IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)
INDICE: 1. Il problema: dove va la politica estera dell’amministrazione Trump? - 2. Cosa non farà mai un Presidente degli Stati Uniti - 3. L’eccezionalismo americano e il mito dello splendido isolamento - 4. Limiti o declino della potenza americana? - 5. Il feticismo concettuale: multilateralismo/unilateralismo, unipolarità/multipolarità - 6. Le pericolose contraddizioni della politica estera dell’amministrazione Trump
© Evan Vucci |
1. Il problema: dove va la politica estera dell’amministrazione Trump?
In un importante discorso sulla politica estera dell’aprile 2016, Donald Trump affermò: «siamo totalmente prevedibili. Diciamo tutto. Stiamo inviando truppe. Glielo diciamo. Stiamo inviando qualcos’altro. Teniamo una conferenza stampa. Dobbiamo essere imprevedibili. E dobbiamo essere imprevedibili a partire da ora»1.
In effetti, incertezza e varietà di valutazioni circa il corso della politica estera dell’amministrazione Trump continuano ad essere notevoli. Quel che accomuna critici e sostenitori della politica estera dell’attuale Amministrazione è il timore o la speranza che, mossi dal nazionalismo, gli Stati Uniti possano ritirarsi in quel che si dice isolazionismo.
Diffusa anche ad arte, la confusione è tale che ritengo necessario mettere a fuoco i parametri elementari della politica estera degli Stati Uniti - ciò che un Presidente non farà mai - e alcuni concetti fondamentali, utili anche a comprendere le particolari contraddizioni dell’Amministrazione in carica.
Ricordo che fra gli specialisti statunitensi di politica estera si formò presto un’area di critici irriducibili che ritenevano il miliardario del tutto inadeguato - per preparazione e temperamento - a svolgere le funzioni di capo dell’esecutivo e di comandante in capo.
C’era addirittura chi lo aveva definito una sorta di «candidato manciuriano», cioè un agente degli interessi russi. Fra i critici del candidato Trump si distinse per durezza la maggior parte dei più importanti intellettuali e funzionari neoconservatori del Partito repubblicano2.
Il successo di Trump venne invece salutato con entusiasmo dalla destra xenofoba e nazionalista favorevole all’uscita dall’Unione europea e dalla zona euro. In questo caso, l’entusiasmo per Trump era strumentale e condito con una notevole dose d’ipocrisia che sorvolava sul fatto che in qualsiasi negoziato le loro piccole patrie non conterebbero niente di fronte al gigante nordamericano. Ma Trump è (stato?) apprezzato anche dalla sinistra putiniana e russofila come fosse «un altro colpo all’imperialismo».
Potrebbe anche trattarsi di una combinazione d’incompetenza, d’ignoranza, d’ingenuità e di stupidità, ma più che altro è il risultato della semplice dissoluzione dei criteri più elementari di comprensione e valutazione di ciò che è l’imperialismo, sia esso nordamericano o russo o cinese, integrata da una rielaborazione irrazionale del lutto per la scomparsa Unione Sovietica, surrogata dall’attaccamento a un regime che combina l’aquila zarista con miti e riti di matrice sovietica in nome della continuità storica dello Stato grande-russo.
Per gli alleati e gli opinionisti centristi, l’etichetta dell’isolazionismo serve strumentalmente a prendere posizione nelle contrattazioni diplomatiche. Questi sanno benissimo che un’amministrazione statunitense può fare la voce grossa e battere i pugni sul tavolo, pretendere questo e quello (ad esempio, un contributo più adeguato alle spese della Nato), ma mai rescindere l’alleanza stessa.
Comprendono bene che sono proprio i limiti della grande potenza statunitense - e la dimensione mondiale del capitalismo nordamericano - a rendere indispensabile la riproduzione delle alleanze.
Si delinea così una terza posizione, in pratica un obbligo per chi ha responsabilità di governo e deve necessariamente negoziare con l’amministrazione nordamericana. Se Trump è incompetente e inadeguato, pensano gli ottimisti, un madman incline a pericolosi spropositi, i responsabili del governo e i funzionari che mettono concretamente in opera la politica estera degli Stati Uniti possono moderare le linee del Presidente o ricondurle su binari nei limiti della normalità.
Per gli ottimisti, la National Security Strategy (NSS) del dicembre 2017 muove in questa direzione. Tuttavia, per altri l’interesse di un documento come la NSS dipende da quanto esso sia coerente con la visione del mondo e la personalità del Presidente. Per questo motivo, la NSS 2017 risulta poco attendibile in punti importanti.
L’incertezza è grande ma può essere ridotta, insieme all’ottimismo.
2. Cosa non farà mai un Presidente degli Stati Uniti
Dalla guerra ispano-americana del 1898 e dall’inizio della costruzione di una flotta oceanica voluta da Theodore Roosevelt (assistente del segretario della Marina nel 1897-1898, sotto McKinley, e presidente dal 1901 al 1909), e sicuramente dalla Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno acquisito la capacità di proiettare la propria potenza militare su tutto il pianeta; e in misura maggiore di qualsiasi altro Paese avanzato, il capitalismo statunitense si estende ben oltre i confini politici nazionali, continuando a mantenere una posizione strutturalmente centrale nell’economia mondiale.
