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giovedì 29 marzo 2018

CINA E RUSSIA NELLA «NATIONAL SECURITY STRATEGY» DELL’AMMINISTRAZIONE TRUMP, di Michele Nobile

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

Con questo articolo - preceduto da «La politica estera degli Stati Uniti e le contraddizioni di Trump: questioni di metodo» - Michele Nobile inizia ad approfondire l’analisi della politica estera dell’amministrazione Trump partendo dalla National Security Strategy recentemente pubblicata. [la Redazione]

INDICE: Premessa - 1. La definizione del problema della sicurezza nazionale - 2. La teoria della pace democratica nelle precedenti amministrazioni - 3. La visione del mondo della NSS 2017 e la critica della teoria della pace democratica - 4. Cina e Russia nelle precedenti NSS - 5. Cina e Russia nella NSS 2017: minacce alla sicurezza nazionale - 6. Le relazioni fra Cina e Russia nella strategia americana - 7. Conclusione provvisoria

Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping. Pechino, 9 novembre 2017 © Nicolas Asfouri
Premessa
Alla fine del 2017 l’amministrazione Trump ha pubblicato la sua National Security Strategy (NSS), il rapporto sulla strategia di sicurezza nazionale che il Presidente degli Stati Uniti è tenuto a presentare annualmente al Congresso. È legittimo chiedersi quale interesse possa avere un documento come una NSS dal momento che sicuramente non contiene piani d’azione militare, neanche in termini generali.
Una NSS è frutto di compromessi in seno all’amministrazione ed è spesso scavalcata da sviluppi non previsti; d’altra parte, la disponibilità dei mezzi previsti per conseguire gli obiettivi indicati può anche andare oltre la durata dell’amministrazione che l’ha prodotta - e di non pochi anni.
I dubbi aumentano di fronte a un presidente come Trump - contestato dagli specialisti di politica estera e militare del suo stesso partito - e alla serie di dimissioni di personale di alto livello, sia per contrasti col presidente che imposte dai risultati delle indagini.
Dei trenta Segretari di Stato del XX secolo, Rex Tillerson è fra i sei che sono rimasti in carica per meno tempo, e nel periodo successivo alla Guerra Fredda solo Lawrence Eagleburger è durato meno. L’amministrazione Trump è al terzo Consigliere per la sicurezza nazionale in poco più di un anno, mentre nell’arco di otto anni Clinton e Bush Jr. ne hanno avuti soltanto due e Obama tre.
Oltretutto, non si può dire che il segretario di Stato e il consigliere per la sicurezza nazionale designati da Trump - Mike Pompeo, nominato direttore della Cia, e John Bolton, già ambasciatore presso le Nazioni Unite sotto George W. Bush - siano personaggi indicativi di un orientamento moderato: sono decisamente «falchi» scelti esclusivamente per la loro vicinanza politica al presidente.
Inoltre, benché tutte le varianti della NSS rendano un omaggio rituale ai «valori americani», suona strano leggere in un documento introdotto da Donald Trump che «gli Stati Uniti rigettano il bigottismo e l’oppressione» e che si impegnano a difendere i diritti delle donne e delle ragazze (NSS 2017, pp. 11 e 14).
In termini più sostanziali, come ampiamente prevedibile in alcuni punti, ad esempio sulla Russia e sulla Nato, la NSS 2017 appare in contrasto con i timori e le speranze suscitate da Trump prima delle elezioni. Pertanto ci si può chiedere quanto il documento rifletta il pensiero del presidente e quindi quanto sia affidabile.
È sorprendente che il messaggio di Trump che precede l’ultima NSS parli di «potenze rivali» aggressive nei confronti degli interessi americani nel mondo, senza però nominare Cina e Russia; poi, nel discorso del 18 dicembre 2017 con cui presentò il documento, Trump ha citato la telefonata di ringraziamento di Putin per le informazioni fornite dalla Cia utili a sventare un grave attentato terroristico pianificato a San Pietroburgo, ma ha anche detto che gli Stati Uniti affrontano «potenze rivali, la Russia e la Cina, che cercano di sfidare l’influenza, i valori e la ricchezza americani», precisando che, «in base alla mia direzione, questo documento è stato in elaborazione per oltre un anno. Ha l’approvazione del mio intero Gabinetto».
Non è affatto insolito che una NSS sia pubblicata oltre i termini prescritti dalla legge, ma quest’ultima frase appare come una precisazione superflua, una rassicurazione che sembra sottintendere il contrario.
Quanto al resto, il discorso si differenzia dalla NSS solo per i toni ancor più trionfalistici e per l’autocelebrazione della presunta identità fra il Popolo e il presidente, eletto con quasi tre milioni di voti in meno della concorrente Hillary Clinton:
«Ma l’anno scorso tutto ciò è cominciato a cambiare. Il popolo americano ha respinto i fallimenti del passato. Avete riscoperto la vostra voce e reclamato la proprietà di questa nazione e del suo destino.
Il 20 gennaio 2017 sono salito sui gradini del Campidoglio per annunciare il giorno in cui il popolo è di nuovo il governante della sua nazione (applausi). Grazie. Ora, meno di un anno dopo, sono orgoglioso di riferire che il mondo intero ha udito la notizia e ha già visto i segni. L’America sta tornando, e sta tornando forte».
Il rapporto sulla strategia di sicurezza nazionale venne istituito nel 1986 dal Goldwater-Nichols Act: da allora ne sono stati pubblicati diciassette. Ebbene, se si confronta la NSS 2017 con quelle successive al crollo dell’Unione Sovietica, è chiaro che si tratta di un documento molto originale, pressoché alla pari con la NSS 2002 di Bush figlio, che formulava la dottrina della «guerra preventiva».
Sebbene da una NSS non sia possibile dedurre cosa esattamente un’amministrazione farà e quando, si possono tuttavia trarre indicazioni di massima circa la percezione delle minacce alla sicurezza nazionale e l’atteggiamento con cui si intende affrontarle.
La NSS 2017 contiene relativamente poco circa i diritti umani e la promozione della democrazia - cosa che può gratificare i simpatizzanti del presidente Putin e del leader supremo della Corea del Nord - ma la prospettiva delineata, che in termini enfatici si potrebbe chiamare grand strategy, non è meno pericolosa della decisione che portò alle invasioni di Afghanistan e Iraq.
Forse lo è ancor di più, sul piano dei rapporti con le potenze nucleari Cina e Russia e per motivi che non discendono soltanto dai vincoli posti dal Congresso, ma che sono intrinseci al concetto di America First come definito da Trump.
La visione del mondo contenuta nella NSS 2017 è sostanzialmente in linea con quella di Trump; tuttavia, nella sua concretizzazione questa stessa visione può comportare notevoli oscillazioni e confusione nella condotta della politica estera statunitense non solo a causa dell’opposizione interna, ma perché è internamente contraddittoria: questo potrebbe essere il motivo dei disaccordi personali nell’Amministrazione, in cui parti differenti spingono sui poli che costituiscono la contraddizione.
La struttura della NSS 2017 è costituita da un messaggio dello stesso Trump, un’introduzione e quattro capitoli relativi ad altrettanti pilastri della sicurezza nazionale, più un capitolo che applica la strategia nelle regioni del mondo.
Formalmente, ogni capitolo presenta delle azioni prioritarie per conseguire gli obiettivi indicati, una novità che appare tesa a dare concretezza, ma che in realtà è solo stilistica; e pure i quattro pilastri od obiettivi - proteggere il popolo americano, promuovere la prosperità in America, preservare la pace attraverso la forza e far progredire l’influenza dell’America - sono banalità presenti in ogni NSS.
