaria dalle agenzie delle Nazioni Unite, per cui la salute umana, degli animali e dell’ambiente sono un tutt’unico. Si tratta d’estendere e radicalizzare questa visione, ponendo al suo centro la lotta contro la logica dell’accumulazione del capitale, che sistematicamente subordina alle sue necessità la salute pubblica e dei lavoratori e la possibilità di un rapporto razionale tra società e natura su scala mondiale.
Quindi discuterò della questione di metodo mettendo in contrasto questo punto di vista con quello di Alain Badiou, secondo il quale la situazione pandemica - espressione che non esito a far mia - non ha alcuna specificità.
Non è casuale - ed è significativo - che Badiou ricorra al confronto tra guerra e pandemia: lo faro anch’io. Non ho alcun interesse a una discussione filosofica. Se prendo come riferimento l’intervento di Badiou è solo perché egli mi pare ben esplicitare quanto è presupposto implicito - forse anche inconsapevolmente - in vari altri interventi di un’ampia area eterodossa.
Badiou ha scritto che «l’epidemia in corso non avrà, in quanto tale, alcuna conseguenza politica notevole in un paese come la Francia», e che «bisognerà anche passare per una critica serrata di ogni idea secondo la quale dei fenomeni come un’epidemia aprono, per se stessi, a qualsiasi cosa di politicamente innovativo». Il filosofo insiste sul fatto che, si tratti di guerra o d’epidemia, «la congiuntura obbliga lo Stato a non poter gestire la situazione se non integrando gli interessi di classe, di cui esso è il fondamento di potere, in interessi più generali, e ciò in ragione dell’esistenza interna di un “nemico” esso stesso più generale, che può essere, in tempi di guerra, l’invasore straniero, ed è, nella situazione presente, il virus Sars2».
Da qui anche la tesi che la pandemia rientri nella categoria del «“niente di nuovo sotto il sole”contemporaneo» (Alain Badiou, «Sulla situazione epidemica», http://filosofiainmovimento.it/sulla-situazione-epidemica/; originale in francese pubblicato il 27 marzo).
2. Diagnosi: «il nemico principale si trova nel proprio Paese»
Il nocciolo di verità dell’argomentare di Badiou è che guerre ed epidemie sono fatti ricorrenti nell’economia mondiale capitalistica. Ed è vero che, come in guerra, durante la pandemia il pilastro della politica borghese è l’union sacrée intorno alla bandiera, l’appello allo spirito nazionale e alla collaborazione tra le classi, assorbite nell’amorfa entità del popolo.
Come altri, continuerò a insistere sul fatto che la pandemia attuale era già stata annunciata da diverse altre epidemie; similmente, si può dire che anche la Prima guerra mondiale era stata annunciata da tutta una serie di incidenti e di guerre locali - dalla Guerra ispano-statunitense alla crisi cinese, dalla corsa alla costruzione di grandi corazzate alle due crisi marocchine, dalla Guerra russo-giapponese del 1904-5 alle guerre balcaniche del 1912-3. Questo ci dice che le guerre - e le carestie e le epidemie - non sono frutto del caso ma radicate nella struttura del sistema. E allora? Ne consegue forse che la Prima guerra mondiale non era altro che «niente di nuovo sotto il sole»? Che non fu un salto di qualità della storia mondiale, una situazione inedita e specifica per ampiezza e intensità? Forse non fu qualcosa che scosse profondamente l’ordine del mondo e sconvolse il socialismo internazionale? Non ne risultarono la Rivoluzione russa e un biennio di crisi prerivoluzionarie in Ungheria, Germania, Austria, per essere brevi? Decisamente, qualcosa di nuovo apparve sotto il nostro sole.
La costruzione dell’immagine del nemico esterno è parte integrante e fondamentale non del modo con cui lo Stato capitalistico fa valere interessi più generali - come scrive Badiou - ma precisamente del modo in cui lo Stato capitalistico e i suoi servitori travestono e fanno valere l’interesse della classe dominante o, se si preferisce e se gli attori sono perspicaci, l’interesse generale del sistema capitalistico. In guerra, la difesa della nazione dall’aggressore è sempre la copertura delle ragioni sistemiche della guerra stessa e della sua natura imperialistica; fatto che non esclude, sul piano dell’analisi, che uno Stato o un capitalismo particolari siano interessati a modificare lo statu quo e, con le loro azioni, siano i detonatori del conflitto.
