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domenica 8 aprile 2018

GUERRA COMMERCIALE, SKRIPAL’, ARSENICO E VECCHI MERLETTI, di Michele Nobile

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

© Mindaugas Bonanu
Come il resto dell’umanità, chi scrive non dispone di alcun mezzo per individuare il mandante del tentato omicidio dell’ex agente doppiogiochista russo Sergej Skripal’ e di sua figlia. Azzardo però qualche ragionamento, giusto per sgombrare il campo dalle fantasie e mettere a fuoco i problemi reali.
È vero che a volte personaggi sgraditi al Cremlino incorrono in gravissime e misteriose patologie. Uno dei casi celebri è quello di Viktor Juščenko, candidato alle presidenziali dell’Ucraina nel 2004, in una campagna elettorale durante la quale, fra l’altro, Putin viaggiò per ben sette volte in quel Paese per appoggiare il concorrente Janukovyč.
Fra gli altri ci sono: Aleksandr Litvinenko, esule ex funzionario dei Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa (Fsb) e critico di Putin, avvelenato mortalmente col polonio a Londra, nel 2006; la giornalista Anna Politkovskaja, distintasi per i suoi servizi sulla guerra in Cecenia, ammazzata a colpi di pistola a Mosca, pure lei nel 2006; Boris Berezovskij, al tempo di El’tsin il più influente degli oligarchi russi, altro esule critico di Putin morto in circostanze poco chiare a Londra, nel 2013; e Boris Nemtsov, capo del partito Sojuz Pravych Sil [Unione delle forze di destra], assassinato nel 20151.
Tuttavia, non si comprende quale interesse possa avere Mosca a eliminare Skripal’, rischiando una crisi internazionale. Perché uccidere un individuo già regolarmente liberato nel 2010, nel quadro di uno scambio di «spioni» arrestati con gli Stati Uniti? Quali altre terribili rivelazioni avrebbero potuto esserci otto anni dopo e dopo esser stato certamente interrogato - subito e a lungo - dai servizi competenti?
E poi, perché eliminarlo con un mezzo così sofisticato come il nervino, la cui origine potrebbe essere rintracciata? Non sarebbe stato meglio simulare un incidente automobilistico? Una tegola in testa? Un colpo di pistola o il classico arsenico, così anonimi, sono forse passati di moda?
D’altra parte, non si capisce neanche perché Skripal’ dovesse essere eliminato da qualche servizio «occidentale». Per alzare ulteriormente la tensione con Mosca le motivazioni non mancano e, volendo, se ne possono fabbricare di più grosse ed emotive per l’opinione pubblica.
La verità è che in casi come questi la fantasia può galoppare liberamente. Skripal’ non potrebbe essere stato avvelenato da altri attori interessati ad accrescere la tensione fra Russia e «Occidente»?
Congetturiamo: responsabili non potrebbero essere agenti della Corea del Nord, interessata a neutralizzare le pressioni russe verso un accordo con gli Stati Uniti, oppure agenti dell’Isis o del regime di Assad? Oppure gli indipendentisti ceceni? O anche, perché no, a usare il nervino non potrebbero essere stati i sofisticati killer di un’occulta «Spectre» di affaristi legati al complesso militare-industriale?
A dire il vero non soltanto non possiedo i mezzi, ma nemmeno m’interessa sapere chi ha avvelenato Sergej Skripal’ e la figlia. Dal punto di vista della storia mondiale e degli interessi dei comuni cittadini, la cosa è irrilevante. Non ho bisogno di una verità giudiziaria per sapere che - volendo - gli Stati possono agire senza scrupoli, ammazzare e massacrare. Esiste la ragion di Stato, ma Stati buoni non esistono.
Ricordo bene, per fare un altro esempio, che nel luglio 1985 i servizi segreti francesi fecero saltare in aria la nave di Greenpeace Rainbow Warrior, che protestava contro le esplosioni nucleari nella Polinesia francese, causando la morte di un uomo. Presidente era allora il «compagno» Mitterand… dell’Union de la gauche.
Due fra i sabotatori della Direction générale de la sécurité extérieure vennero arrestati dalla polizia neozelandese, processati e condannati a dieci anni. Il ministro della Difesa francese fu costretto a dimettersi, ma la Nuova Zelanda, posta sotto ricatto economico da parte della Francia, fu costretta a un accordo per cui i due assassini vennero prima trasferiti sotto custodia francese, poi liberati e infine promossi di grado.
Quanto accaduto alla Rainbow Warrior è cristallino, al contrario del caso Skripal’ e in genere dei veri complotti storicamente rilevanti, che hanno la spiacevole caratteristica di rimanere segreti nella fase di preparazione, ma di rivelarsi nell’attuazione; i colpi di Stato ne sono un facile esempio.
Per cui lascio volentieri le indagini agli organi competenti e le congetture ai patiti delle spy stories e ai complottisti d’ogni risma, che hanno già la risposta preconfezionata secondo le loro personali paranoie e simpatie politiche.
La personalizzazione e la divisione manichea degli attori politici in buoni e cattivi - naturalmente i cattivi sono astutissimi e infingardi, benché destinati alla sconfitta - sono proprie di una visione del mondo infantile e manipolabile con facilità.