In questo contesto, l’attenzione deve concentrarsi sui doveri costituzionali del Presidente degli Stati Uniti come capo dell’esecutivo e comandante in capo - preservare, proteggere e difendere l’America e la Costituzione.
L’America e lo «stile di vita americano», ovviamente, non sono più quelli dei Padri fondatori, sicché gli interessi impliciti in quei doveri sono ora enormemente più grandi e complessi di quelli originari.
Conseguentemente, dalla Grande Depressione e specialmente dalla Seconda guerra mondiale e dall’inizio della Guerra Fredda, le dimensioni degli apparati che costituiscono l’esecutivo e i poteri del Presidente sono cresciuti in modo da alterare l’originario equilibrio costituzionale.
La presidenza è imperiale anche nella politica interna, ma è nella politica estera e nell’uso della forza militare che essa ha prosperato nel modo più drammatico3.
E quindi, un Presidente non rinuncerà mai al ruolo degli Stati Uniti come potenza «la cui leadership è indispensabile» (George H.W. Bush, NSS 1991, p. 2) al «mondo libero» e all’ordine mondiale: «siamo inevitabilmente (inescapably) il leader, l’anello connettivo in un’alleanza globale delle democrazie (George H.W. Bush, NSS 1990, p. 2); «la necessità della leadership americana all’estero rimane forte come sempre» (Bill Clinton, NSS 1996, p. IV); «l’America non può conoscere pace, sicurezza e prosperità ritirandosi dal mondo. L’America deve guidare con le azioni e con l’esempio» (George W. Bush, NSS 2006, p. 49); qualsiasi strategia «di sicurezza nazionale deve iniziare con una verità innegabile - l’America deve guidare», tuttavia rinnovando la sua leadership (Barack Obama, NSS 2015, p. I); «il mondo intero è sollevato dal rinnovamento dell’America e dal riemergere della leadership americana (Donald Trump, NSS 2017, p. II)4.
È interessante come sia Obama che Trump leghino la leadership mondiale al rinnovamento interno e all’economia, seppur in modi molto diversi - se non opposti.
La nozione secondo cui gli Stati Uniti debbano orientare gli sviluppi della società mondiale costituisce il nocciolo politico di quel che si dice egemonia, termine che ha acquisito una varietà di significati - specialmente quando applicato alle relazioni internazionali5 - ma che qui intendo nel senso gramsciano: non mero dominio, ma «combinazione della forza e del consenso che si equilibrano variamente, senza che la forza soverchi di troppo il consenso», così da conseguire la «direzione intellettuale e morale»6.
È parte integrante dell’esercizio dell’egemonia il fatto che la combinazione di forza e consenso presenti variazioni estreme nelle differenti regioni del mondo. Occorre però enfatizzare che l’efficacia della politica estera di un’amministrazione statunitense nell’esercitare la leadership nei confronti degli alleati consiste proprio nel saper mantenere l’equilibrio tra forza e consenso.
Il fatto che i governanti dell’Europa e del Giappone temano l’isolazionismo nazionalistico degli Stati Uniti, ma non il loro impegno internazionalistico, è la migliore testimonianza di quanto sia stata interiorizzata l’egemonia nordamericana. Il discorso può allargarsi all’influenza culturale e al fatto che gli Stati Uniti rimangono un eccezionale polo d’attrazione per l’immigrazione.
La posizione di guida è irrinunciabile sia nel caso di una politica che possa dirsi «realista» e orientata al mantenimento dell’equilibrio di potenza internazionale, sia nel caso essa appaia animata da un attivismo «idealista» di tipo wilsoniano; sia nel caso di un approccio di «realismo difensivo» - orientato al mantenimento dello statu quo - sia nel caso opposto di «realismo offensivo», volto a prevenire l’emergere di un competitore.
Un Presidente non rinuncerà mai all’assoluta superiorità militare degli Stati Uniti sulla scena mondiale, a fare in modo «di assicurare che continui la superiorità militare americana» (NSS 2017, p. 3). Cosa comporta questo? Un imponente arsenale nucleare; ma, al di sotto della soglia nucleare:
«… le Forze armate degli Stati Uniti saranno simultaneamente in grado di difendere la madrepatria; condurre operazioni di controterrorismo distribuite e di alto livello; e in più regioni, scoraggiare l’aggressione e assicurare gli alleati attraverso la presenza e l’impegno avanzato. Se in un dato momento la deterrenza fallirà, le forze degli Stati Uniti saranno in grado di sconfiggere un avversario regionale in una campagna su larga scala in più fasi e di negare gli obiettivi - o di imporre costi inaccettabili - a un secondo aggressore in un’altra regione»7.
Almeno dalla fine della Guerra Fredda e per tutte le amministrazioni, il criterio che definisce il primato militare degli Stati Uniti è la capacità di condurre operazioni militari e vincere in two major regional conventional contingencies o major regional conflicts, cioè in due teatri importanti e che interessino consistenti forze nemiche.