La peculiarità di questo documento va ricercata nel modo in cui si definiscono concretamente quegli obiettivi, innanzitutto nella definizione del problema della sicurezza nazionale e delle minacce.

1. La definizione del problema della sicurezza nazionale
Il messaggio a firma Donald Trump che funge da prefazione alla NSS 2017 è un’arrogante rivendicazione dei presunti successi dell’Amministrazione, incluso l’aver «schiacciato i terroristi dello Stato islamico di Siria e Iraq (Isis)», che è però fatto rivendicato da tutti gli attori interessati prima che Trump s’insediasse.
L’elenco dei problemi ereditati dalle precedenti amministrazioni è lungo: «Stati canaglia», terrorismo internazionale, potenze aggressive, immigrazione incontrollata, cartelli criminali, ineguale distribuzione degli oneri della difesa tra Stati Uniti e alleati, scorrettezza nei rapporti economici.
Alla luce di ciò, i successi vantati con tono trionfalistico risaltano ancor di più: l’amministrazione Trump sta già «tracciando un corso nuovo e molto diverso». Il presidente si atteggia a salvatore della Patria, come colui che ha ripristinato la fiducia nei valori americani e la posizione dell’America nel mondo - «dopo un anno, il mondo sa che l’America è prospera, è sicura ed è forte» (NSS 2017, p. II).
Tuttavia, una nota d’allarme risuona sia nel messaggio di Trump che nel corpo della stessa NSS: «Gli Stati Uniti si trovano davanti ad un mondo straordinariamente pericoloso, pieno di una vasta gamma di minacce che si sono intensificate negli ultimi anni» (NSS 2017, p. I). Apparentemente sembra una contraddizione, ma la nota allarmistica svolge diverse funzioni.
Innanzitutto, mantenere elevato l’allarme circa il terrorismo e gli «Stati canaglia» è una necessità intrinseca alla dottrina della guerra e delle operazioni militari preventive, che è ormai una delle possibilità d’azione apertamente indicate da tutte le amministrazioni statunitensi, sia pure con formule diverse.
La formalizzazione di questa dottrina è uno stravolgimento dello jus ad bellum (il diritto ad entrare in guerra), con implicazioni anche per lo jus in bello (le norme che regolano il modo di fare la guerra, per esempio circa il trattamento dei prigionieri e della popolazione civile).
Perfino in un’interpretazione assai ampia e assai discutibile delle norme del diritto internazionale, uno dei criteri vincolanti - e non l’unico - che può giustificare come legittima difesa un’azione militare che anticipi l’attacco del nemico è quello dell’imminenza dell’aggressione.
Tuttavia, per quanto possa ammantarsi di formali riferimenti alle necessità dell’autodifesa, nella logica della guerra preventiva formalizzata dalla NSS 2002 la nozione di imminenza dell’attacco è svincolata da precisi riferimenti temporali e materiali, e quindi svuotata di significato reale.
La principale giustificazione della guerra e di operazioni militari preventive è diventata la possibilità e l’intenzione che entità definite come terroristiche o «Stati canaglia» si procurino armi di distruzione di massa; ciò equivale anche ad affermare che per queste entità il possesso di armi di distruzione di massa coincida con la certezza del loro utilizzo in un futuro e in un luogo indeterminati. La guerra od operazioni militari preventive vengono così giustificate a priori.
Anticipo una questione trattata più ampiamente in un prossimo articolo: seppur con obiettivi differenti, in pratica la logica della guerra preventiva è fatta propria anche da Cina e Russia, con modalità complesse - non solo militari, ma anche economiche e (dis)informative - spesso indicate dagli specialisti occidentali come «guerra ibrida» e nella discussione sovietica e russa con un’espressione che può essere tradotta come «controllo riflessivo». Questo è uno dei problemi con cui si confronta la NSS 2017 e uno dei motivi per cui suona l’allarme: la più ampia varietà di mezzi e modalità d’intervento della politica estera cinese e russa.
Inoltre - chiara stoccata alle Amministrazioni di Obama - la nuova NSS attacca «le eccessive regolazioni e l’alto livello delle tasse che hanno soffocato la crescita e indebolito la libera impresa», ridotto il credito e la creazione di posti di lavoro, anche a causa del peso di un’eccessiva regolazione ambientalistica, così da incrinare pure i presupposti economici della sicurezza nazionale (p. 2 e capitolo sulla promozione della prosperità in America).
Nel messaggio di Trump premesso alla NSS, l’ineguale condivisione degli oneri per la sicurezza fra gli Stati Uniti e gli alleati è indicata come una delle ragioni che hanno incoraggiato gli avversari a intraprendere azioni pericolose - il punto si ripropone poi nel documento. Ovviamente non sono affatto poste in discussione le alleanze, ma i termini con cui gli altri Stati vi contribuiscono.
Tuttavia, la lista delle inadempienze non si ferma qui. Essa copre tutti gli anni ‘90, comprendendo le Amministrazioni di Bush padre e di Clinton, e implicitamente anche quelle di Bush figlio. Nella NSS 2017 è fondamentale la critica dell’idea che la superiorità militare statunitense fosse garantita, come lo è la critica del concetto wilsoniano (da Woodrow Wilson, presidente dal 1913 al 1921) di «pace democratica» che, sia pur declinato in modi diversi, è stato al centro della politica estera perseguita dagli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda.
La NSS 2017 è notevole per il modo in cui combina l’enfasi del rilancio interno del liberismo - della deregulation o meglio «ri-regolazione» - con una forte caratterizzazione competitiva dell’economia mondiale e delle relazioni fra gli Stati che si estende anche, con i dovuti distinguo, agli alleati. Le recenti misure protezionistiche, che prevedono trattamenti differenziati ed esenzioni per gli alleati, rientrano in questa logica.
In questa NSS l’allarmismo va compreso alla luce dell’uso interno della politica estera, ovvero del fatto che il problema della strategia della sicurezza nazionale non è definito soltanto dalle minacce esterne, ma anche dall’«autocompiacimento strategico» di tutte le precedenti amministrazioni (NSS 2017, pp. 2 e 27), la cui la condotta è così squalificata.
Secondo la NSS 2017, le politiche delle precedenti amministrazioni hanno privato gli Usa di parte dei vantaggi strategici di cui godevano dopo essere emersi vittoriosi dalla Guerra Fredda, in tal modo permettendo ad altri attori sulla scena internazionale di implementare piani a lungo termine per sfidare gli Stati Uniti. È questo «autocompiacimento strategico» che la NSS 2017 intende ribaltare. E gli attori in questione sono Cina e Russia.
Nel complesso, nella definizione dei problemi della sicurezza nazionale la strategia America First è agli antipodi dell’idea che «il potere, in un mondo interconnesso, non è più un gioco a somma zero» (NSS 2010, p. 3).
Se la NSS 2002 di Bush Jr. intendeva segnare una discontinuità a causa del fatto che, per la prima volta dalla guerra con la Gran Bretagna nel 1812-1815, il cuore degli Stati Uniti era stato oggetto di un attacco dall’esterno, la NSS 2017 intende marcare una discontinuità deliberata, non imposta solo dall’ambiente esterno.

2. La teoria della pace democratica nelle precedenti amministrazioni
Per alcuni aspetti, la NSS 2017 può ricordare le strategie delle precedenti amministrazioni: l’importanza dei problemi economici è comune a quelle di Clinton e di Obama; e l’idea che il terrorismo e gli «Stati canaglia» siano una, ma non la principale minaccia, era condivisa dall’aborrito (da parte di Trump) Obama.
