di Dino Erba
Spero che questo testo abbia ampia circolazione nella nostra intossicata società spettacolare di massa. Personalmente lo sottoscrivo parola per parola. Nel leggerlo mi ha impressionato anche la coincidenza di reazione alla lettura di Camilleri: anch’io una volta presi in mano un suo libro, così, solo per sapere di cosa si trattasse. Lo gettai via quasi subito. Per me era una storia banale, avvolta in una scrittura banale e trovavo ignobile la «sicilianizzazione» della lingua italiana: perché o si scrive in siciliano o si scrive in italiano o si intreccia (si alterna) il dialetto con la lingua: ma la fusione, cioè la creazione di una terza lingua bastarda, proprio no. Ripugnante in termini letterari.
Non mi sfuggiva poi che tutta la serie televisiva di Montalbano, Piovre ecc. riabilitava sfacciatamente le «nostre» forze dell’ordine che con i poteri mafiosi hanno imparato a convivere, salvo «incidenti» minori di tanto in tanto.
Per De Crescenzo - un esempio di scadimento nella volgarità culturale da parte di un membro tra i più «spettacolosi» dell’élite intellettuale italiana - si dovrebbe anche aggiungere la versione poco dignitosa da lui propagata dello spirito partenopeo. Ma questo non spetta dirlo a un romano come me, ma spetterebbe a chi, tra il popolo napoletano più autentico, si sia sentito umiliato dalla ridicolizzazione decrescenzana, trita e ritrita, del presunto napoletanismo. (r.m.).
La morte degli illustri vegliardi ha destato sperticati encomi, a destra e a manca. A bocce ferme, tali encomi potrebbero apparire eccessivi (se non servi…).
Personalmente, di Camilleri tentai di leggere un romanzo, lo trovai tedioso, stilisticamente manieristico (un Gadda siculo?). Della sua illustre creatura, il macchiettistico Commissario, vidi qualche vicenda televisiva, sull’onda della galoppante infatuazione. Un tipico prodotto dell’industria dello spettacolo, secondo la classica trama del giallo poliziesco, che conobbe tempi migliori. Ogni paragone sarebbe irriverente.
Di De Crescenzo vidi qualche divertente filmetto, piacevolmente condito dalla verve partenopea che, anche in questo caso, conobbe tempi migliori. I suoi libri, neppure gli sfogliai…
Fatte le debite differenze, entrambi furono due abili, se vogliamo intelligenti (e furbi), eredi di nobili tradizioni drammaturgiche. Nulla di più, nulla di meno.
E allora, perché tanti encomi?
Da qualche commemorazione, il motivo trapela.
È la cultura di massa, bellezza!
Ripeto, fatte le debite differenze – i differenti percorsi cultural-professionali –, entrambi ebbero il loro brodo di coltura negli anni Cinquanta, quando l’Italia conobbe il boom economico. Milioni di persone lasciavano le campagne ed entravano in fabbrica … e a scuola. La cultura, fino ad allora d’élite, si confrontava con nuove esigenze, in cui la quantità esprimeva una nuova qualità, esigendo nuove forme di diffusione dell’ideologia dominante. Non reggeva più il compromesso Stato-Chiesa (trono e altare) gestito dal Fascismo.
Emblematiche del mutato clima socio-economico, furono le pubblicazioni divulgative dei Fratelli Fabbri, erano dispense periodiche con una veste accattivante e diffuse in edicola, il popolo non aveva ancora dimestichezza con le librerie… A ben vedere, i Fratelli Fabbri industrializzarono prodotti culturali che, in precedenza, venivano gestiti artigianalmente da piccole case editrici, vicine ad associazioni progressiste e operaie che provvedevano alla loro diffusione. Di conseguenza, quelle pubblicazioni proponevano una più o meno accentuata critica sociale, assente, invece, nelle dispense della Fabbri, rivolte all’omologazione culturale degli italiani, in una società detta «neocapitalista».