Il motivo per cui agli Stati Uniti occorre poter intervenire in due teatri, calibrando le priorità e il ritmo dello sforzo, è semplice: impedire che un avversario ritenga di poter cogliere l’opportunità di agire mentre le forze americane sono bloccate in un teatro distante.
Operativamente, è questo che definisce la potenza americana e nello stesso tempo i suoi limiti, che impongono di selezionare aree e modi d’intervento. La «grande strategia» efficace è quella che impiega la potenza nella consapevolezza dei suoi limiti.
La formula può variare e alla minaccia di forze convenzionali si è aggiunta quella del terrorismo e in alcuni casi l’opportunità di interventi umanitari in nome della «responsabilità di proteggere»8, ma il punto resta sempre quello: «assicurare che non vi siano regioni del mondo dominate da un’unica potenza» (NSS 2017, p. 4). Detto in chiaro: «le potenze revisioniste Cina e Russia, gli Stati canaglia dell’Iran e della Corea del Nord» (NSS 2017, p. 25). Ciò di cui si discute sono dunque i criteri con cui si definisce l’«interesse nazionale» e come esso vada perseguito in una data congiuntura, l’alternativa fra contenimento e deterrenza oppure il rollback; la combinazione di diplomazia, sanzioni economiche e intervento militare; le modalità dell’intervento militare; le divergenze politiche si esprimono anche nella discussione intorno al livello di spesa ritenuto adeguato a sostenere gli impegni militari, con effetti sulla composizione e distribuzione della forza, la prontezza operativa, la selezione degli acquisti e gli investimenti.
Con l’amministrazione Trump si è abbassata notevolmente la soglia del potenziale utilizzo dell’arma nucleare, secondo una logica che appare un ulteriore e pericoloso sviluppo della guerra preventiva applicata a un nemico sfuggente come il terrorismo e i suoi alleati (più o meno veri o presunti).
Non solo gli Stati Uniti riterranno pienamente responsabile «qualsiasi Stato, gruppo terroristico o altro attore non statale che sostiene o contribuisce agli sforzi dei terroristi di ottenere o impiegare dispositivi nucleari», ma a un attacco nucleare da parte di terroristi contro gli Stati Uniti o i suoi alleati si prenderà in considerazione the ultimate form of retaliation, «la forma definitiva di rappresaglia»9.
Inoltre, le «circostanze estreme» nelle quali sarà possibile usare l’arma nucleare comprendono ora «importanti attacchi strategici non nucleari che includono, ma non sono limitati ad attacchi alla popolazione civile o alle infrastrutture degli Stati Uniti, degli alleati o partner», oltre che a obiettivi militari10.
La postura nucleare è significativa di un atteggiamento particolarmente aggressivo che potrà attuarsi mediante l’uso delle forze convenzionali. La dottrina dell’attacco preventivo potrà trovare nuovi bersagli, secondo una percezione della minaccia soggetta a grande discrezionalità, manipolazione propagandistica - come nel caso dei presunti rapporti dell’Iraq di Saddam Husayn con al-Qaida - ed errori di valutazione.
Infine, un Presidente non rinuncerà mai a sostenere gli interessi del capitalismo statunitense nel mondo.
Ovviamente, la prosperità dell’economia nazionale è la condizione che assicura la potenza militare: nel caso degli Stati Uniti è quel che permette una spesa per la difesa pari al 36% della spesa militare mondiale, ma che incide soltanto sul 3,3% del prodotto interno. Nella lista degli Stati che più spendono per la difesa, la Cina e la Russia figurano al secondo e al terzo posto, con percentuali sulla spesa militare mondiale e il prodotto interno pari, rispettivamente, al 13% e al 2% (stime) e al 4% e al 5,3%11. Si può discutere sulle percentuali e su quanto la spesa si traduca poi in efficacia sul campo, ma la sproporzione è indiscutibile e in pratica incolmabile la distanza, per la Russia sicuramente. Tuttavia, la disponibilità di armi nucleari ha allentato la stretta connessione fra potenza militare e sviluppo economico.
La prosperità del capitalismo nordamericano è strettamente connessa alla prosperità e all’espansione del capitalismo mondiale, che sotto questo aspetto costituisce non solo un fine, ma un mezzo per assicurare il primato politico-militare degli Stati Uniti, sia per il finanziamento della sua spesa militare che per l’influenza politica conseguente dalla sua centralità economica, componente fondamentale dell’egemonia.
Non esiste alcun Paese né coalizione di Paesi che possano sostituire gli Stati Uniti quale centro dell’economia mondiale e delle sue contraddizioni.
Per quanto diffusi siano gli interessi statunitensi nei Paesi della periferia del mondo o ex coloniali, ad essere assolutamente vitale per il capitalismo nordamericano è l’assetto dei rapporti economici con gli altri Paesi a capitalismo avanzato. È per questo che gli Stati Uniti entrarono in due guerre mondiali esplose in Europa, contribuirono alla rinascita dei nemici sconfitti e spinsero verso l’integrazione europea.
Se - ipotesi fantastorica - la Cina si chiudesse come un’ostrica rinunciando ai benefici del mercato americano, si darebbe una crisi, ma superabile: l’India potrebbe prenderne il posto. E, in termini astrattamente economici, come mercato e piattaforma produttiva gran parte dell’Africa è sacrificabile.