Comprensibilmente, la maggior parte dei problemi non cambiano da un’amministrazione all’altra e anche gli obiettivi genericamente indicati non sono tanto differenti.
Ad esempio, la cybersecurity era già nella clintoniana NSS 2001, che ricordava il conflitto informatico fra Cina e Taiwan, aumentava del 32% i fondi per la ricerca sulla sicurezza informatica e indicava una serie di iniziative per la protezione da attacchi informatici, fra cui l’Institute for Information Infrastructure Protection (I3P), presentato come «un’innovativa partnership pubblico/privata» in termini non diversi da quanto si può leggere nella NSS 2017 circa la collaborazione tra governo e società private.
Lo stesso può dirsi per la difesa antimissilistica e per l’affermazione per cui «competeremo con tutti gli strumenti della potenza nazionale per assicurare che non vi siano regioni del mondo dominate da un’unica potenza» (NSS 2017, p. 4).
Tuttavia, la visione del mondo della NSS 2017 è assai differente dalle precedenti e di conseguenza anche l’enfasi sui problemi, e specialmente la cornice entro la quale essi sono trattati. A fini di chiarezza, una parentesi storica è necessaria.
Dalla Seconda guerra mondiale e dall’inizio della Guerra Fredda, la politica estera degli Stati Uniti presentò una componente che può dirsi «wilsoniana», più o meno accentuata dalle diverse amministrazioni: l’America come paladino del «mondo libero», della democrazia e della libertà economica, una potenza internazionalistica attenta a mantenere buoni rapporti con gli alleati, promotrice delle istituzioni internazionali e attiva in esse.
Un elemento fondamentale del wilsonismo è l’idea che le democrazie non si fanno la guerra tra loro e che siano meno propense alla guerra delle dittature e degli Stati totalitari: è la teoria della «pace democratica».
Questa, a sua volta, nel caso degli Stati Uniti combina il senso dell’eccezionalismo nazionale con una missione universale, perché si presuppone che per gli Usa l’interesse della sicurezza nazionale coincida con la promozione e il sostegno della democrazia nel mondo.
Ovviamente non è difficile elencare i numerosi casi in cui gli Stati Uniti hanno lavorato contro governi democraticamente eletti o appoggiato dittature: durante la Guerra Fredda, la liberalizzazione politica nei Paesi periferici o in via di sviluppo era subordinata al «contenimento del comunismo» e limitata dal rischio che essa innescasse processi di mobilitazione sociale e politica che avrebbero portato al potere partiti favorevoli all’Unione Sovietica o alla Cina. Il wilsonismo pratico è stato alquanto selettivo.
Bisogna però dire che la teoria della pace democratica ebbe anche alcuni notevoli successi, in particolare nella parziale e nondimeno reale «stabilizzazione democratica» degli ex nemici Germania, Giappone e Italia, che permise una critica della politica estera dall’interno del sistema di valori americano.
Restando nel «credo americano» della libertà è infatti possibile smascherare le falsità e l’ipocrisia del governo, e contestare duramente la contraddittorietà di una politica estera che pretende di difendere la democrazia e l’indipendenza nazionale appoggiando colpi di Stato o gli interessi economici delle multinazionali statunitensi, bombardando un piccolo Paese sottosviluppato come il Vietnam o sostenendo la Contra somozista in Nicaragua, le squadre della morte in El Salvador e le stragi nei villaggi indios del Guatemala.
Il collasso dell’Unione Sovietica e del suo blocco di alleati ha liberato la teoria della pace democratica dai vincoli posti dal «contenimento del comunismo», ricevendo nuovo e notevole slancio.
Negli anni di Bush Sr. e di Clinton non si trattava più di «contenere il comunismo», ma di estendere e consolidare i regimi liberali e capitalistici, integrando a tutti gli effetti i Paesi dell’Europa centrale - e anche la Russia - nell’economia mondiale: operazione ben riuscita.
Allineare gli interessi della sicurezza nazionale e i valori statunitensi sembrava più facile in un mondo che s’intendeva caratterizzato dalla «fine delle ideologie» (ovvero del «comunismo» sovietico) e dal confronto bipolare tra superpotenze, se non dalla «fine della storia»; perfino chi vedeva nel potere degli Stati Uniti una sorta di impero poteva vestirlo con i panni della benevolenza e dichiarare che ormai la guerra aveva uno scopo umanitario.
Camuffamento ideologico dell’imperialismo? Certo, ma non solo.
Il richiamo ai valori è anche espressione della natura informale dell’imperialismo nordamericano e della tradizionale rivendicazione della libertà di commercio e d’investimento, che un tempo passava attraverso la frammentazione degli imperi in Stati indipendenti e formalmente eguali, e ora attraverso la liberalizzazione finanziaria e la privatizzazione di servizi e attività statali.
E per quanto ipocrita, la guerra «umanitaria» ha dalla sua una realtà in cui si condensa il dramma della nostra epoca: ovvero che i regimi contro cui si volge non hanno nulla a che fare con il socialismo o la democrazia, e che il loro antimperialismo è in realtà la maschera di nazionalismi brutali e del potere di ben precise caste politiche.
Nel corso degli anni ‘90, l’attiva promozione della democrazia divenne il fine dichiarato su cui poteva esserci accordo - benché non completamente intorno ai tempi e ai modi - fra intellettuali-funzionari neoliberali del Partito democratico e intellettuali-funzionari della seconda generazione di neoconservatori (i giovani che avevano iniziato a lavorare nell’amministrazione Reagan), due correnti diversamente «idealistiche» in contrasto con i «realisti» della Guerra Fredda e della scuola di Kissinger.
È da notare che la prima generazione di neoconservatori si opponeva alla politica di distensione avviata dal duo Nixon-Kissinger e alla retorica dei diritti umani di Carter – alle quali questi neocons attribuivano la «perdita» di Iran e Nicaragua – ma si distingueva dalla sua seconda generazione perché non faceva della promozione della democrazia un obiettivo immediato della politica estera.
Per questi neoconservatori valeva la «realistica» distinzione di Jeane Kirkpatrick fra regimi autoritari e regimi totalitari: i primi meno repressivi dei secondi e con maggiori possibilità di liberalizzazione - tesi che le valse la nomina da parte di Reagan ad ambasciatrice presso le Nazioni Unite; Kirkpatrick era stata a lungo democratica, ma nel 1976 con altri del suo partito si era unita ai «falchi» repubblicani e neoconservatori nel Committee on the Present Danger, contrario alla distensione.
Pertanto, la seconda generazione di neoconservatori si distingue dalla prima perché ha fatto calzare il guanto liberale e «idealistico» della promozione della democrazia sul pugno d’acciaio dell’intervento militare.
È assai dubbio che l’amministrazione di Bush Jr. sia nata neoconservatrice e che neoconservatori potessero dirsi il presidente e i principali detentori del potere di decidere la politica estera e l’impostazione delle invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, ma indubbiamente i neoconservatori, ben rappresentati come vice e collaboratori, avevano un obiettivo chiaro da anni - l’Iraq - e una retorica appropriata alle necessità dell’Amministrazione.
La teoria della pace democratica può essere applicata in modi differenti e non esclude l’intervento unilaterale, anzi, si presta a legittimarlo; ma essa richiede pure che si combini con il multilateralismo, non necessariamente sulla base dell’autorizzazione dell’intervento militare da parte dell’oligarchia che domina il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma nella forma di coalizioni di «volenterosi» disposti a fornire un appoggio anche solo simbolico.
Occorre rilevare che anche la politica estera dei governi di Cina e Russia presuppone la teoria della pace democratica, ma con un senso meno universalistico, limitandola allo sviluppo di relazioni economiche e diplomatiche con le potenze a capitalismo avanzato.
