di Michele Nobile
Come ho scritto altrove, la straordinaria superficialità, l’ipocrisia dei voltafaccia e l’impreparazione materiale e organizzativa dimostrate dalle autorità dei Paesi più ricchi del mondo nell’affrontare la pandemia di Covid-19 rivela molto su quanto sia «malata» la nostra società. L’esperienza di questa (prima?) ondata pandemica deve essere motivo di riflessione approfondita, ma è ovvio che tutti desiderino al più presto possibile tornare a condurre la propria vita senza restrizioni straordinarie. La sospensione della vita sociale non può durare a lungo: il solo fatto che, prima o poi, i governi siano stati costretti all’estremo rimedio di estese e generali misure di contenimento è prova di un disastro colpevole.
GRAFICO 1
Tuttavia, esiste un rischio opposto: che in nome di un ritorno alla normalità, seppur graduale, si aggiunga danno al danno. In questo caso, far leva sul desiderio di libertà dei cittadini è un alibi, quel che è in gioco, per chi dimostra fretta nell’allentare le misure che bloccano o rallentano le attività economiche, sono invece i profitti. Il problema è internazionale, ma in Italia è significativo che la pretesa di tornare al più presto alla normalità venga dalle Regioni più colpite dall’epidemia e nelle quali è palese esistono situazioni - basti per ora indicare Milano e Torino - che vedono crescere il numero degli infetti. Ma, dopotutto, si tratta spesso degli stessi soggetti che avevano minimizzato o sottovalutato il problema dell’epidemia, per poi fare un voltafaccia totale di fronte al fallimento delle istituzioni nel ridurre il danno.
Il nocciolo della questione è che la pandemia ha colpito in modo diverso le Regioni. Per la Val d’Aosta, Bolzano, il Friuli, gran parte della Liguria e del Veneto e, ancor più, nelle Regioni dell’Italia centrale e meridionale, è possibile muoversi nel senso tornare al più presto possibile a una vita sociale normale, seppur osservando precauzioni e tenendo conto di alcune situazioni provinciali.
I casi della Lombardia e specialmente del Piemonte sono invece diversi. Utilizzando come indicatore la crescita dei casi totali a livello provinciale nel periodo dal 20 al 27 aprile - oltre al dato disponibile dei nuovi contagi a livello regionale - si nota che in queste Regioni essi sono in crescita, anche notevole, in troppe province e città importanti come Torino e Milano. Quello dei casi totali è certamente un indicatore rozzo e che fotografa la situazione con un certo ritardo di tempo, tuttavia quando il dato provinciale mostra una crescita consistente si può legittimamente presumere che esprima il persistere di una tendenza alla crescita dei contagi, seppur a un ritmo giornaliero decrescente.
Se allentare le misure di sospensione della vita sociale comporta sempre un certo rischio, in Lombardia e ancor più in Piemonte questo appare elevatissimo in alcune province, con la concreta possibilità che venga rilanciata la crescita dei contagi anche in quelle dove la tendenza è alla riduzione.
Qui non discuto i dettagli della fase 2 governativa ma la loro logica complessiva geografica, che è questione cruciale. In pratica i provvedimenti possono risultare adeguati o forse anche troppo restrittivi nella maggior parte d’Italia, ma imprudenti in Lombardia e in Piemonte. Nel modo in cui s’intende la cosiddetta fase 2 c’è dunque a mio parere un grosso errore di metodo. Sarebbe stato preferibile differenziare le disposizioni in base alle situazioni locali, in pratica facendo attenzione alle tendenze provinciali e delle città maggiori.
Ragionare per grandi aggregati come le Regioni o branche economiche, senza considerare le differenze tra esistenti tra le Regioni, quanto a tendenze dei contagi e incidenza della malattia Covid-19, e senza tener conto delle differenze tra le province di una stessa Regione rischia di dare più forza ai focolai esistenti, con il risultato d’annullare i sacrifici di tutti i generi di questo lungo periodo di quarantena.
È pure un’imprudenza - per fare un esempio - che nella distribuzione delle attività lavorative in classi di rischio l’intero settore manifatturiero sia considerato a basso rischio, quando andrebbero fatte valutazioni più attente sulla base delle concrete condizioni di lavoro. Trovo bizzarro che la generica categoria «istruzione» sia posta nella classe di quelle a rischio medio-basso: forse chi ha scritto questo documento Inail non visita da molto tempo un asilo e non ha idea di quali siano le distanze o l’atmosfera in una classe di 27 o 30 studenti (Inail, «Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione», aprile 2020. ).