Allo scoppio della guerra mondiale, il primo compito politico degli internazionalisti fu chiarire che non si trattava d’una guerra difensiva ma d’una guerra imperialistica, in cui i proletari erano chiamati a massacrare altri proletari e a farsi a loro volta massacrare per gli interessi delle classi dominanti. In termini contemporanei, gli internazionalisti dovevano decostruire il discorso dei governi, della stampa nazionalista, dei socialpatrioti. Dovevano chiarire che non si trattava della proditoria aggressione di un nemico esterno, ma dell’aggressione di tutte le classi dominanti in conflitto sia contro il «proprio» proletariato sia contro i proletari delle altre borghesie imperialistiche. Conseguenza, con le parole di Karl Liebknecht e degli internazionalisti tedeschi: «il nemico principale si trova nel proprio Paese».
Di fronte alla pandemia di Covid-19 - come è stata asetticamente denominata la sindrome - abbiamo un problema, certo non identico, ma simile. Esistono ceppi virali generati o diffusi dall’attività umana, nei grandi allevamenti d’animali e per alterazione di determinati equilibri ecologici. Nel caso del coronavirus Sars-CoV-2 si può escludere che sia stato prodotto in laboratorio (ma non del tutto che esso sia sfuggito da un laboratorio a Wuhan): per quanto ne sia ancora incerta l’origine, il coronavirus ha una sua storia naturale, che potrà essere compresa dall’indagine filogenetica. Dunque, in questo caso abbiamo a che fare con un agente la cui genesi biologica è - molto probabilmente - esterna alle istituzioni. Tuttavia, nel momento in cui il coronavirus è entrato in contatto con la specie umana, come per gli altri agenti patogeni la sua storia non è più solo storia naturale. E il modo in cui la sindrome che esso genera è trattata è un fatto socialmente determinato, frutto di scelte politiche che esprimono rapporti sociali iniqui e patogeni. È in questo senso che il nemico-virus non è più un agente esterno, ma è diventato interno allo stesso mondo sociale.
3. Terapia? Struttura e congiuntura, politica ed economia
Per quanto a me noto, dappertutto il canovaccio delle reazioni politiche alla diffusione nazionale del coronavirus è stato essenzialmente il medesimo in tutti i Paesi, nessuno escluso. Le sfasature temporali nell’adozione di misure di «distanziamento sociale» e di quarantena hanno fatto pensare a diversi modelli nazionali di gestione dell’epidemia, ma si è visto che in sostanza così non è: sotto la pressione della diffusione dell’epidemia la convergenza è notevole.
Una delle differenze tra la Repubblica popolare cinese e il resto del mondo è che lì tutto è accaduto prima e più velocemente che altrove. A parte le improvvisate delle maschere locali - i vari Arlecchino, dottor Balanzone, Capitan Fracassa, Meneghino, Pulcinella e Pantalone - ovunque la vicenda è partita dalla sottovalutazione, quando non dall’esclusione, dell’esistenza del rischio; passata poi dall’atto del disorientamento e della confusione, all’allarme, al conflitto di competenze, allo scaricabarile, mentre si scopriva che mancavano pure le «armi» per i combattenti di prima linea, e gli ospedali e le case di riposo diventano bombe epidemiologiche; fino al penultimo atto quando, non avendo voluto prima ridurre produzione e vendite, le autorità sono state costrette a trangugiare e a far trangugiare l’estremo rimedio, quello della «sospensione», più o meno ampia e veloce, della vita sociale sull’intero territorio nazionale, con il crollo di vendite e produzione. L’ultimo atto sarà quello post-pandemico: è ancora da recitare, e la determinazione di quando inizierà è pure parte del problema.