L’«interesse nazionale», ovvero ciò che costituisce l’interesse del capitalismo statunitense in una determinata area o Paese, non va identificato con l’immediato interesse economico. Questo può anche essere irrilevante. Anche in Paesi e aree dove non esista un consistente interesse economico statunitense, l’intervento politico o militare, aperto o coperto, serve l’obiettivo della stabilità politica locale necessaria all’ordinato metabolismo dell’economia mondiale, nonché agli interessi degli alleati nella regione.
Ad esempio, nonostante la retorica umanitaria, a far decidere l’amministrazione Clinton di impegnarsi in Bosnia fu la considerazione che ad essere in gioco era la credibilità della Nato; nello stesso tempo, invece, procedeva indisturbato il genocidio in Ruanda.
C’è anche da considerare che gli Stati Uniti sono da sempre sostenitori della «porta aperta» al commercio internazionale e agli investimenti dall’estero, contrari agli imperi territoriali e quindi avversi alla ricostruzione di una sfera d’influenza dell’imperialismo russo o alla formazione di una sfera d’influenza dell’imperialismo cinese, tardivo ma nelle modalità d’espansione economica molto più sofisticato del primo, che ha dalla sua parte solo mezzi politici e il ricatto mercantilistico delle forniture d’energia.
In questo si esprime il particolare dinamismo dell’imperialismo statunitense, che è la ragione della sua posizione d’avanguardia nell’estensione e nell’approfondimento del capitalismo su scala mondiale. In generale, in questo consistono la specificità e la forza dell’imperialismo capitalistico rispetto a quello antico, degli Stati assoluti e dei «socialismi di Stato».
Come l’imperialismo capitalistico non ammette una posizione di equilibrio nei confronti delle forme sociali non-capitalistiche, corrodendole, subordinandole, eliminandole, così l’imperialismo statunitense non ammette l’«equilibrio di potenza» se non temporaneamente.
Quanto appena detto non va inteso in senso funzionalistico e armonicistico: indicare ciò che un Presidente non farà non significa che agirà nel modo migliore per l’«interesse nazionale», non significa che la potenza militare non incontrerà resistenze, non significa che lo sviluppo e l’estensione del capitalismo proceda senza contraddizioni - tutt’altro.
Ciascuna di quelle «missioni» ha in partenza i propri limiti oppure li scopre nel suo farsi, mentre l’obiettivo di una «missione» può confliggere con quello di un’altra. La strategia di sicurezza politico-militare e la strategia di politica economica internazionale possono entrare in contraddizione, come è palese nei discorsi sui costi economici della sovraestensione degli impegni militari all’estero.
Nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti contribuirono alla ripresa e allo sviluppo della Germania e del Giappone non solo al fine del contenimento del comunismo, ma anche per convenienza economica; tuttavia questo, a sua volta, ridusse la quota del mercato mondiale delle corporations nordamericane.
Inoltre, l’efficacia dell’azione militare richiede chiarezza di obiettivi e comando coerente, cosa che può alimentare contrasti politici con gli alleati, e divergenze ed errori operativi sul campo durante gli interventi militari multinazionali.
3. L’eccezionalismo americano e il mito dello splendido isolamento
La caratterizzazione isolazionista della politica estera statunitense è priva di significato scientifico. Quello di isolazionismo è un concetto che andrebbe messo da parte una volta per tutte, relegato nella spazzatura intellettuale.
Per gli Stati Uniti d’America l’isolamento è sempre stato del tutto impossibile e l’isolazionismo al più un ideale, un modo per enfatizzare il sentimento di eccezionalità, non un concetto adeguato a spiegarne la reale politica estera.
L’immagine della city upon a hill benedetta dal Signore e data come esempio ai popoli è l’archetipo dell’eccezionalismo americano, formulato nel 1630 da John Winthrop in un sermone ancor prima che le navi del suo gruppo di coloni toccassero le coste del Nuovo Mondo.
Fu poi naturale completare l’immagine etico-sociale della missione religiosa della comunità coloniale con quella geopolitica degli Stati Uniti come isola che gli oceani proteggono dalle corrotte, dispotiche e bellicose monarchie europee.
Così si combinarono eccezionalismo e isolazionismo, la cui più autorevole espressione è spesso indicata nell’indirizzo di congedo di George Washington del settembre 1796, uno dei documenti più istruttivi della storia politica americana. Nel suo messaggio, Washington indicò come interesse degli Stati Uniti avere le più ampie relazioni commerciali, evitando però «artificiali legami» con questa o quella nazione della lontana Europa, il coinvolgimento nelle sue alleanze e conflitti, e la formazione di alleanze permanenti12.
La tradizione isolazionista statunitense è dunque antica, ma per una repubblica commerciale l’isolamento è sempre stato un’illusione. Conoscendone il contesto e il processo di redazione, è quanto si può dire già dello stesso indirizzo di Washington, che per argomenti e tono faceva i conti con la polemica intorno al trattato del 1795 stipulato dal suo inviato John Jay nell’intento di evitare una nuova guerra con la Gran Bretagna (incorrendo però in una quasi-war o guerra navale non dichiarata con la Francia): questo e l’appello all’unità nazionale contro lo spirito di fazione erano una stoccata nei confronti dell’opposizione democratico-repubblicana, politicamente ed emotivamente simpatizzante con la Francia.