Di seguito espongo le ragioni che mi hanno indotto a queste conclusioni.
1.
Sul sito del Ministero della salute si legge un documento dal titolo «Covid-19, Rt sotto 1 in tutta Italia. L'Iss: “Differenze regionali non sono per forza condizione per misure diverse in fase2”» ( http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioNotizieNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=4593 ). La giustificazione per le misure della fase 2 è che l’indice Rt - il tasso di riproduzione netta - che «rappresenta il numero medio delle infezioni prodotte da ciascun individuo infetto dopo l’applicazione delle misure di contenimento dell’epidemia stessa», si sia ridotto, a seconda della Regione, ma già dal 6 aprile, tra 0,2 e 0,7. In altri termini, l’Istituto superiore di sanità ci dice che il tasso di trasmissione dell’infezione è ora tale da rallentare in modo significativo la reazione a catena causa del dilagare dell’epidemia. Nei mass media e nel discorso politico questo è diventato rapidamente la dimostrazione scientifica della fase 2 generalizzata a tutta l’Italia. In effetti, la parte politicamente più importante del titolo citato è la seconda, non la prima: differenze regionali non sono per forza condizione per misure diverse.
Tuttavia, bisogna guardarsi dall’assumere come certezza una qualsiasi stima di Rt. Le stime di Rt o del tasso di letalità si ottengono mediante modelli matematici la cui approssimazione alla realtà dipende dalle assunzioni di base, ragion per cui studi diversi possono portare a risultati differenti, legittimo oggetto di discussione tra gli esperti. I modelli sono preziosi per dare l’idea degli scenari possibili e quindi dei preparativi da intraprendere e delle misure preventive da mettere in atto. È perciò normale che gli studi riportino affermazioni come questa, direi di generale validità epistemologica e pratica nell’uso di modelli matematici relativi a fatti influenzati dai comportamenti sociali e da decisioni politiche, oltre che dalla natura: «A causa delle incertezze nei modelli, i risultati devono essere considerati come un aiuto per strutturare il pensiero circa la pianificazione per la pandemia, più che predittivi della precisa efficacia di diverse politiche» ( M. Elizabeth Halloran et. al., «Modeling targeted layered containment of an influenza pandemic in the United States», PNAS, vol. 105, n. 12, 2008, p. 4644. ). Sono anche importanti considerazioni come questa:
«Sebbene il numero riproduttivo di base sia spesso trattato come una caratteristica biologicamente determinata della trasmissibilità del patogeno, in realtà è una combinazione di caratteristiche biologiche, ambientali, comportamentali, sociali, inclusa la trasmissibilità relativa attraverso diverse vie (ad esempio, trasmissione per goccioline trasportate dall’aria o attraverso superfici o fluidi corporei); gli effetti del tempo locale sulla capacità del virus di sopravvivere e/o infettare nuovi ospiti; i contatti dell’infetto con altri potenziali ospiti. Di solito, solo alcuni di questi fattori sono esplicitamente inclusi nei modelli compartimentali, limitando la loro capacità di rappresentare interventi di mitigazione» dell’epidemia (Eubank S. et al., «Impact of non-pharmaceutical interventions (NPIs) to reduce COVID-19 mortality and healthcare demand», Bull. Math. Biol., 8 aprile 2020, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7140590/).
E, in effetti, nel documento ministeriale si legge che «Rt, sottolineano gli esperti dell’Iss, è solo uno degli indicatori che servono a definire i provvedimenti da adottare nella Fase 2». Solo uno degli indicatori. E quindi, su quali altri indicatori si può e si deve basare la decisione politica, tenendo conto anche delle avvertenze di metodo circa i modelli epidemiologici? In pratica, il rischio è che, invece di una decisione che tiene conto di considerazioni scientifiche, si assuma una linea ingenuamente scientista i cui motivi sono però tutt’altro che scientifici. Che possono andare dalla competizione politica agli interessi economici.
2.
Senza dubbio, a causa delle misure di distanziamento sociale il tasso di riproduzione netta è notevolmente inferiore al suo massimo. È bene ricordare che le cifre dei contagi e dei morti si riferiscono ai casi accertati ma che, proprio per questo, sottostimano la dimensione effettiva della pandemia.