Ho voluto esporre la dinamica delle reazioni politiche come un canovaccio della commedia dell’arte, ma gli interpreti sono pessimi e la storia reale è tragica. È una storia criminale senza attenuanti, perché settimane prima che la situazione pandemica divenisse incontrollabile, le dimensioni dell’epidemia in Cina - e poi in Italia - avrebbero dovuto allarmare tutti i governi e spingerli immediatamente a prepararsi al peggio. La diffusione internazionale del virus era inevitabile, ma evitabile era la sua diffusione massiccia e trovarsi con i sistemi sanitari sull’orlo del collasso. Ovunque, profitti e produttività, preoccupazione per i danni economici al turismo, ai trasporti, al commercio e alla continuità dei flussi della divisione internazionale del lavoro, sono stati anteposti alla salute dei lavoratori e di tutti i comuni cittadini. E se si mettessero in pratica posizioni come quelle di Matteo Renzi - «riaprire tutto» al più presto - che certamente il padronato riproporrà, ci sarebbero ottime ragioni per dire che si tratta di reato d’epidemia colposa e di un attentato alla salute pubblica.
Dell’impreparazione e della negligenza con cui è stata affrontata questa pandemia - e di ciò che evidenzia in modo drammatico nei sistemi sanitari e nelle politiche sanitarie - si dovrà presentare il conto alle autorità politiche di tutti gli Stati, nessuno escluso, dalla Cina all’Italia, dal Nicaragua agli Stati Uniti.
Sul «ritorno alla normalità» sanitaria bisognerà essere molto vigili, sia per la definizione di quel che può dirsi la soglia, sia perché non è credibile che si «normalizzi» contemporaneamente un intero territorio nazionale e, ovviamente, il mondo. E, augurando che non ci sia una seconda ondata di Covid-19 in autunno, la sicurezza si avrà solo col vaccino.
Già ora, governi e banche centrali si sforzano d’ossigenare l’economia, con tanto maggior impegno di quello non profuso per creare sistemi sanitari resilienti a uno shock e per prepararsi all’arrivo del coronavirus. E non c’è dubbio che le conseguenze della depressione economica occuperanno sempre più spazio nel dibattito politico e nell’iniziativa dei governi e del padronato. Per l’ennesima volta il padronato pretenderà la «tregua sociale» - Bürgerfrieden dicevano in Germania nella Grande guerra - in questa occasione sotto la bandiera dell’emergenza economica da coronavirus, indotta dagli shock simultanei sia dal lato dell’offerta e della produzione che da quello della domanda e del consumo. Sotto il tallone della disoccupazione, si riproporrà lo scambio tra la sicurezza della salute dei lavoratori e dei comuni cittadini e posti di lavoro.
Quel che desiderano governi e padroni è che la pandemia sia assimilata a una malattia, penetrata dall’esterno in un corpo altrimenti sano, una tragedia nazionale che ci si lascia alle spalle con la guarigione e la normalizzazione, per poter riprendere «da dove eravamo». Si cercherà di ridurre alle sue conseguenze economiche un fatto sociale totale, sintomatico di un fallimento complessivo e multidimensionale. La produttività tornerà a prevalere sulla sicurezza dei lavoratori, le compatibilità di bilancio si faranno valere ancora una volta sulla pubblica sanità. Gli allevamenti industriali e gli squilibri ecologici, all’origine dello sviluppo e diffusione di nuove malattie, continueranno e, dopo la pausa imposta dal crollo produttivo, le emissioni di carbonio riprenderanno come prima o più di prima, per compensare i profitti persi. Questo è lo scenario di base della normalità patogena.
Riprendiamo l’esempio bellico. Giusto a ridosso della guerra mondiale, Rosa Luxemburg spiegò le «radici economiche» dell’imperialismo con le necessità della riproduzione allargata del capitale. Ma oltrepassava i limiti della critica economica, vedendo nell’imperialismo sì la forma d’esistenza del capitalismo come sistema ma, proprio per questo, anche l’unità d’economia, politica e ideologia. Quando la guerra infine scoppiò veramente, Luxemburg, Lenin, Trotsky e i rivoluzionari del tempo non la ridussero a un fatto economico, a un «niente di nuovo»: l’assunsero nella sua specificità, come fatto sociale totale che richiedeva un totale ribaltamento dell’ordine sociale esistente, non proposte di riforma sociale, di disarmo e d’arbitrato internazionale, di cui facevano beffe feroci. Questa era la differenza tra una rivoluzionaria come Luxemburg e un brillante economista marxista, ma politicamente centrista come Rudolf Hilferding, futuro ministro delle finanze nella repubblica di Weimar (non a caso ministro in due momenti critici: nel 1923 e nel 1928-9).