In nome della sovranità statale - un principio incompatibile con l’internazionalismo socialista – tali governi difendono invece il loro regime interno e quello di Paesi loro «amici» dalle critiche sul mancato rispetto dei diritti umani e vincolano gli interventi militari al consenso del Consiglio di sicurezza, nel quale hanno diritto di veto.
Questo perché l’Occidente - le capacità economiche e militari dei Paesi a capitalismo avanzato, in primo luogo gli Stati Uniti - è allo stesso tempo l’«Altro» ammirato e temuto dal quale si rivendica il riconoscimento dello status di grande potenza che ha diritto alla propria sfera d’influenza, al proprio àmbito imperiale regionale.

3. La visione del mondo della NSS 2017 e la critica della teoria della pace democratica
La NSS 2017 qualifica il rituale riferimento ai «valori statunitensi» con una visione che si oppone a quella dei documenti precedenti anche nei deliberati riferimenti teorici. Fin dall’inizio, la NSS di Trump afferma che la sua strategia poggia sul realismo, «è guidata dai risultati, non dall’ideologia» e «si basa sul fatto che la pace, la sicurezza e la prosperità dipendono da nazioni forti e sovrane che rispettano i loro cittadini in patria e cooperano per far avanzare la pace all’estero» (p. 1, corsivo mio).
In conclusione si dice che la strategia «è realista perché riconosce il ruolo centrale del potere nella politica internazionale, afferma che gli Stati sovrani sono la migliore speranza per un mondo pacifico e definisce chiaramente i nostri interessi nazionali» (p. 55, corsivo mio).
Il riferimento al realismo non è casuale né neutrale. Esso deve intendersi non in senso generico, ma secondo il significato che assume nella teoria delle relazioni internazionali, che dopo la grande stagione della geopolitica tedesca è ormai in gran parte una creazione anglosassone.
In questo contesto, il termine realismo evoca un mondo sostanzialmente hobbesiano, popolato da Stati che perseguono il proprio «interesse nazionale», definito innanzitutto - ma non esclusivamente - come potere e potenza militare.
Secondo il classico di Hans Morgenthau Politics among nations: the struggle for power and peace, sia nella sfera interna che in quella internazionale la politica è lotta per il potere.
Nell’arena internazionale, questa lotta può essere volta a mantenere immutata la distribuzione del potere fra gli Stati, conservando quindi lo statu quo; oppure ad aumentare il potere dello Stato oltre le sue frontiere, mutando così il suo status (quel che Morgenthau chiamava imperialismo); oppure seguire una politica di prestigio per mantenere o accrescere il potere attraverso dimostrazioni di potenza (Hans J. Morgenthau, Politics among nations: the struggle for power and peace, New York 1948, pp. 21-2).
Una NSS non è un trattato teorico, ragion per cui non è difficile individuare i passi e le proposte che presuppongono collaborazione piuttosto che competizione, partecipazione a istituzioni e accordi internazionali invece che isolazionismo, multilateralismo più che unilateralismo.
Per gli Stati Uniti - come per Cina e Russia - la combinazione secondo aree e opportunità di tattiche diverse e complementari è inevitabile, ed è utile una certa ambiguità. Aree in cui gli interessi differenti richiedono mediazioni e negoziati si affiancano a quelle in cui le posizioni sono in contrasto.
È pure questione di tempi, di tattica diplomatica - l’alternarsi di rigidità e flessibilità può servire a negoziare termini più vantaggiosi da una posizione di forza, anche in nome di terze parti - e di sviluppi non prevedibili, dovuti innanzitutto all’iniziativa di forze locali che poi costringono le potenze a prendere posizione per l’una o l’altra delle parti.
Ne sono esempi i negoziati sul programma nucleare dell’Iran fra 2013 e 2016, che hanno coinvolto gli Stati membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu (quindi anche Cina e Russia) più la Germania, e quelli con la Corea del Nord a partire dal test missilistico del 1993, a cui pure hanno partecipato Cina e Russia.
Dall’altro lato, esempi di eventi in cui le grandi potenze hanno dovuto prendere posizione dopo che erano stati promossi da condizioni e forze locali - a meno di non sovrastimare la potenza della Cia con una logica simile a quella dei Protocolli dei Savi di Sion - sono la «primavera araba» e le «rivoluzioni colorate» nei Paesi ex sovietici.
È dunque importante determinare in cosa la retorica della NSS 2017 si distingue da un puro e coerente realismo teorico. Tuttavia, è altrettanto importante prendere atto che l’atmosfera di questa NSS è lontana dall’idealismo wilsoniano che caratterizzava tutte le precedenti.
Il punto non è soltanto relativo alla retorica e al modo in cui si legittima la strategia. Quel che si segnala attraverso la formula del principled realism è lo spostamento da un atteggiamento che enfatizza il perseguire l’interesse nazionale mediante la cooperazione internazionale - certo, sempre riservando agli Stati Uniti il diritto di ricorrere unilateralmente alla forza «se necessario», e quindi con la disponibilità a compromessi diplomatici e a scambi tra la sicurezza nazionale e la politica economica internazionale - a un atteggiamento che, fatte le dovute distinzioni, è competitivo in tutti i campi e con tutti gli attori internazionali.
I dubbi in proposito sono dissipati da affermazioni come questa: «le competizioni per l’influenza sono eterne. Esse esistono in varia misura e con diversi livelli di intensità da millenni. La geopolitica deriva dall’interazione di queste competizioni in tutto il mondo» (NSS 2017, p. 26).
«Geopolitica» è termine carico di associazioni sinistre perché accostato alla politica di potenza, alla difesa o costruzione di imperi e sfere d’influenza e alla Guerra Fredda: per questo, nelle NSS è raro ed è comunque usato in modo generico - come nella NSS 2006 - invece che carico di valore storico, come nella NSS 2017.
Vi si legge invece che, «dopo essere stata dismessa come un fenomeno del secolo precedente, la competizione fra grandi potenze è tornata. La Cina e la Russia hanno cominciato a riaffermare la loro influenza a livello regionale e globale» e «stanno contestando i nostri vantaggi geopolitici e cercando di cambiare l’ordine internazionale in loro favore» (p. 27). In un testo non ufficiale, al posto di the contest for influence sarebbe stato possibile leggere un’espressione più sanguigna come the fight for hegemony.

4. Cina e Russia nelle precedenti NSS
Con il crollo dell’Unione Sovietica – mentre la Cina era già un partner da quasi due decenni - la minaccia che orientava in modo unitario l’intera politica estera nordamericana venne meno. Perciò, nella NSS 1993 di Bush padre si poteva leggere che «le sfide di oggi sono più complesse, ambigue e diffuse che mai. Sono politiche, economiche e militari; unilaterali e multilaterali; a breve e a lungo termine» (p. 1).
La varietà e complessità delle sfide e delle minacce - non solo militari - in un mondo caratterizzato dall’interdipendenza è anche il filo conduttore delle sette NSS delle due amministrazioni Clinton: vi figurano i conflitti etnici, gli «Stati canaglia», la proliferazione delle armi di distruzione di massa e i rifugiati in fuga dalle guerre, ma anche minacce transnazionali e non statali come il terrorismo, il narcotraffico e il traffico di esseri umani; problemi socioeconomici come il degrado dell’ambiente, la rapida crescita della popolazione mondiale, la lotta alla povertà e la globalizzazione economica.