Altro è importante in questa vicenda sozza, quali che siano i mandanti: la raffica di massicce espulsioni di diplomatici russi dai paesi Nato e di diplomatici dei paesi Nato dalla Russia. Per molti commentatori, insieme all’incombente guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, questa vicenda sembra il preludio a una nuova Guerra Fredda.
Tuttavia, bisogna anche stare attenti a non arrivare a conclusioni affrettate che possono distrarre l’attenzione dalle questioni di fondo.
Si può ricordare che nel 1986 gli Stati Uniti espulsero 80 diplomatici sovietici dopo l’arresto di un giornalista russo-americano a Mosca, e i sovietici, a loro volta, contraccambiarono. Eppure, l’anno successivo Reagan e Gorbačëv firmarono il trattato sui missili a medio raggio e tre anni dopo la Seconda guerra fredda venne dichiarata ufficialmente chiusa.
E poi, nel 2001 Stati Uniti e Russia espulsero 53 diplomatici a testa, ma - nonostante altri problemi maggiori – ciò non impedì che le due potenze continuassero a collaborare nella «guerra al terrore» e che, durante le celebrazioni dell’anniversario della fondazione di San Pietroburgo, Putin dicesse del Presidente americano: «le nostre opinioni coincidono su molte questioni. Ed è proprio questo che mi permette di chiamare il presidente Bush mio amico, non solo personalmente - perché personalmente mi piace molto - ma anche come mia controparte e Presidente di una nazione amica»2.
Certo, occorre contestualizzare… ed è questo il punto.
L’uso del termine «Guerra Fredda» - senza ulteriori qualifiche - è popolarissimo per l’intero secondo dopoguerra ma anche fuorviante, e lo stesso vale per il quadro attuale dei rapporti fra Russia e «Occidente».
Ritengo corretta la periodizzazione proposta da Fred Halliday: questa distingue Prima guerra fredda (1946-1953), antagonismo oscillatorio (1953-1969), distensione (1969-1979) e Seconda guerra fredda (dal 1980, terminata di fatto con il vertice di Reykjavík fra Gorbačëv e Reagan nell’ottobre 1986)3.
La fase dell’antagonismo oscillatorio fu caratterizzata da negoziati e ripetuti tentativi di ridurre le tensioni fra i due campi, ciascuno fallito a causa di eventi in parte fuori dal controllo delle due potenze, ma che necessariamente le coinvolgevano e le contrapponevano.
Si trattò quindi di una fase che combinava aspetti della Guerra Fredda con aspetti della distensione e che, a differenza di queste ultime, si sarebbe definita con chiarezza retrospettivamente più che nel suo farsi.
Ebbene, tutto sommato è a questo che somigliano i rapporti fra gli Stati Uniti e la Russia di Putin: tant’è vero che il terrorismo jihadista (e per la Russia in particolare, il terrorismo ceceno) è avversario comune; e i flussi di energia dalla Russia all’Europa occidentale sarebbero stati impensabili durante la Prima guerra fredda (questi flussi iniziarono durante la distensione e furono tra i motivi del rinvio delle riforme sovietiche e della paradossale «maledizione delle risorse» che ancora affligge l’economia russa).
Esiste inoltre una ragione fondamentale per cui occorre fare molta attenzione ad assimilare i rapporti contemporanei fra Russia e «Occidente» alla Guerra Fredda, che era un contrasto fra sistemi sociali diversi: l’imperialismo capitalistico da una parte e lo pseudosocialismo totalitario dall’altra.
Nel XXI secolo né il «comunismo» sovietico né quello maoista esistono più. Abbiamo solo capitalismi, e quelli della Russia e della Cina sono anche imperialismi (nel senso proprio e strutturale che prescinde da una politica più o meno aggressiva; almeno per i marxisti, ciò dovrebbe essere ovvio).
Porre la questione come se si trattasse della Guerra Fredda è un modo per alimentare tensione e confusione. Oppure per crearsi la consolatoria illusione di rivivere i vecchi tempi «gloriosi»: cosa ancor più sbagliata quando si consideri - oltretutto - che Putin e Trump sono entrambi collocabili alla destra dello spettro politico: tradizionalisti, nazionalisti, autoritari, militaristi e maschilisti.
Comunque, è dalla crisi ucraina e dall’annessione della Crimea che il pendolo tende verso il gelo: l’attuale crisi diplomatica rientra nel quadro, ma non si può escludere l’alleggerimento della tensione. Si vedrà.
Quanto all’iniziativa protezionistica dell’amministrazione Trump, questa era attesa da tempo.
Per cui, coincidenza tra i due fatti? Sì, con molta probabilità. Anche perché muoversi verso la Guerra Fredda allo stesso tempo con Russia e Cina sarebbe mossa alquanto stupida, ed ancor più stupido sarebbe far questo mentre si minaccia o si intraprende effettivamente una guerra commerciale con gli alleati.
Si può fantasticare che dietro l’avvelenamento di Skripal’ ci sia la machiavellica Commissione europea, che intende così impedire a Trump di baciare la guancia di Putin? O che sia un trucco degli avversari della Brexit? L’elenco delle trame possibili si può allungare.
Non c’è dubbio che esista un negoziato con la Cina e che a marzo essa abbia inizialmente risposto in modo moderato alle tariffe statunitensi, promettendo concessioni; intanto pare che Commissione europea e Gazprom stiano arrivando a un accordo per chiudere un caso di antitrust assai costoso che risale al 2011; e rimane da definire l’incontro a Washington proposto da Trump a Putin durante la telefonata di congratulazioni per la terza rielezione del presidente russo (quindi, due settimane dopo l’avvelenamento degli Skripal’).
A mio parere, la questione cruciale è che quando ben contestualizzata, lungi dall’essere frutto della strategia di una regia, la scena dei rapporti con la Russia appare abbastanza pasticciata e suscettibile di sviluppi molto diversi.
È vero però che non si tratta di sola casualità. È il tipo di situazione che mette in luce le contraddizioni intrinseche alla politica estera dell’amministrazione Trump.
L’impeto protezionistico risponde a esigenze di legittimazione interna - sulla base delle promesse elettorali - ma è in contrasto con la divisione internazionale del lavoro e la riproduzione del capitale statunitense su scala mondiale. Si delinea un conflitto fra la politica economica internazionale degli Stati Uniti e la sua politica delle alleanze e della sicurezza nazionale.
Il protezionismo è anche un modo per non attuare serie riforme socioeconomiche negli Usa. In fondo alle contraddizioni della politica estera dell’amministrazione Trump c’è il conflitto latente fra questa e il popolo dei comuni cittadini nordamericani, compresi gli operai maschi bianchi che l’hanno votato.
Per il mondo, questo è molto più importante che storie di spie, arsenico e vecchi merletti ideologici.