La storia dimostra che l’isolamento era impossibile già al tempo dei blocchi navali durante le guerre napoleoniche, delle perquisizioni e dei sequestri delle navi americane, dell’arresto e arruolamento forzato dei marinai americani d’origine inglese, della quasi-guerra navale con la Francia (1798-1800), dell’acquisto della Louisiana, dell’embargo commerciale stabilito da Jefferson nel 1805-1807, della spedizione contro i pirati barbareschi del Mediterraneo, della guerra con la Gran Bretagna del 1812-1815.
L’imprigionamento dei marinai, gli ostacoli al commercio oceanico e il blocco navale, l’incitamento degli indiani alla guerra contro gli Stati Uniti e l’uccisione di coloni americani: questi gli argomenti portati nel 1812 dal presidente James Madison nella sua richiesta al Congresso di dichiarare guerra alla Gran Bretagna.
Certamente, la posizione geografica metteva la neonata Repubblica al riparo dal confronto diretto con la forza concentrata delle monarchie europee, ma non dal rischio d’invasione e dalla guerra navale: nel 1812, la Gran Bretagna contava su un esercito di 600 mila uomini e 600 navi, a fronte dei 6.000 uomini e 16 vascelli della forza armata regolare nordamericana.
Come è ovvio i rapporti di forza nel teatro americano erano diversi, ma non tanto da impedire che gli inglesi occupassero Washington per un giorno, costringendo Madison e il governo a una fuga precipitosa, e dando fuoco alla Casa Bianca e a diversi altri edifici pubblici.
Insomma, se l’isolamento era impossibile nell’epoca dei velieri, dei cannoni ad avancarica e degli abbordaggi sciabola alla mano, è un’assurdità nell’epoca dei missili balistici, delle testate nucleari, del capitalismo mondiale e dei problemi ecologici globali.
Quel che si dice isolazionismo - una linea politica, non un dato geopolitico - è dunque qualcosa che comprende il sentimento della differenza tra il sistema politico e sociale degli Stati Uniti e quello del Vecchio Mondo.
In pratica non ha mai significato un’impossibile chiusura degli Stati Uniti nell’autosufficienza economica e politica, ma un determinato modo di interagire nell’arena internazionale: rimanere neutrali di fronte ai conflitti nel Vecchio Mondo, allo stesso tempo manovrando a proprio vantaggio, con la diplomazia e la guerra, nell’America del Nord e nel bacino caraibico - il Mediterraneo americano; opporsi a mosse aggressive delle potenze europee nelle Americhe e al loro mercantilismo imperiale, affermando invece il diritto degli Stati Uniti alla piena libertà di commerciare ed espandere l’«impero della libertà» nel continente e oltre - nell’Oceano Pacifico.
È questa una fondamentale differenza tra lo sviluppo del capitalismo degli Stati Uniti e in Europa, tra l’imperialismo informale americano - sorretto ma non riducibile alla forza militare - e l’imperialismo mercantilistico del Vecchio Mondo, combinazione del passato pre-capitalistico e del presente capitalistico.
Lo «splendido isolamento» dello Stato nordamericano dai conflitti europei terminò per sempre nel 1917, data che a tutti gli effetti segna la transizione degli Stati Uniti da potenza regionale a potenza mondiale con la volontà e la capacità di delineare l’assetto delle relazioni internazionali mediante le sue decisioni e non-decisioni strategiche ed economiche.
4. Limiti o declino della potenza americana?
Lo sviluppo del capitalismo è mondiale, ma strutturalmente ineguale: le sue contraddizioni si esprimono anche attraverso la gerarchia del sistema degli Stati. E, soggettivamente, la grande potenza induce grandi ambizioni e produce grandi errori: di qui le oscillazioni tra rollback e contenimento, postura aggressiva e distensione.
Si sa che l’onnipotenza è attributo del divino, non della potenza terrena, eppure nella tesi del declino americano pare operare una sorta di teologia della disillusione o dell’illusione che, dalla scoperta che la potenza non è illimitata o costante, risale alla sua inarrestabile obsolescenza.
Malgrado i discorsi sul declino americano ricorrano da mezzo secolo, i presunti sfidanti svaniscono uno dopo l’altro.
Per esempio: pur prescindendo da altre considerazioni - come la necessità di esportare sul mercato statunitense - resta il fatto che, per quanto grande possa essere il prodotto interno della Cina, il suo prodotto per abitante è al livello dell’Algeria e del Montenegro, a parità di potere d’acquisto, e circa dieci volte inferiore a quello degli Usa in dollari, che è poi la misura che conta ai fini dei rapporti di forza internazionali. Senza contare che di sicuro in Cina la distribuzione del reddito è più diseguale che negli Stati Uniti.