Di converso, all’esigenza di omologazione culturale, la neonata, e ben più coinvolgente televisione di Stato, dava risposte del tutto inadeguate all’Italia del boom, proponendo uno stile che, in sostanza, era disprezzate dagli intellettuali e sopportato dal popolo, come il sussiegoso sermone di un prevosto di campagna.
Apocalittici o integrati?
Di fronte a questo gap comunicativo, una pattuglia di giovani intellettuali, per lo più di «sinistra», come Camilleri, scorse le opportunità e le prospettive che la televisione apriva, vedendo in essa il nuovo Mecenate. E scese in campo. La battaglia fu aspra. C’era da mettere in discussione il compromesso catto-comunista che connotava il Bel Paese: alla Dc la cultura di massa, con l’oratorio, al Pci la cultura d’élite, con la Casa della cultura. Se qualche dubbio ci fosse riguardo a tale divisione dei compiti, basta rammentare la comune diffidenza, se non avversione, di Pci e Dc verso le avanguardie letterarie e artistiche, con deleterie ricadute nel campo della «morale», sessuale in generale, e del divorzio, in particolare, che sarebbero perdurate almeno fino alla gestione di Enrico Berlinguer (1975).
Seppur cautamente, la sfida di quella lungimirante pattuglia di intellettuali si affermò, anche grazie alla santificazione di Umberto Eco che, con Fenomenologia di Mike Bongiorno (1961) e Apocalittici e integrati (1964), sdoganava la televisione, schiudendo così la via a brillanti (e lucrose) prospettive professionali.
In quello stesso clima culturale, maturò la vicenda di Luciano De Crescenzo. Formalmente diversa, ma sostanzialmente analoga. De Crescenzo svolse dapprima i mille mestieri che la creatività napoletana gli ispirava, poi, per vent’anni, fu all’Ibm di Milano dove, benché fosse laureato in ingegneria, si occupò di pubbliche relazioni. Allora sulla cresta dell’onda nella gestione delle cosiddette «relazioni industriali», ovvero per intortare lavoratori & consumatori.
Frutto di questo mix partenopeo-meneghino, fu il suo successivo approccio alla letteratura e allo spettacolo. Un approccio che, con ironia, nobilitò il filone divulgativo aperto dai Fratelli Fabbri. La sostanza, però, era la medesima: l’omologazione culturale degli italiani cui, via via, provvidero molti intellettuali organici al sistema, declinando i diversi umori social-politici delle pance italiche. Per esempio, a destra, un altro maître à penser, Indro Montanelli, con le sueStorie, proponeva il passato con le lenti del presente, un eterno presente, privo di sfumature. Medesima logica è ammannita dalla «filosofia» di De Crescenzo. Così fu, così è, così sarà.
La miseria cultural-mediatica dell’integrazione
Volendo trarre una breve conclusione dalle mie considerazioni, possiamo vedere che la stagione culturale dei Camilleri, De Crescenzo ecc. ecc. fu, tutto sommato, abbastanza breve. Già negli anni Ottanta, venne emarginata dalla ben più ruspante omologazione imposta dalle TV commerciali, e cavalcata dal Berlusca, che crearono un mondo dove la televisione e, in generale, i new media ci condannano a un’ossessionante coazione a ripetere, favorendo una generale decadenza intellettuale. A scapito delle più elementari abilità cognitive. A vantaggio di un disperato, e impotente, individualismo solipsistico, in uno scenario sociale di dilagante disgregazione.
Forse, di fronte all’attuale miseria cultural-mediatica (e sociale), una buona dose di falsa coscienza ha ispirato le commemorazioni di molti intellettuali, artisti, politicanti ecc. ecc., in cui aleggia la nostalgia per una stagione che, al confronto, appare culturalmente vivace e pregna di lusinghiere promesse. Ma, domando, siamo proprio sicuri che l’attuale miseria cultural-mediatica non sia l’inevitabile esito di quella rimpianta stagione?
Dino Erba, Milano, 21 luglio 2019
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