© Alfredo Zuniga |
Dallo scorso 18 aprile, la protesta del popolo nicaraguense contro la riforma dell’Inss - Instituto Nicaragüense de Seguridad Social - si è trasformata in una vera e propria sollevazione contro il presidente incostituzionale Daniel Ortega, che il giorno successivo ha anche ordinato la chiusura di quattro canali televisivi indipendenti che non intendevano oscurare le immagini delle manifestazioni.
In tutto il Paese, in ogni barrio, la gente è scesa in strada al suono delle pentole mettendo in scena il cacerolazo, simbolo di pubblico dissenso contro tutte le dittature.
Forza trainante della protesta sono gli studenti, che fin da subito si sono barricati nelle università.
La Policía Nacional è passata ben presto dal semplice lancio di lacrimogeni all’uso di armi con proiettili convenzionali, persino fucili da guerra AK-47.
Giovedì 19 si sono registrati i primi 4 morti - fra questi uno studente quindicenne, Álvaro Conrado.
Venerdì 20 gli studenti di medicina hanno istituito dei posti di primo soccorso all’interno della Catedral Metropolitana di Managua, dove si sono ammassati viveri e medicinali di prima necessità. Dalla sera in poi, per creare confusione e paura, è stata interrotta l’energia elettrica in tutta la capitale.
Sabato 21 la Chiesa cattolica, per bocca del vescovo ausiliario Silvio Báez, si è schierata al fianco dei manifestanti, definendo gli studenti in lotta «la riserva morale» di cui il Nicaragua dispone.
Nella notte fra 21 e 22 aprile la Polizia ha ripreso a reprimere brutalmente, causando diversi morti e lasciando sull’asfalto vari feriti che per molte ore non si è potuto soccorrere. Fra le vittime di quest’ultimo assalto c’è pure il reporter Ángel Eduardo Gahona, ucciso nella cittadina costiera di Bluefields (come sempre succede, i giornalisti indipendenti si rivelano essere il «bersaglio prediletto» dei regimi dittatoriali).
Sinora i morti confermati ufficialmente dalla vicepresidente e primera dama, Rosario Murillo, sono 10, ma già ieri pomeriggio il Cenidh - Centro Nicaragüense de Derechos Humanos - diffondeva una lista di 25 persone rimaste uccise negli scontri. Le ultime notizie attestano almeno 26 morti, 67 feriti, 43 dispersi e 20 arresti.
Fino alla serata di venerdì 20 si sperava in un coinvolgimento solidale di una parte dell’Esercito, che si è però schierato in blocco a sostegno del Governo.
Tra le forze della repressione, composte - oltre che da Polizia ed Esercito - da squadre speciali antisommossa, c’è anche la Juventud Sandinista, di cui fanno parte gruppi paramilitari che il Governo organizza con elementi raccolti nei quartieri più poveri.
In quest’ultima organizzazione i delinquenti comuni la fanno da padrone e sono sempre in prima fila nell’attaccare quei civili sospettati di non essere allineati con Ortega e il suo «sandinismo ufficiale». La scorsa notte, per esempio, è stata impedita con la violenza la veglia funebre di uno degli studenti uccisi.
È utile ricordare qui come il tutto ha avuto inizio. Il 3 aprile passato è scoppiato un incendio devastante nella riserva biologica Indio-Maíz, uno dei grandi polmoni verdi dell’America centrale; dovendo fare i conti con l’attendismo governativo di fronte a un disastro ecologico di tale portata - dietro simili roghi si nascondono spesso gli interessi di uomini legati alla cricca di Ortega, che puntano a rivendere illegalmente i terreni privi di vegetazione o sfruttarli per i pascoli - gli studenti sono scesi pacificamente in piazza per chiedere che il Governo intervenisse con maggiore energia per porvi fine.
In un Paese come il Nicaragua, però, queste forme di libera espressione scatenano l’immediato intervento della repressione, non essendo tollerato alcun dissenso. È avvenuto così anche in questo caso: gli studenti sono stati brutalmente attaccati da Polizia e Juventud Sandinista.
Va specificato che il regime utilizza il termine sandinista per meri scopi propagandistici: la coalizione al potere, infatti, non ha nulla a che vedere con la Rivoluzione sandinista che nel 1979 cacciò dal Nicaragua il dittatore Anastasio Somoza. Per Ortega e i suoi accoliti la popolazione ha da tempo coniato l’assai più appropriato neologismo sandiratas [in castigliano ratas significa «topi»: ognuno è libero di dare all’espressione l’interpretazione generale che ritiene più opportuna (n.d.r.)].
Da anni il Governo preleva a forza dai luoghi di lavoro gli impiegati statali costringendoli a manifestare in favore del regime (insieme agli studenti delle scuole medie inferiori), pena il licenziamento: una «massa di manovra» utile per mostrare all’esterno un consenso di facciata.
Sabato 21, alle ore dodici locali, il presidente Daniel Ortega si è rivolto alla nazione dicendo che le morti sono state provocate da pandillas, tentando così di far passare l’idea che l’intero movimento di protesta sia composto da «giovani criminali di strada».
La reazione spontanea del popolo nicaraguense è stata quella di riversarsi per le strada chiedendo la sostituzione e il bando dal Paese del presidente illegittimo e della vicepresidente, sua moglie Rosario Murillo.
Gettando benzina sul fuoco, il discorso sconclusionato di Ortega potrebbe mirare a radicalizzare la protesta, così da fornire una giustificazione all’intervento massiccio dell’Ejército Nacional e all’imposizione del coprifuoco.
È necessario diffondere in Europa e in Italia quante più notizie possibile su ciò che sta avvenendo nel piccolo Stato centramericano, opponendosi alla controinformazione che già si è messa in moto per difendere contro ogni evidenza - vergognosamente «da sinistra», in un’ottusa e mal interpretata ottica antistatunitense e antimperialista - un regime politico antipopolare e liberticida ormai intollerabile.
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