Il declino della potenza americana esisteva relativamente alla situazione del dopoguerra; ma quella era una condizione eccezionale e per nulla salutare per il capitalismo, il cui prosperare - come l’interesse statunitense - richiedeva che lo squilibrio venisse corretto producendone di nuovi, ma su un più alto livello complessivo dell’economia mondiale.
E tuttavia, quale tra le grandi potenze ha maggior capacità di esercitare il potere strutturale «di modellare e modificare le struttura produttive, della conoscenza, della sicurezza, del credito all’interno delle quali gli altri sono costretti a vivere se vogliono partecipare all’economia mondiale di mercato»?13.
Gli Stati Uniti non hanno vinto la Guerra Fredda: questa venne archiviata in modo concorde come un fatto del passato dalle dichiarazioni di Gorbačëv e Bush padre al termine del summit di Malta del 3 dicembre 1989, due anni prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica.
A «vincere» la Guerra Fredda sono state le contraddizioni interne della Cina e dell’Unione Sovietica, la loro corrosione interna, l’opportunismo delle caste dominanti (di loro consistenti frazioni) che decisero di trasformare in proprietà privata privilegi sociali che dipendevano dalla posizione nella gerarchia politica14.
Ma è un fatto che il capitalismo cinese è dipendente da quello americano e, se è vero che gli Stati Uniti non hanno vinto la Guerra Fredda, è pur vero che in definitiva si è realizzato qualcosa che hanno perseguito per decenni, pur dividendosi fra chi attribuisce il merito del risultato finale a tutte le amministrazioni del dopoguerra (per es. Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter) oppure al solo Reagan (i neoconservatori di seconda generazione).
Di fronte a un fatto che cambia la storia del mondo come la trasformazione capitalistica della Cina, della Russia e dell’Europa centrale e orientale, i numeri del presunto «declino americano» sono una bazzecola.
5. Il feticismo concettuale: multilateralismo/unilateralismo, unipolarità/multipolarità
La politica estera degli Stati Uniti è per lo più caratterizzata mediante dicotomie: internazionalismo/isolazionismo, multilateralismo/unilateralismo, universalismo/eccezionalismo, interventismo/non-interventismo, egemonia/impero, hard power/soft power.
L’utilizzo di queste coppie vorrebbe essere principalmente descrittivo, ma in effetti è fortemente normativo: serve a indicare quale dovrebbe essere la giusta politica. E, specialmente quando sono utilizzate come se un termine fosse l’antitesi dell’altro, spiegano poco le politiche realmente perseguite perché, in pratica, i caratteri peculiari delle amministrazioni e il loro particolare tono risultano dal modo in cui tutte le tendenze espresse da quei termini si fondono tra loro, dal loro peso relativo nelle politiche della difesa oppure dell’economia internazionale, e in momenti e situazioni diversi.
Previa critica, possono servire solo come termini genericamente descrittivi, non come concetti esplicativi.
Per esempio: Obama insisteva energicamente sul multilateralismo - sia economico che politico e militare, come per la crisi libica - e sul rispetto delle norme internazionali, ma non esitò ad agire unilateralmente, ad es. con l’uso massiccio e letale di droni in Paesi con cui gli Stati Uniti non sono in guerra (Pakistan, Somalia, Siria e Yemen), e ad autorizzare un’operazione - la liquidazione di Osama bin Laden - che violava in modo spettacolare la sovranità del Pakistan15.
Il panorama si complica ulteriormente se si considera che termini come unilateralismo e multilateralismo si riferiscono alle politiche, mentre la polarità (uni-, bi-, tri- o multi-) si riferisce alla struttura del sistema internazionale, come dato di fatto o come obiettivo delle politiche.
Logicamente, le politiche e le strutture si possono combinare in modi diversi: ad esempio, l’obiettivo di mantenere o conseguire un mondo unipolare può essere perseguito con una politica unilaterale oppure multilaterale; inversamente, l’obiettivo di un mondo multipolare può essere perseguito in modo unilaterale oppure multilaterale.
Allora si può dire che i neoconservatori americani sono unipolari e unilateralisti, ma multipolari e unilateralisti i paleoconservatori come Pat Buchanan, e unipolare e multilateralista buona parte dei neoliberali.
L’Unione europea potrebbe dirsi multipolare e multilateralista, ma come classificare Hitler o Stalin? Multipolari e unilateralisti? E la Russia o la Cina di oggi?
Si può dire che, per farsi strada nel mondo multipolare e creare delle proprie sfere d’influenza - in opposizione all’«egemonismo» degli Stati Uniti, ma anche in latente contrasto fra loro - combinino il multilateralismo e l’unilateralismo secondo la convenienza e l’opportunità di legittimare relazioni ineguali?16.
È assai dubbio che sia mai esistito o possa esistere un mondo unipolare; quanto al multilateralismo, in realtà esso è un campo di battaglia: il più forte può arrivare a sentirsi come Gulliver tra i lillipuziani, oppure i secondi possono avere una relazione del tutto squilibrata con il gigante.
Le dicotomie sono ancor più fuorvianti quando applicate come se il loro particolare significato restasse invariato se riferito a un periodo del XIX secolo, a quello fra le guerre mondiali, al secondo dopoguerra, agli anni ‘80 o alla scena internazionale più recente.