E allora, qual è il momento giusto per allentare le misure di contenimento? Innanzitutto, prudenza vorrebbe che quel momento sia successivo a un periodo durante il quale i contagi si sono ridotti al punto di poter dire che il fuoco dell’epidemia si sta spegnendo, altrimenti esso potrebbe tornare a dilagare. Ma quanto deve essere lungo questo periodo? Due settimane, quanto il confinamento per i positivi? Oppure 28 giorni o 10? E quale deve essere la soglia di contagi da cui far iniziare questo periodo?
I casi totali di Covid-19 erano 9172 in data 9 marzo, più 1797 sul giorno precedente. Evidentemente, allora ciò fu considerato un buon motivo per decidere il confinamento o la quarantena o la sospensione della vita sociale, quel che si indica con l’insipido termine lockdown, del tutto inutile per la lingua italiana. Ma tra il 13 e il 27 aprile i nuovi contagi sono stati 43051, una media di 3075 al giorno, equivalenti al 22% dei casi totali accumulati dall’inizio della pandemia; tra il 20 e il 27 sono stati 20442, o 2920 al giorno. Il dato della crescita nazionale dei casi totali tra il 20 e il 27 aprile è 9%.
Il 27 aprile il dato dei nuovi contagiati è per la prima volta sceso al livello del 9 marzo. Tuttavia, se giornalmente possono verificarsi variazioni importanti, la questione cruciale è l’andamento su un periodo almeno di 7-10 giorni. Come si vede dal grafico 1, non si può dire che nella seconda metà d’aprile si sia definito un periodo di basso livello di contagi. Quando sul territorio nazionale ancora si registrano ufficialmente 2000 contagi al giorno vuol dire che le braci sono ancora calde e che il falò può ripartire. La pressione per la «ripartenza» è iniziata troppo presto e da dove meno è giustificabile.
Questa considerazione sul dato nazionale è finalizzata a raffreddare i frettolosi, ma il vero problema è un altro. I dati sono ripresi da sito del Ministero della salute, http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus
3.
Il vero problema è che può essere fuorviante ragionare solo su aggregati grandi come l’intero Paese e le Regioni. È noto che Covid-19 è un fenomeno fortemente concentrato nello spazio: il 75% dei casi totali si sono verificati in 5 regioni (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana). Nell’insieme tutte le regioni settentrionali riportano l’80% dei casi totali, l’84% compresa la Toscana. Quanto ai nuovi contagi, tutte le regioni settentrionali più la Toscana contavano per l’86% della crescita nazionale del 26 aprile sul 25, e per l’89% di quella del giorno successivo; il Piemonte e la Lombardia insieme per il 57% e il 50% degli aumenti degli stessi giorni.
Il fatto è ben noto ma non pare essere apprezzato fino in fondo in sede di decisione politica. Si potevano e si dovevano stabilire norme diverse a seconda delle situazioni concrete, regionali e provinciali, perché su entrambe le scale esistono situazioni estremamente diverse: province come Alessandria, Cremona, Como, Pavia, Parma, Verona Piacenza - un elenco incompleto - hanno ciascuna un totale di casi maggiore di quelli sommati di due o tre regioni meridionali; al 27 aprile Biella (43000 abitanti) ha più del doppio dei casi totali della Basilicata, Vercelli (46000 abitanti) giusto 3 casi in meno di tutta la Calabria. Evidentemente si è dato un compromesso politico con esigenze diverse da quelle prettamente sanitarie Ma sono specialmente le differenze interne alle regioni settentrionali che dovrebbero preoccupare.
Fino al 28-29 marzo, la provincia di Bergamo era in Europa il luogo più pesantemente colpito dall’epidemia; d’allora quel posto è stato preso dalle province di Milano e Brescia. Graficamente questo si vede bene dall’inclinazione delle curve del grafico 2, relativa ai casi totali: quasi piatta quella di Bergamo (+4%), inclinata verso l’alto quella di Milano (+13%). Ora anche Brescia (+4%) ha rallentato la crescita dei casi totali, ma meno Lecco, Lodi e Mantova (+7%), Monza-Brianza e Cremona (+8%), mentre Pavia e Varese (12%) e anche più Como (+17%) e Sondrio (+15%), puntano verso l’alto. (I grafici sono stati preparati utilizzando il sito a cura del Sole 24 ore, https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/ )
GRAFICO 2
GRAFICO 3
https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/ |
GRAFICO 4
https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/ |
L’Emilia-Romagna e la Toscana, rispettivamente terza e quinta per casi totali, presentano un quadro decisamente migliore di quello del Piemonte e della Lombardia: nella settimana di riferimento la crescita dei casi totali in queste regioni è 7% - come in Friuli - e inferiore all’aumento nazionale, tranne che nelle province di Piacenza 11% e Ferrara 13%, e di Firenze 12% (3011 casi totali); Bologna è al 9% (4191 casi totali); per il Friuli spicca però la crescita a Gorizia (+23%), seppur con soli 179 casi.