Oltre che nella gestione dell’enlargement della comunità degli Stati democratici - che allora, fra i 27 Paesi della Partnership for Peace, comprendeva anche la Russia - la strategia clintoniana si era impegnata a prevenire lo sviluppo di un vuoto di potere e la corsa agli armamenti che avrebbe potuto destabilizzare alcune regioni del mondo, preparando la deterrenza e, in caso di necessità, la sconfitta dell’aggressione da parte di Stati «potenzialmente ostili agli Stati Uniti» come Corea del Nord, Iran e Iraq.
Dopo gli attentati dell’11 settembre, durante le amministrazioni di Bush figlio tornò alla ribalta una minaccia ben definita da contrastare con una guerra di «durata incerta», intorno alla quale doveva orientarsi la politica estera degli Stati Uniti: era «l’incrocio di radicalismo e tecnologia», ovvero la combinazione di terrorismo, «Stati canaglia» e armi di distruzione di massa (NSS 2002, p. II), per il quale la nozione usuale di deterrenza non era più adeguata.
Occorreva invece porre termine alla tirannia e promuovere la democrazia come «la misura a lungo termine più efficace per rafforzare la stabilità internazionale; ridurre i conflitti regionali; contrastare il terrorismo e l’estremismo che lo sostiene; ed estendere la pace e la prosperità» (NSS 2006, p. 3).
La strategia della sicurezza nazionale delle amministrazioni Obama non rinnegò ma ridefinì operativamente la dottrina della guerra preventiva, gestendo l’eredità di Bush in Afghanistan e in Iraq. Niente affatto pacifista, il premio Nobel per la Pace (!) distingueva fra la cattiva war of choice in Iraq e la buona war of necessity in Afghanistan.
La grande differenza tra le politiche di Bush Jr. e di Obama è che la seconda si caratterizzò per l’intento di spostare la politica estera dalla centralità di «una singola minaccia o regione» (il terrorismo e il Medio Oriente) per definire invece «un insieme diverso ed equilibrato di priorità appropriate per la potenza globale che è leader a livello mondiale e con interessi in ogni parte di un mondo sempre più interconnesso» (NSS 2015, p. 5).
In parte, dunque, un ritorno alla complessità della visione clintoniana. Di questo processo facevano parte l’enfasi sulla cooperazione con gli alleati, ma anche l’intento di ristabilire migliori relazioni con la Russia, oltre al tentativo di riequilibrare la posizione americana nel Pacifico.
Le varie NSS mostrano le oscillazioni nelle relazioni fra Stati Uniti e Russia, ma fino all’inizio del terzo mandato presidenziale di Putin (segnato da una forte contestazione interna) e alla guerra civile in Ucraina, nel complesso la tendenza prevalente dopo ogni crisi (Kosovo nel 1999, le «rivoluzioni colorate» in Georgia, Ucraina e Kirghizistan fra 2003 e 2005, la guerra tra Russia e Georgia nel 2008) era nella direzione del miglioramento dei rapporti fra i due Stati.
Nella NSS 2002 si dice che «con la Russia stiamo già costruendo una nuova relazione strategica basata su una realtà centrale del XXI secolo: Stati Uniti e Russia non sono più avversari strategici» (p. 26); e inoltre, «salutiamo l’emergere di una forte, pacifica e prospera Cina» (p. 27).
Le divergenze - specialmente con la Cina - non erano nascoste, ma allora il fatto fondamentale era che l’11 settembre
«ha radicalmente cambiato il contesto delle relazioni fra gli Stati Uniti e gli altri principali centri del potere globale, e ha aperto grandi, nuove opportunità. Con i nostri alleati di vecchia data in Europa e in Asia, e con i leader di Russia, India e Cina, dobbiamo sviluppare programmi attivi di cooperazione onde evitare che queste relazioni diventino di routine e improduttive» (NSS 2002, p. 28).
Va tenuto presente che, fino all’invasione dell’Iraq, la dirigenza russa appoggiò pienamente la «guerra al terrore»: per Putin, il conflitto in Cecenia - a cui deve l’inizio della sua popolarità - era parte della «guerra al terrore» ed egli non si oppose alle basi americane in Kirghizistan e Uzbekistan.
In quella fase, ma con alti e bassi anche durante il secondo mandato di Putin e la presidenza di Medvedev, l’obiettivo della politica estera russa era la ripresa economica attraverso l’esportazione di energia e l’importazione di capitale e tecnologia, e il riconoscimento dello status di grande potenza con una zona d’influenza nell’area dell’«estero vicino» (bližnee zarubež’e) - in sostanza i Paesi ex sovietici - secondo una prospettiva indicata dal ministro degli Esteri Andrej Kozyrev nell’agosto 1992, che è la versione russa della «dottrina Monroe» come comunemente intesa.
La NSS 2006 notava che «recenti tendenze indicano purtroppo un impegno decrescente verso le libertà e le istituzioni democratiche. Lavoreremo per persuadere il Governo russo ad andare avanti, non indietro, sulla via della libertà».
Tuttavia, a questo era premessa la considerazione che «gli Stati Uniti cercano di lavorare a stretto contatto con la Russia su questioni strategiche d’interesse comune e di gestire questioni su cui abbiamo interessi differenti», riconoscendo anche la grande influenza russa in regioni d’interesse strategico per gli Stati Uniti e la positiva cooperazione a proposito di Corea del Nord e Iran, e usando un tono fermo ma non aggressivo (sulla Russia, p. 39 e significativamente nel capitolo sulla cooperazione con le altre principali potenze globali; su Corea del Nord e Iran, pp. 20-1).
A seguito dell’alta tensione conseguente alla guerra fra Russia e Georgia, dimostrazione della disponibilità di Putin a intervenire militarmente nell’«estero vicino», la NSS 2010 avvertiva che, «mentre cerchiamo attivamente la cooperazione della Russia per agire da partner responsabile in Europa e in Asia, sosterremo la sovranità e l’integrità territoriale dei vicini della Russia» (p. 44).
Tuttavia, nell’ottica del reset delle relazioni Stati Uniti-Russia, si auspicavano anche una maggiore collaborazione nell’affrontare il terrorismo e nuovi accordi commerciali e sugli investimenti.
Inoltre si ricordava il nuovo accordo sugli armamenti strategici (Start) firmato a Praga dai presidenti di Russia e Stati Uniti nell’aprile 2010: evidentemente l’impegno a ridurre le testate e i vettori nucleari esprimeva un intento distensivo di entrambe le parti dopo la guerra in Georgia, nonostante Bush Jr. avesse ritirato gli Stati Uniti dal trattato Abm del 1972 (firmato da Nixon e Brežnev, nella logica della mutual assured destruction limitava le misure di difesa dai missili balistici; a suo tempo, il trattato fu una colonna della distensione fra le due superpotenze). Il nuovo Start è stato invece messo in discussione da Trump.
La NSS 2015, l’ultima dell’amministrazione Obama, è particolarmente significativa perché successiva all’esplodere della guerra civile in Ucraina e all’annessione russa della Crimea, vero spartiacque della politica estera russa e dei rapporti con gli Stati Uniti.
Le parole erano dure (ricorreva l’espressione «aggressione russa»), furono adottate sanzioni e si denunciava il pericolo della dipendenza dei Paesi europei dal flusso di energia proveniente dalla Russia usato come arma politica.
Tuttavia, la conflittualità non era posta come un dato eterno; si riconosceva che l’ambiente internazionale è dinamico, che l’equilibrio del potere cambia e che da ciò sorgono sia opportunità che rischi; si insisteva sul ruolo del G20 e sull’interdipendenza. E nonostante l’alta tensione e la rinascita dell’idea di una nuova Guerra Fredda, la minaccia posta dall’aggressione russa era delimitata e non assunta come l’asse della politica estera.