1 Tranne Anna Politkovskaja, le persone citate sono, per essere eufemistici, sgradevoli, e controverse sono le circostanze dell’avvelenamento o della morte. Con criterio complottistico, però, non dovrebbero esserci dubbi: il colpevole è al Cremlino o alla Lubjanka, vecchia sede del Kgb, ora dell’Fsb. Non è invece controverso il fatto che la Russia sia uno dei paesi più pericolosi al mondo per il giornalismo indipendente. Secondo la International Federation of Journalists, la Russia è al quinto posto nel mondo quanto a giornalisti assassinati: 109 fra il 1990 e il 2009, preceduta da Pakistan (115), Messico (120), Filippine (146) e Iraq (309). Gli Stati Uniti, unico fra i Paesi a capitalismo avanzato, figura al 22º posto con 30 giornalisti assassinati. I numeri sono approssimati per difetto e bisognerebbe considerare anche gli attacchi non letali e altre forme di coercizione. Cfr. IFJ 25th Report on journalists and media staff killed 1990–2015, Brussels 2016.
Non è che in Russia i giornalisti siano ammazzati per ordine del Cremlino o di qualche servizio statale. Il capitalismo russo ha un’origine e caratteristiche peculiari per cui la competizione economica si avvale spesso di mezzi non economici e illegali - compresa la violenza - in misura superiore che nei Paesi a capitalismo avanzato. Il numero di giornalisti uccisi si può interpretare come il sintomo di questo fatto. Per un’analisi ben documentata (anche se teoricamente discutibile) dell’eccezionale importanza dell’«infrastruttura di controllo» (che implica anche i mezzi illegali) e dei suoi meccanismi economici, cfr. Ruslan Dzarasov, The conundrum of Russian capitalism: the post-Soviet economy in the world system, Pluto Press, London 2013. Non è difficile l’analogia tra la fisiologia interna del capitalismo russo e le sue specifiche modalità operative imperialistiche nel suo «estero vicino» post-sovietico.
2 Cfr. la fraterna conferenza stampa congiunta del 1º giugno 2003.
3 Fred Halliday, The making of the Second Cold War, Verso, London 1983; Id., «The ends of Cold War», New Left Review, I/180, 1990.

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