Entrano in gioco le variazioni dei rapporti di forza tra le classi all’interno dei Paesi e i processi di liberazione nazionale, i cambiamenti dei regimi politici nazionali, dei rapporti fra le grandi potenze, della letalità degli armamenti (l’arma nucleare segna una discontinuità epocale), e le trasformazioni dell’economia mondiale.
Il problema fondamentale dei concetti delle prevalenti teorie delle relazioni internazionali varianti del neorealismo è che, pur applicate a diverse situazioni storiche e alle trasformazioni del sistema internazionale degli Stati, essi sono socialmente e storicamente indeterminati.
Gli Stati sono assunti come «scatole nere», la loro economia è considerata solo per quanto riguarda il contributo alla potenza militare e alla loro posizione nella struttura del sistema internazionale; e si differenziano gli Stati dominanti orientati al mantenimento dello statu quo dagli Stati revisionisti dell’ordine esistente, prescindendo dalla specificità delle loro società.
Conseguentemente, la definizione di «interesse nazionale» rimanda alla sopravvivenza e all’integrità dello Stato, assunto come un feticcio che occulta la stratificazione della società, la natura di classe del potere politico e i diversi interessi politici internazionali che possono derivare dai contrasti fra le classi sociali.
Quando si prendono in considerazione la soggettività degli statisti e la percezione delle minacce e delle opportunità, ciò è comunque posto relativamente a un «interesse nazionale» che si vuole socialmente neutrale.
Il mondo bipolare della Guerra Fredda non era semplicemente diviso fra due blocchi di Stati, ma tra due diversi sistemi sociali (il capitalismo e uno statalismo totalitario burocratico o «socialismo di Stato»). Inversamente, le grandi potenze del mondo multipolare di oggi sono diseguali, ma omogenee quanto al rapporto sociale: sono capitalismi molto diversi.
Al di là del contenuto informativo e dell’interesse di analisi parziali, le teorie prevalenti delle relazioni internazionali si basano sul feticismo dello Stato e hanno gravi limiti nella spiegazione del processo storico - ad esempio, del crollo del sistema sovietico.
Per metodo e per apparato concettuale sono agli antipodi del metodo critico marxiano e della discussione intorno all’imperialismo come modo d’esistere del capitalismo mondiale17. E quindi queste teorie neorealiste delle relazioni fra gli Stati sono politicamente opposte alla strategia di lotta della sinistra rivoluzionaria contro l’imperialismo capitalistico: quella per cui costituisce un tradimento della causa socialista prendere parte per uno degli imperialismi in lotta.
Altra schematizzazione è quella per cui la politica estera statunitense oscilla tra il fare del Paese un esempio per il mondo - quindi con limitata inclinazione all’interventismo - e l’agire come uno Stato crociato attivamente impegnato nella promozione della democrazia nel mondo.
La realtà è molto più complessa e contraddittoria di queste semplificazioni: ad esempio, si può dire che la presidenza di Bush Jr. sia iniziata all’insegna dell’esempio e di una relativa moderazione, per poi svilupparsi malamente come una crociata contro il terrorismo e per la «promozione della democrazia».
Tutte le amministrazioni statunitensi a cavaliere fra il XX e il XXI secolo hanno avuto oscillazioni notevoli, sia a fronte degli sviluppi delle proprie azioni che a causa di eventi non previsti.
Ciascuna amministrazione ha il proprio slogan caratteristico «da vendere» sul mercato politico interno e internazionale, una certa retorica con cui cerca di differenziarsi dalla precedente e che trasmette una certa visione o atteggiamento di fondo o una priorità politica.
A volte, in modo più o meno appropriato, si parla di «dottrine»: contenimento del comunismo, «mai un’altra Cuba», vietnamizzazione, «giù le mani dal Golfo Persico», rollback (arretramento del comunismo) e appoggio ai «combattenti per la libertà», «nuovo ordine mondiale», engagement ed enlargement, e via elencando.
Queste devono intendersi come dosaggi tattici dell’esercizio delle forme più o meno morbide o dure del potere, modi di articolare le relazioni fra interessi economici e geopolitica, di selezionare le priorità politiche e militari, ma sempre entro i limiti delle finalità fondamentali indicate sopra.
Tutte le amministrazioni ereditano problemi e politiche, così come tutte devono fare i conti con nuovi problemi internazionali e le loro ripercussioni interne. È così che si definiscono sia la relativa continuità dei problemi e delle politiche, sia le specificità delle diverse amministrazioni dell’imperialismo statunitense.
Si tratta in effetti di varianti all’interno di epoche storiche che, nel loro insieme, sono il risultato di sviluppi della società mondiale nei quali la superpotenza americana gioca le proprie carte - come del resto l’Unione Sovietica in passato e la Russia e la Cina oggi - che tuttavia sfuggono al controllo di qualsiasi potere politico.
6. Le pericolose contraddizioni della politica estera dell’amministrazione Trump
Riferendosi agli affari esteri, Teddy Roosevelt consigliava: speak softly and carry a big stick, you will go far («parla piano e porta un grosso bastone, andrai lontano»). Trump invece agita pericolosamente un grosso bastone, ma nello stesso tempo parla o «cinguetta» moltissimo, in continuazione e in modo provocatorio.