Nel 2010, della Cina si diceva che gli Stati Uniti sarebbero stati sinceri sulla questione dei diritti umani, ma che i disaccordi non avrebbero impedito la cooperazione fra i due Paesi, «perché una relazione pragmatica ed efficace tra Stati Uniti e Cina è essenziale per affrontare le principali sfide del XXI secolo» (p. 43).
E nel 2015, pur rigettando la pressione militare cinese su alcune isole del Mar Cinese meridionale, Obama affermava che il livello della collaborazione «è senza precedenti» (p. I) e si ricordavano lo storico accordo fra Stati Uniti e Cina sulle emissioni di carbone (p. 12) e la cooperazione sulle sanzioni alla Corea del Nord per il suo programma nucleare, puntando a «sviluppare una relazione costruttiva» per condividere «le sfide regionali e globali». Si ammetteva la competizione, ma si rifiutava l’idea che lo scontro fra Usa e Cina fosse inevitabile (p. 24).

5. Cina e Russia nella NSS 2017: minacce alla sicurezza nazionale
La NSS 2017 cita «le potenze revisioniste Russia e Cina» accanto agli «Stati canaglia» Iran e Corea del Nord e al terrorismo jihadista (p. 25).
Pure in questo caso non si definisce formalmente un’unica minaccia, ma in sostanza il tono è ben diverso dalle altre NSS e più gravi le implicazioni: ad esempio circa l’arsenale nucleare (che Obama voleva ridurre), le dimensioni delle Forze armate (riportate da Obama al livello precedente l’11 settembre), la spesa militare (gradualmente ridotta da Obama) e la cooperazione nel trattare i problemi dei programmi nucleari di Iran e Corea del Nord.
Anche perché la teoria della pace democratica viene attaccata esplicitamente quando si invita a
«ripensare le politiche degli ultimi due decenni - politiche basate sul presupposto che l’impegnarsi (engagement) con i rivali e la loro inclusione nelle istituzioni internazionali e nel commercio globale li avrebbero trasformati in attori benevoli e partner degni di fiducia. Per la maggior parte, questa premessa si è rivelata essere falsa. Gli attori rivali usano la propaganda e altri mezzi per cercare di screditare la democrazia. Essi propongono visioni antioccidentali e diffondono informazioni false per creare divisioni fra noi, i nostri alleati e i nostri partner» (NSS 2017, p. 3).
E oltre, con grinta polemica: «abbiamo presupposto che la nostra superiorità militare fosse garantita e che una pace democratica fosse inevitabile. Credevamo che l’allargamento e l’inclusione liberaldemocratici avrebbero mutato radicalmente la natura delle relazioni internazionali e che la competizione avrebbe lasciato il passo alla cooperazione pacifica» (p. 27).
La condanna del presupposto basilare della politica estera di tutte le Amministrazioni successive alla fine della Guerra Fredda è chiarissima.
«Per decenni,» - continua la NSS 2017 - la politica degli Stati Uniti verso la Cina si è basata sulla convinzione che sostenerne l’integrazione e l’ascesa nell’ordine internazionale postbellico avrebbe portato alla sua liberalizzazione, ma «contrariamente alle nostre speranze, la Cina ha esteso il suo potere a spese della sovranità degli altri. La Cina raccoglie e sfrutta dati su una scala senza eguali e diffonde le caratteristiche del suo sistema autoritario, compresi la corruzione e l’uso della sorveglianza».
E dopo aver ricordato la modernizzazione del suo apparato militare, la NSS nota - in verità non senza ragione - che «parte della modernizzazione e dell’espansione economica della Cina è dovuta al suo accesso all’economia dell’innovazione degli Stati Uniti, comprese le università americane di classe mondiale» (p. 25).
Quanto alla Russia, essa «mira a indebolire l’influenza degli Stati Uniti nel mondo e a dividerci dai nostri alleati e partner»; «considera l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato) e l’Unione europea (Ue) come minacce» (p. 25).
Inoltre, «la Russia sta investendo in nuove capacità militari, compresi sistemi nucleari che rimangono la minaccia esistenziale più significativa per gli Stati Uniti, e in capacità informatiche destabilizzanti»; «interferisce nella politica interna di Paesi in tutto il mondo» (pp. 25-6, corsivo mio). Sicché, «la combinazione dell’ambizione russa e delle crescenti capacità militari crea una frontiera instabile in Eurasia, dove il rischio di conflitti a causa di errori di calcolo russi è in crescita» (p. 26).
La NSS 2017 accenna a una differenza tra i modelli di sviluppo proposti dagli Stati Uniti da una parte, e da Cina e Russia dall’altra (p. 38). Il primo modello promuove il libero mercato non solo per motivi economici, ma per stabilire relazioni durature e far progredire i comuni interessi politici e di sicurezza; il secondo è caratterizzato come una forma di mercantilismo diretto dallo Stato.
In secondo luogo, nel ribadire - come al solito - che la deterrenza dell’aggressione è più complessa che nella Guerra Fredda, la NSS 2017 enfatizza il fatto che avversari e competitori sono «esperti nell’operare sotto la soglia del conflitto militare aperto e ai margini del diritto internazionale», accumulando pazientemente vantaggi strategici con azioni «calcolate per ottenere il massimo effetto senza provocare una risposta militare diretta dagli Stati Uniti», fino a che «emerge un nuovo statu quo» (p. 28; il concetto di guerra ibrida è implicito).
Il documento attribuisce a Cina e Russia un comportamento e una visione del mondo che non sono né di pace né di guerra: che è poi una definizione di quel che era la Guerra Fredda.
Per la NSS 2017, posto che «i nostri avversari non ci combatteranno nei nostri termini» - che sono quelli della separazione tra le condizioni della pace e della guerra - gli Usa devono fronteggiare questa sfida: il senso implicito sembra dunque essere il ritorno a una condizione comparabile a quella della Guerra Fredda.
Il tono della NSS è indicativo:
«Sebbene la minaccia del comunismo sovietico sia scomparsa, nuove minacce mettono alla prova la nostra volontà. La Russia sta usando misure sovversive per indebolire la credibilità dell’impegno americano nei confronti dell’Europa, minare l’unità transatlantica, e indebolire le istituzioni e i governi europei. Con le invasioni della Georgia e dell’Ucraina, la Russia ha dimostrato la volontà di violare la sovranità degli Stati della regione. La Russia continua a intimidire i suoi vicini con un comportamento minaccioso, come la postura nucleare e lo schieramento avanzato di capacità offensive» (p. 47).
Inoltre, mentre la Cina cerca di attrarre nella sua orbita l’America latina con investimenti e prestiti statali, «la Russia continua la sua politica fallita della Guerra Fredda rafforzando i suoi alleati radicali cubani mentre Cuba continua a reprimere i suoi cittadini» e Cina e Russia sostengono la dittatura del Venezuela (p. 51).

6. Le relazioni fra Cina e Russia nella strategia americana
In linea con l’approccio teorico «realista» adottato nella NSS 2017, Cina e Russia sono definite insieme come potenze revisioniste (p. 25). La prima domanda è: di quale struttura dell’ordine internazionale si teme la revisione?
Nei primi anni del XXI secolo, la Cina è diventata il polo mondiale delle esportazioni e le ambizioni della sua politica estera sono cresciute in proporzione, sia per procurare energia e materie prime, sia in termini di rivendicazioni geopolitiche nell’Oceano Pacifico.
Tuttavia, il successo economico della Cina sarebbe stato impossibile senza la divisione internazionale del lavoro messa in atto dalle imprese transnazionali occidentali: si deve ai mercati di sbocco occidentali, in primo luogo quello nordamericano, e ai flussi di capitale e tecnologia dall’estero.