Nello stesso periodo, in Veneto l’aumento dei casi totali è stato 8%, tranne nel caso delle province di Verona 12% (4526 casi totali), Rovigo 13% e Belluno 15%. In Liguria, invece, la crescita dei casi totali regionali è stata del 13%, ma a Genova +15% (4438 casi totali), valore più che doppio rispetto alle altre province.
In Trentino si nota una forte differenza tra Bolzano (+4%, 2496) e Trento (+10% e 3995 casi totali). In Val d’Aosta la crescita dei casi totali è stata solo del 2%. In Umbria, due terzi dei casi regionali sono nella provincia di Perugia (989), che ha un incremento solo dell’1%, Terni del 2%.
Ad eccezione della Sicilia (+11%) e della Puglia (+10%), la crescita dei contagi totali nelle altre Regioni centrali e meridionali e in Sardegna è pari o ben inferiore a quello della crescita nazionale tra il 20 e il 27 aprile: Abruzzo e Lazio +9%; Basilicata +7%, Campania +6%; Calabria, Marche e Molise +5%; Sardegna +4%, Umbria 2%.
In Lazio la crescita è in massima parte nella provincia di Roma (4569, due terzi dei casi regionali); in Abruzzo, risaltano Pescara (+10) e anche più Chieti (+16%) - che sommano i due terzi dei casi regionali - mentre Teramo e L’aquila hanno incrementi minimi (rispettivamente 1% e 2%); in Molise, la provincia di Campobasso ha il quadruplo dei casi totali (223) di Isernia, ma una crescita del 5%. Nelle Marche, per le province di Macerata e Fermo l’incremento dei casi totali è 8%, ma 3% e 4% rispettivamente per Ancona e Pesaro, che sono anche le province che sommano i due terzi dei casi regionali.
In Campania, oltre la metà dei casi regionali sono nella provincia di Napoli (2389) che ha avuto un incremento del 9%, mentre nelle altre province è il 5% di Salerno o il 3-4%. La Basilicata ha un numero di casi totali (366) che è maggiore solo a quello del Molise (296) quasi egualmente ripartiti tra Matera e Potenza, con incrementi del 7% e del 6%. In Puglia, oltre Bari, si segnalano Foggia (+12%) e Brindisi +10%), che presenta un aumento dei casi totali doppio rispetto a Lecce e Taranto (entrambe al 5%). In Calabria, Cosenza ha il maggior numero di casi (449) e una crescita del 9%, mentre le altre province si sono stabilizzate a un basso livello.
In Sardegna, Sassari spicca sulle altre province quanto a casi (829), ma la crescita è solo del 4%, le altre appaiono stabili; in Sicilia l’incremento dei casi totali tra il 20 e il 27 aprile è stato l’11%, il maggiore del Mezzogiorno: Catania è la provincia con più casi (961) e un incremento del 16%, spiccano Siracusa (+17%) e Ragusa (+22% ma 89 casi).
4.
È superfluo enfatizzare l’importanza delle grandi e più popolose città come spazi cruciali per l’andamento dell’epidemia. Nel grafico 4 si vedono gli andamenti delle province di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Napoli, Palermo e Roma. Sono evidenti le differenze in valore assoluto ma anche le differenti tendenze, in particolare per Bologna (21%), Genova (+15%), Firenze (+12%), Bari (+11%), Roma (+10%). Si tenga presente che la rappresentazione grafica tende a schiacciare l’andamento dei casi di Catania, che è +16%
GRAFICO 5
Le città più popolose, nodi economici, centri del potere politico e snodi delle comunicazioni sono esempi importanti del problema generale: la scala regionale è quella meno adatta a ridurrei rischi inerenti alla ripresa della vita sociale. Disposizioni uniformi per tutto il Paese, che non tengano conto almeno delle situazioni specifiche, delle grandi città e di città e di province che concentrano la maggior parte dei casi regionali, rischiano di far riprendere l’epidemia. Questo rischio è particolarmente forte in Piemonte e in Lombardia.
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