4. Per un capitalismo più sano? lo Stato contro la pandemia?
Badiou afferma che occorre criticare l’idea che «fenomeni come un’epidemia aprono, per se stessi, a qualsiasi cosa di politicamente innovativo». Giusto. Chi scrive non ha mai pensato che da una crisi economica scaturisca automaticamente la radicalizzazione del conflitto di classe, men che mai una rivoluzione sociale. Scrissi qualcosa su questo in conclusione di un libro del 2006, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione; sulla stessa linea continuai nel 2008-9, quando molti erano in piena aspettativa messianica, o per Barack Obama o per le speranze nel crollo del neoliberismo.
Certamente, in se stessa, un’epidemia produce malattia non coscienza politica: non è il virus che «illumina» le coscienze. Un sistema sociale come quello capitalistico, che è riuscito a superare, perfino a prosperare, sopra e oltre situazioni per esso catastrofiche come la Prima guerra mondiale, l Rivoluzione russa, l’influenza «spagnola», la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale, sicuramente non crollerà a causa del coronavirus Sars-CoV-2. E aggiungo: nonostante la professione di fede liberista, papà Stato e mamma Banca centrale fanno del loro meglio per rimediare ai cosiddetti «fallimenti del mercato», quando questi sono abbastanza grandi da minacciare la riproduzione allargata del capitale e la continuità dello sfruttamento del lavoro vivo. Sia pur tardi e male, non è che nella situazione pandemica governi e banche centrali siano e saranno inerti sul terreno degli interventi di politica economica.
In assenza di lotte sociali offensive, il neoliberismo verso il basso potrebbe perfino uscirne rafforzato. Vedremo se ne uscirà rafforzato anche il nazional-populismo di destra ma, nel complesso, la postdemocrazia non ha alcun bisogno d’evolvere in qualche forma di totalitarismo. Ai regimi postdemocratici è sufficiente incorporare nell’arsenale dei loro strumenti politici l’esperienza del distanziamento sociale, delle quarantene, del controllo tranne app e via elencando. Il cosiddetto neoliberismo non è affatto contrario all’interventismo statale: è una forma di ri-regolazione, non di mera de-regolazione dei rapporti sociali. Quel che conta è che la gestione politica sia esercitata da un’élite, che in questo caso può anche - ma tardivamente - avvalersi di una espertocrazia. E ciò è tanto più agevole perché, che la loro origine sia nella Seconda o nella Terza internazionale, partiti e sindacati «di sinistra» sono politicamente, idealmente, umanamente, regrediti al di sotto del livello prenovecentesco. Credo che i vari Eduard Bernstein si sarebbero vergognati rispettivamente della qualità dei «miglioristi» e dei «centristi» contemporanei.
È sufficiente imputare al neoliberismo la responsabilità della pandemia, per proporre un rilancio «keynesiano» e la lotta contro i vincoli dell’eurozona, per rilanciare il welfare State e l’intervento pubblico, necessario a fronteggiare la depressione economica incipiente?
Se non c’è «“niente di nuovo sotto il sole” contemporaneo», sarà facile rispondere di sì. Si continuerà come già prima, a criticare una particolare politica capitalistica detta neoliberista. Come in guerra, nella pandemia lo Stato può dimostrare la sua minore o maggior potenza e preveggenza, relativamente ad altri Stati, e maggior o minor capacità d’organizzare consenso intorno alla sua politica. Allora, le critiche parziali e nazional-popolari verteranno sull’efficacia della condotta della guerra, sulle virtù marziali dei soldati e sul genio o l’incapacità dei generali, oppure sugli obiettivi che con la guerra ci si propone di conseguire. Non si metterà in discussione la guerra in sé, che da un secolo viene sempre presentata come difesa dall’aggressione: la responsabilità è scaricata sullo straniero invasore, che siano bipedi umani, la Commissione europea o un virus. Al tempo della Prima guerra mondiale questa era grosso modo la posizione dei «centristi» del socialismo internazionale, che rimanevano ancorati alla cara, vecchia, sperimentata tattica ortodossa (che però presupponeva «per il sistema, non un uomo, non un soldo!»).