La Cina non ha alcun interesse a spodestare il dollaro dalla sua posizione di moneta chiave internazionale - il risultato sarebbe un danno irreparabile per la competitività e lo sbocco delle sue esportazioni; ci sono altre modalità di pagamento negli accordi bilaterali con la Russia - e nel destabilizzare l’economia statunitense.
La «pacifica ascesa» della Cina è avviata sulla via dell’imperialismo economico e dell’affermazione di uno status di grande potenza regionale, estendendo mezzi e sfera di sicurezza nel Pacifico - quel che in gergo si dice capacità Anti Access/Area Denial (A2/AD) - ma questa è una misura difensiva non necessariamente destinata a creare crisi maggiori. Obama aveva già iniziato ad affrontare la questione con il suo pivot verso l’Asia.
Dunque, il revisionismo cinese - se così vuol dirsi - ha i suoi limiti, e non solo in termini di capacità militari. I «compagni» capitalisti si sono integrati benissimo nell’economia mondiale capitalistica ed è assurdo pensare che intendano mettere a repentaglio la posizione raggiunta con azioni avventate nella scena politica internazionale o con decisioni di politica economica che potrebbero innescare la rivolta della classe operaia contro l’oligarchia del partito unico del capitale cinese.
Il caso della Russia è più complesso. Come un secolo fa e come ora la Cina, la Russia ha bisogno dei Paesi a capitalismo avanzato e nello stesso tempo li teme, per il semplice motivo che, relativamente a quel che erano l’Unione Sovietica e il suo gruppo di Stati satellite a sovranità limitata, si tratta di un imperialismo mutilato e debole ma in precaria ripresa.
La ricostituzione della potenza russa dipende dalle esportazioni di gas in Europa, i cui proventi Putin ha ricondotto dentro lo Stato: il settore energetico conta per il 20% del prodotto interno lordo e contribuisce a oltre metà delle entrate federali.
Questa dipendenza dalle esportazioni di energia, anomala e pericolosa per una grande potenza, segna anche le caratteristiche oligarchiche e da rentier del capitalismo russo (una delle ragioni della forte diseguaglianza sociale, giacché gas e petrolio, a differenza del «vecchio» carbone, sono industrie ad alta intensità di capitale), e quindi i limiti dell’imperialismo russo.
Con la transizione al capitalismo, la Russia si è «occidentalizzata» e all’Occidente continua a guardare: nonostante i discorsi eurasiatici, il mondo cinese gli è estraneo, mentre il paleoconservatorismo maschilista, militarista e religiosamente ortodosso di Putin si atteggia a erede dei «veri» valori del tradizionalismo a fronte della decadenza morale dell’Europa occidentale e, insieme, come continuatore dell’imperialismo slavofilo e granderusso.
Il problema della Russia è che, in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, il suo spazio geopolitico nel senso più ampio - demografico, socioeconomico, militare e culturale – è indefinito, diviso fra Stati ora indipendenti che, in diversi casi, non intendono riprodurre l’antica dipendenza imperiale dal regime sovietico, e - ancor peggio - è attraversato da conflitti e da opposti orientamenti geopolitici.
Quando si prendono in considerazione tutti gli aspetti, è la stessa identità della Russia ad essere problematica.
Sotto Putin, la Russia ha acquisito la capacità di rafforzare i legami con alcune repubbliche ex sovietiche (Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan), e per prevenire il suo ingresso nella Nato e nell’Unione europea ha intrapreso una guerra con la Georgia (agevolata dall’avventurismo del presidente georgiano Saak’ašvili) e promosso e appoggiato il secessionismo delle Repubbliche popolari di Donets’k e di Luhans’k, nell’Ucraina orientale, annettendo anche la Crimea.
In altri termini, Putin ha dimostrato l’intento di creare una sfera d’influenza per l’imperialismo russo, facendo leva sulle consistenti minoranze russofone nelle repubbliche vicine. E così è entrato in contrasto con gli imperialismi europei e ancor più con quello statunitense, che non tollerano questo genere di sfere esclusive.
Tutto questo è aggravato dal fatto che la nuova Russia è nata nell’epoca della postdemocrazia: l’evento emblematico della postdemocrazia russa rimane la crisi politica dell’ottobre 1993 fra il presidente e il Parlamento, culminata con le cannonate ordinate da El’tsin contro il Parlamento russo e l’incendio dello stesso.
E, per quanto la sua politica estera appaia diversa da quella di «Corvo Bianco», l’ascesa di Putin si svolse all’interno del sistema di potere di El’tsin, e fu lo stesso El’tsin a designarlo come suo successore.
Col deteriorarsi dei rapporti con l’Occidente, il regime di Putin ha fatto sempre più leva sul nazionalismo granderusso e su un moralismo in linea con la destra tradizionalista e autoritaria. Se Putin fosse presidente di uno Stato dell’Europa occidentale, a sinistra molti di coloro che lo sostengono griderebbero al «pericolo del populismo autoritario» - o addirittura «fascista».

La seconda domanda è se Cina e Russia costituiscano o possano costituire un blocco strategico eurasiatico che si muova in una logica bipolare.
Il nocciolo di verità di questa tesi è che la situazione di questi Stati è cambiata relativamente all’ultimo decennio del XX secolo. Ciò nonostante, le loro posizioni nel sistema mondiale sono molto diverse e in nessun caso costituiscono sistemi sociali alternativi a quello capitalistico. Al più, si tratta di forme di capitalismo «differenti» dal modello «occidentale».
Le relazioni economiche tra Cina e Russia sono molto squilibrate a favore della Cina: la Russia offre energia, armi e cooperazione per mantenere la stabilità dei regimi dell’Asia centrale; per contro, la Cina esporta prodotti industriali, secondo un tipo di scambio che ricorda quello tra colonia e metropoli, con un costante attivo del saldo commerciale.
Non si deve dimenticare che per mezzo secolo - quando Mao era ancora vivo e la bandiera rossa sventolava sul Cremlino - Russia e Cina si fronteggiarono come nemici, con piccole battaglie sul confine del fiume Ussuri, nel 1969, e una guerra indiretta, nel 1978, fra la Cina e il Vietnam appoggiato dall’allora Urss.
Il problema della frontiera e del controllo delle piccole isole alla confluenza tra i fiumi Ussuri e Amur è stato chiuso fra 2003 e 2005, ma a lungo termine gli specialisti russi hanno motivo di preoccuparsi per il futuro dell’Estremo oriente russo a fronte dell’influenza di un gigante economico e demografico come la Cina.
La dirigenza russa ha bisogno dell’appoggio cinese sulla scena politica internazionale e della Cina per diversificare il proprio mercato energetico - in questo trovandosi in concorrenza con il Kazakistan - tuttavia ha anche motivo di temere la crescita della potenza militare cinese e la sua progressiva indipendenza dalle armi russe.
Dal canto loro, la dirigenza politica e gli affaristi cinesi non hanno alcun interesse a farsi coinvolgere nei tentativi russi di creare una sfera d’influenza in Europa: possono dunque appoggiare la Russia, ma certamente non fino al punto di danneggiare seriamente le proprie relazioni con gli Stati Uniti e i loro alleati.
Per esempio, la Cina non ha riconosciuto l’annessione della Crimea e nel Consiglio di sicurezza dell’Onu non ha votato contro, ma si è astenuta nelle risoluzioni sulla questione; sulla Siria, Cina e Russia insieme hanno posto il veto a cinque risoluzioni, ma nel 2016 la Cina si è astenuta, mentre la Russia ha posto il veto; e a quanto pare, a causa dei loro rapporti con gli Usa, di fatto le banche cinesi hanno aderito almeno in parte alle sanzioni contro la Russia (cfr. «China to join anti-Russian sanctions?», Pravda.ru, 9 febbraio 2016).
