Ovvero: fa più disastri il coronavirus o il virus del panico indotto?
di Piero Bernocchi
Per un paio di giorni sono stato incerto se scrivere quanto qui leggerete. Ne ero vieppiù convinto, via via che studiavo la stampa nazionale e internazionale, le dichiarazioni degli scienziati e degli esperti e tutto il materiale disponibile in materia. Al punto che se fossi stato un qualsiasi cittadino/a senza ruoli specifici o quello che in politica si chiama “un cane sciolto” non avrei avuto dubbi. Ma farlo in qualità di portavoce Cobas, in un clima isterico e paranoico - ove gli opinion makers, come succede quasi sempre in Italia, sono esperti di camaleontismo, trasformismo e dunque assecondano la corrente dominante - rende l’andare controcorrente, pur sempre faticoso in Italia, particolarmente improbo quando si rischia di passare per “untori” o per “complici” dell’espansione dell’epidemia. Però ieri mi ha convinto definitivamente Attilio Fontana, governatore della Lombardia e leghista doc (quello della difesa della "razza bianca", che dopo la dichiarazione ha dovuto mettersi in autoisolamento poichè una sua collaboratrice è risultata positiva al tampone) che così ha parlato al Consiglio regionale lombardo: “ Cerchiamo di sdrammatizzare: questa è una situazione senza dubbio difficile ma non così pericolosa. Il virus è aggressivo e rapido nella diffusione ma molto meno nelle conseguenze: è poco più di una normale influenza, e questo lo dicono i tecnici”. Diavolo, ma se Fontana, che rischia ben di più di me per dichiarazioni del genere, ha deciso di parlare in tal modo, perché mai io dovrei autocensurarmi?
Dunque, entro nel merito. E parto da alcuni titoloni di Repubblica degli ultimi giorni, che monitora minuto per minuto l’andamento dell’epidemia:" Sesta vittima, paziente oncologico di Crema" (n.d.s. di 80 anni); "Tre morti in Lombardia, malato terminale di cancro e due ultraottantenni affetti da gravi patologie"; "Virus letale per chi ha gravi patologie". Come avrebbe dovuto apparire chiaro per questi e altri titoli squillanti, strombazzati da giornali e TV con cadenza ossessiva, cose simili si sarebbero potute scrivere in qualsiasi mese e in qualsiasi anno del Ventunesimo secolo italiano. Come infatti ha spiegato un paio di giorni fa Nicola Acone, specialista in malattie infettive e primario al Moscati di Avellino “Il coronavirus provoca gli stessi sintomi di un'influenza ed ha lo stesso decorso nell'85% dei casi, mentre nel 15% provoca problemi respiratori come una polmonite; tra questi un 2%, che ha tumori avanzati, malattie cardiache o polmonari ed è in età avanzata ha più probabilità di morire rispetto all'influenza tradizionale". Una descrizione analoga l’ha fatta ieri Walter Ricciardi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “Dobbiamo ridimensionare questo grande allarme, la malattia va posta nei giusti termini…Su 100 persone malate 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario e solo il 5% è davvero grave…ma tutte le persone decedute avevano già gravi problemi di salute”. Ora, pur essendo questi numeri orientativi perché in materia non si può essere precisi al 100%, il dato di fondo è limpido: praticamente muoiono solo quelli che hanno gravi patologie, esattamente come è sempre successo tutti gli anni durante le ondate di “normale” influenza nel nostro Paese. Anzi: secondo le stime del Ministero della Salute e dell’Istituto superiore della Sanità, in Italia dall’inizio del Ventunesimo secolo ogni anno in media il 9 % della popolazione è colpito da sindrome influenzale (circa 5 milioni e mezzo di persone) con un numero di decessi tra i 4 mila e i 10 mila (nel 2019 circa 8 mila) tra chi, già vittima di serie patologie pre-esistenti, muore per le complicanze gravi del virus influenzale (e tra questi l’anno scorso il nostro caro Bonaventura De Carolis). Mentre, qui ed ora, dopo una circolazione probabile del virus in Italia di circa una cinquantina di giorni, i morti sono 12 e tutti con patologie gravi e/o decisamente anziani, mentre gli infettati arrivano ad oggi a 485, di contro, ad esempio, al milione e mezzo (più o meno) di italiani “allettati” con l’influenza tradizionale tra l’inizio di novembre 2019 e l’inizio di gennaio 2020. Un ulteriore elemento, per valutare la letalità del coronavirus, lo possiamo ricavare da un confronto, per quel che riguarda i malati a rischio, con precedenti epidemie: la SARS, ad esempio, aveva una mortalità intorno al 10%, mentre la Ebola addirittura dell'80-90%. Anche se, per quel che riguarda la diffusione del virus, c’è una differenza notevole, a favore del mimetismo del coronavirus rispetto ai suoi predecessori: sia il virus SARS e tanto più Ebola non si nascondevano, aggredivano rapidamente (e assai violentemente nel caso di Ebola) i pazienti, che, oltre a morire incomparabilmente di più, erano riconoscibili e isolabili: e il virus "sciocco", evidenziandosi clamorosamente, si faceva individuare senza equivoci, veniva circoscritto e moriva con il malato.