Le osservazioni che seguono riguardano una logica politica complessiva, non specifiche proposte di politica economica alternativa, che vanno discusse nel merito.
Per quanto razionali e ipoteticamente praticabili, bisogna aver chiari i limiti delle proposte di politica economica alternativa al neoliberismo.
A differenza dei movimenti d’opinione o delle manifestazioni episodiche o di supporto a iniziative d’apparati di partito o sindacali, i movimenti sociali di massa non sorgono intorno a un piano complessivo definito a tavolino, bensì per iniziative di lotta più o meno spontanee, con pochi, semplici obiettivi ben determinati. Non esistono obiettivi in assoluto rivoluzionari e non occorre chiedere la Luna: sono la dinamica dello scontro in una particolare congiuntura, l’estensione delle lotte e la crescita della coscienza politica di massa attraverso l’esperienza diretta, che possono portare a conquistare importanti riforme sociali oppure a porre la questione del potere.
Se la pandemia non insegna nulla di nuovo, allora sarà come criticare i dettagli e non vedere l’insieme, rimanere nei limiti del sindacalismo o del riformismo politico, scollegando la lotta sui problemi immediati da una prospettiva anticapitalistica più ampia. Non si coglieranno le potenzialità di critica totale del capitalismo implicite nella situazione pandemica, per dirla à la manière de Badiou.
Viceversa, la critica delle misure congiunturali di politica economica e del neoliberismo ha tutto da guadagnare proprio dall’assumere che il sistema sociale capitalistico sia intrinsecamente patogeno e che il cosiddetto neoliberismo ne sia solo la sua versione più recente.
Questo richiede però che si enfatizzi la pandemia come fatto sociale totale e che si prendano sul serio la novità e la specificità della situazione pandemica. Altrimenti, si cadrà nella trappola riduzionista: ci si occuperà delle conseguenze economiche della pandemia, non delle sue cause profonde. Si sottovaluterà ciò che la situazione pandemica può comportare per lo sviluppo di una coscienza anticapitalistica di massa, a patto che la si assuma - al contrario dei sostenitori del sistema - come fatto sociale totale, sintesi di contraddizioni sistemiche, non mero prodotto di una particolare politica e di una particolare frazione del ceto politico.
Anche più che nel 2008-9, in quanto fatto sociale totale la pandemia evidenzia i limiti di un approccio economicistico e statalistico, che in sostanza concepisce i movimenti di massa come mezzi di pressione sulle istituzioni e serbatoio elettorale, con l’obiettivo di un capitalismo più sano e «sostenibile».
In breve: la situazione pandemica passa anche attraverso la critica del neoliberismo ma, obiettivamente, impone d’assumere una prospettiva più generale, di radicalizzazione multidimensionale della critica dell’esistente, una vera critica radicale dell’economia politica.
5. Un solo mondo - Una sola salute - Una sola umanità
Nelle «12 tesi contro la pandemia politica e sociale» concludevo: «Anche per la prevenzione e la migliore gestione delle epidemie la democrazia non è un’opzione a cui si può rinunciare, a meno di non accettare che i cittadini e i lavoratori siano ridotti a oggetti ai quali imporre restrizioni invece che attivati come soggetti della prevenzione e della rimozione delle patologie biologiche e sociali. Per questo le quarantene e la “sospensione” della vita sociale sono testimonianza di un fallimento sistemico dell’ordine sociale capitalistico del mondo» (http://utopiarossa.blogspot.com/2020/03/12-tesi-contro-la-pandemia-politica-e.html).
Qui «fallimento» non è sinonimo di crollo o di aspettativa di chissà quale epocale trasformazione socioeconomica e politica, ma del fallimento degli Stati e di tutti i partiti che esercitano o hanno esercitato funzioni di governo nel prevenire questo assalto alla salute pubblica. Governi e sistemi politici si sono rivelati incapaci d’affrontare tempestivamente la pandemia (che non è stata un assalto imprevedibile) e di non disporre della preparazione materiale e organizzativa necessaria ad assorbire l’impatto iniziale del coronavirus per ridurre il rischio epidemico, innanzitutto per il personale sanitario «di prima linea» e poi per il resto della popolazione.