La tendenza della NSS 2017 - e di altri osservatori, sia a destra che a sinistra - a trattare la Cina e la Russia come se formassero un unico blocco strategico è quindi un grave errore, che confonde una convergenza tattica di interessi con un’alleanza duratura. Le oligarchie di Cina e Russia hanno un solo interesse su cui è possibile una vera alleanza: la protezione del loro stesso potere dai nemici interni che possono essere sostenuti dall’estero.
Il problema è che nell’Europa orientale e negli Stati ex sovietici si confrontano due tipi di imperialismo: quello del capitalismo russo - che, per la sua debolezza economica rispetto a quello occidentale, deve sfruttare direttamente mezzi come il ricatto energetico e la pressione politico-militare, essendo anche costretta a fare i conti con il nazionalismo antirusso, sedimentato da una lunga storia di oppressione nazionale e dalle tragedie dello stalinismo - e l’imperialismo occidentale, che è molto più forte economicamente e attraente come modello politico e sociale.

7. Conclusione provvisoria
Le azioni intraprese fino ad ora dall’amministrazione Trump sono in diretto contrasto con quelle di Barack Obama, e la visione del mondo della NSS 2017 è molto diversa da quella dei precedenti documenti.
Nell’intento di mantenere il primato degli Stati Uniti nel mondo - un obiettivo indiscutibile per qualsiasi presidente Usa - Obama aveva pure riconosciuto i limiti della potenza americana, superati dalla war of choice di Bush Jr. e segnalati dal prolungarsi delle guerre in Afghanistan e in Iraq, e dalla crisi economica globale nel 2008.
Obama mantenne, come sempre, l’opzione dell’intervento unilaterale «se necessario» e continuò la «guerra al terrore» a suo modo, in parte sostituendo i droni armati con gli stivali; ma l’enfasi cadde sulla cooperazione internazionale, sul nuovo ruolo assegnato al G20, sui trattati multilaterali come il Trans-Pacific Partnership (Tpp) in Asia e il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), l’accordo sul clima e il nuovo Start con la Russia.
Resta il fatto che le grandi potenze - e anche la maggiore fra queste - possono soltanto cercare di orientare i movimenti della società mondiale secondo i propri interessi, ma contraddizioni, conflitti e rivoluzioni non possono essere dominati da alcuna potenza o gruppo di potenze.
La politica estera dell’America First di Donald Trump è animata da uno spirito di rivincita che non accetta i limiti della potenza americana, che pure resta di gran lunga la prima nel mondo sotto tutti i punti di vista.
Per di più, questa riscossa pretende di esercitarsi simultaneamente in tutti i campi e aree della politica mondiale: non solo nei confronti delle «potenze revisioniste» e degli «Stati canaglia» - oltre che del terrorismo - ma, specialmente nei rapporti economici, anche nei confronti di sicuri alleati; nel frattempo getta benzina sul fuoco del conflitto israelo-palestinese e promette una linea dura verso Iran, Corea del Nord e Cuba.
Questa è una prima e gravissima contraddizione della politica estera dell’amministrazione Trump. Ed esprime un atteggiamento foriero di disastri nel caso di una nuova crisi finanziaria internazionale, oltre ad essere una catastrofe grave e reale per le prospettive del clima globale.
In secondo luogo, come indicato sopra, la NSS 2017 non distingue adeguatamente fra Cina e Russia, contraddicendo con ciò un pilastro della politica estera statunitense che risale all’epoca Nixon-Kissinger. È senz’altro possibile che a questo proposito esistano divergenze fra il presidente e altri attori di alto livello dell’Amministrazione.
Fatto è che, nonostante il suo asserito realismo, nella logica hobbesiana e competitiva dell’America First esiste poco spazio per le sottigliezze di nixoniana memoria.
Dal punto di vista di Trump, la Cina è innanzitutto un avversario economico, non cogliendo l’integrazione della Cina nei flussi della divisione internazionale del lavoro della stessa economia nordamericana (un problema analogo si pone nei confronti del Messico) e nella fornitura di prodotti meno costosi per i lavoratori statunitensi; allo stesso tempo, gli imperialismi occidentali non possono accettare le pretese di esclusività dell’imperialismo russo nel suo «estero vicino».
Si tratta di un contrasto fra imperialismi sulla pelle dei popoli interessati, che alimenta il fuoco dei nazionalismi a danno di una lotta unitaria contro le oligarchie capitalistiche locali e di ragionevoli soluzioni al difficile problema delle nazionalità nei Paesi post-sovietici.
E per quanto il presidente Trump possa pensare a un riavvicinamento con Putin, egli si trova con le mani legate. D’altronde, i piani di sviluppo della forza militare convenzionale e nucleare, imprescindibili nella strategia America First, non sono propri di chi punta alla distensione.
In terzo luogo, la logica della NSS 2017 rende molto difficile risolvere il problema dei programmi nucleari di Iran e Corea del Nord, per il quale è importante la collaborazione fra Stati Uniti, Cina e Russia. L’alternativa è molto pericolosa, in questa come in altre possibili aree di crisi.
In quarto luogo, in modo molto più marcato delle precedenti, la politica estera trumpiana appare concepita essenzialmente in funzione della politica interna e finalizzata al consolidamento politico della cricca intorno alla sua persona. In questo presenta una strana similarità col ruolo della politica estera russa nel consolidare il regime di Putin, che ha progressivamente esaltato la «missione di civiltà» della Russia.
Tuttavia, mentre il nesso fra politica interna e politica estera nel regime di Putin ha una sua coerenza, adatta alle particolarità del capitalismo russo, la strategia di Trump non pare adeguata agli interessi complessivi e planetari del capitalismo statunitense; non sembra neppure appropriata alle esigenze della legittimazione interna in un Paese culturalmente più moderno e variegato della Russia.
A questo proposito, si deve ricordare che l’istituzione del rapporto sulla sicurezza nazionale non è l’aspetto più importante del Goldwater-Nichols Act. Quella stessa legge riorganizzava il Dipartimento della Difesa, snellendo e centralizzando la catena di comando e conferendo nello stesso tempo più autorità ai comandanti sul campo; secondariamente, promuoveva l’integrazione operativa tra le forze dell’esercito e dell’aviazione secondo la dottrina dell’AirLand Battle.
Oltre che per i suoi effetti nella pianificazione e conduzione delle operazioni, il punto è importante perché, portando i comandi militari - sia funzionali che nelle diverse regioni del pianeta - a rispondere direttamente al Segretario della Difesa e per questa via al Presidente, rafforzava ulteriormente l’autorità del potere civile nei confronti dell’apparato militare.
Tuttavia, non è affatto detto che i vertici del potere civile siano meno propensi all’uso della forza di quelli dei militari, e non è raro che sia vero il contrario; è importante ricordare che il comandante in capo delle Forze armate degli Stati Uniti è il Presidente.
E quando il presidente è un personaggio programmaticamente bellicoso come Donald Trump, esiste qualche motivo di preoccupazione: non è detto che ascolti i consigli dello Stato maggiore congiunto.
Infine, si può dire che per certi aspetti la NSS 2017 costituisce un ritorno all’epoca di Bush figlio, ma in un contesto internazionale assai mutato rispetto ai primi anni del XXI secolo.
Quanto a visione del mondo, essa è perfino più arretrata di quella dei neoconservatori di seconda generazione. Esprime una mentalità paleoconservatrice densa di contraddizioni che possono sfociare in nuove, pericolose avventure.

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