Non è fatto casuale perché questi stessi Stati sono parte integrante del problema che sono chiamati a risolvere: essi sono le cornici entro le quali operano processi socioeconomici congenitamente patogeni, sono i garanti e i promotori di questi processi, sono i responsabili delle politiche sanitarie - e non solo - perseguite da almeno tre decenni a questa parte.
Non è nel mercato, nel capitalismo in versione neoliberista o statalista, non nella potenza degli Stati e nella preveggenza dei governanti che si può riporre fiducia nella prevenzione delle epidemie e delle malattie della società.
La morte, il dolore, l’angoscia e i danni sociali della pandemia potevano essere prevenuti o ridotti se il potere politico avesse avuto altre fondamenta. Se si fosse trattato di una vera democrazia, in senso sostanziale e non solo procedurale, lì dove elezioni degne di questo nome si fanno. Sarebbe stato diverso se le istituzioni fossero state attente alla salute dei cittadini, non al mercato o alle prospettive di carriera politica dei singoli uomini politici. Ma queste altre fondamenta richiedono che sia la politica sia l’economia siano socializzate, che s’oltrepassi il capitalismo in tutte le sue forme, europee, americane, asiatiche.
Badiou scrive che «la rivalità degli imperialismi vecchi (Europa, Usa) e nuovi (Cina, Giappone…) impediscono ogni processo di formazione di uno Stato capitalista mondiale». Vero. Nello stesso tempo la situazione pandemica ci dice che tutti gli Stati, imperialisti e non, vecchi e giovani, sono obiettivamente superati. L’attuale situazione pandemica ci dice che i problemi globali dell’umanità sono troppo grandi per essere gestiti dagli Stati nazionali. Ma superare veramente gli Stati nazionali richiede che si ponga fine all’economia mondiale capitalistica, all’imperialismo, allo sviluppo ineguale. Un solo mondo - Una sola salute - Una sola umanità, senza Stati e senza classi.
Utopia? Certamente, perché non è «in alcun luogo». Un tempo, anche la fine della schiavitù e della servitù erano bestemmie ed utopie. Se la finalità rimane un’astrazione tutta riposta in un futuro lontano, che non vive nella formulazione della tattica attuale e degli obiettivi delle lotte locali e parziali, allora si rimarrà sul piano del mito e ciò che è possibile non vedrà mai la luce.
Necessità? Altrettanto certamente: ce lo dicono l’attuale situazione pandemica e le pandemie passate e future, la miseria mondiale, il cambiamento climatico, le guerre e l’armamento nucleare. La fine endostorica della storia, la fine per mano umana della storia o di quel che siamo abituati a considerare civiltà è una possibilità reale, più d’una catastrofe planetaria prodotta da un grosso meteorite.
Giustamente, negli ultimi due anni le prime pagine di giornali e notiziari sono state spesso occupate dalle proteste simboliche intorno al problema del riscaldamento globale. Queste proteste sono tuttavia nulla a confronto dell’effetto concreto della pandemia su almeno metà dell’umanità e delle potenzialità che questo fatto apre.
Entrando in tutte le case e stravolgendo la vita quotidiana di gran parte dell’umanità - a volte minacciando la vita stessa - la pandemia è anche un’occasione senza precedenti per sviluppare un’azione di sviluppo della coscienza critica, nella prospettiva della mobilitazione sociale, sulla base d’obiettivi specifici, Paese per Paese, settore per settore, ma che possono unirsi nella coscienza di vivere o d’aver vissuto un’unica situazione pandemica globale e che il problema fondamentale è in fondo comune a tutti. Mai come con questa esperienza, drammaticamente vissuta da centinaia e centinaia di milioni di persone, si è data la possibilità di far chiarezza sull’interazione tra il mondo microscopico degli agenti patogeni e quello macroscopico dell’alterazione degli equilibri ecologici, di mettere sotto accusa l’economia mondiale regolata dal profitto.
Veramente, è tempo che si torni a ragionare in termini organizzati di un movimento globale dei movimenti sociali.
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