Sul terreno strategico, l’amministrazione Trump è intenzionata a rilanciare il «momento unipolare» successivo al collasso sovietico - quando l’America emerged as the lone superpower (NSS 2017, p. 2) - recuperando, a suo parere, il tempo sprecato dai primi anni ‘90 e specialmente, si capisce, da Obama, che ha permesso ad altri attori di implementare con costanza «i loro piani a lungo termine per sfidare l’America».
Una prima considerazione è che questo «momento unipolare», ammesso che sia mai esistito, è naufragato nel primo decennio del nuovo secolo. La finestra di opportunità si è chiusa e non può essere aperta col nostalgismo, ma può essere ancora pericoloso proprio perché velleitario.
Secondariamente, il mantenimento o la restaurazione di un sistema unipolare di primato indiscutibile richiede quel che in gergo si dice multilateralismo, che non significa affatto privilegiare le Nazioni Unite e l’oligarchia imperialistica del suo Consiglio di sicurezza (come piacerebbe a Cina e Russia, che in quella sede hanno potere di veto), ma rafforzare ed estendere le alleanze evitando innanzitutto di irritare e offendere in vario modo, a scopi di propaganda interna, gli alleati politici e i partner economici internazionali.
Perfino i neoconservatori più propensi all’azione unilaterale e spregiatori delle Nazioni Unite non hanno mai sottovalutato l’importanza della Nato e la creazione di alleanze ad hoc: dal loro punto di vista, la determinazione degli Stati Uniti ad agire, «se necessario» in modo unilaterale - formula onnipresente - non è l’opposto del multilateralismo, ma un modo di promuoverlo in termini corrispondenti all’«interesse nazionale» degli Stati Uniti, che sarebbe quello del mondo.
Il principio neoconservatore afferma che dev’essere la missione a creare le alleanze, non viceversa. Intanto, però, i neoconservatori repubblicani hanno almeno in parte imparato la lezione, tendendo a convergere con i neoliberali democratici nell’idea di costruire un «concerto delle democrazie» che possa agire collettivamente: in questo caso la missione coinciderebbe con la natura dell’alleanza.
Infine, il primato politico e l’interventismo militare richiedono che si facciano concessioni sul piano economico: è improbabile che si possa conciliare la pretesa di essere la guida politica internazionale di un’economia mondiale aperta con un intransigente e gretto nazionalismo economico.
Tutte le amministrazioni Usa hanno posto agli alleati il problema dei costi, e non senza risultati positivi; tuttavia la questione va trattata diplomaticamente e con delicatezza, non strombazzata ai quattro venti con toni ricattatori.
Questo spiega i duri giudizi nei confronti di Trump di tanti bellicosi neoconservatori, oltre che dei neoliberali.
Prima di assumere la presidenza sarebbe stato possibile interpretare la linea di politica estera di Trump come vagamente nixoniana, ma invertita: avvicinarsi alla Russia per fare pressione sulla Cina. Già molto problematica, questa possibile linea pare caduta e quasi rovesciata.
Richard Nixon operò in modo coerente in un momento particolarmente critico: con mossa nazionalistica, la dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro allargò la libertà di manovra economica degli Stati Uniti, sebbene anche con effetti non previsti.
Allo stesso tempo avviò la «vietnamizzazione» della guerra e iniziò una relazione particolare con la Cina di Mao, premendo così sull’Unione Sovietica, quasi un’alleanza de facto che, retrospettivamente, si può intendere come l’inizio della fine del «comunismo» di matrice staliniana.
Inoltre, dopo il crollo sovietico, una certa coerenza d’intenti fra strategia politica e strategia economica si può vedere anche nella politica di Bush senior e di Clinton nella gestione della transizione nell’Europa centrale e orientale, nell’allargamento della Nato, nella promozione di accordi economici internazionali, nella liberalizzazione delle economie - il cosiddetto Washington consensus - e negli interventi militari multilaterali.
Obama cercò di ridimensionare i guasti politici dell’avventurismo di Bush figlio - che per qualche anno era stato favorito da una gigantesca bolla speculativa - rilanciando il multilateralismo economico e «resettando» le relazioni con la Russia, fino all’esplosione della crisi ucraina nel 2014, rivolta popolare contro una delle oligarchie che si alternavano al potere (in questo caso quella centrata sul Donbass e più legata alla Russia) nella quale ovviamente le potenze occidentali e la Russia hanno fatto i loro interessi e giocato le loro sporche carte.
Per ultimo, Obama iniziò un riorientamento sia economico che politico-militare verso l’Asia.
Come già detto, la dicotomia unilateralismo/multilateralismo non è adeguata a spiegare la politica estera, che è sempre un impasto che varia con le situazioni, il tempo e anche i campi: realizzare mediazioni che portino a un equilibrio fra la strategia di sicurezza nazionale e la politica economica internazionale è un problema.
Trump, invece, manda all’aria accordi economici già delineati, minaccia guerre commerciali e si ritira dagli accordi sul clima. Dice di voler mandare a monte il più importante accordo strategico a cui l’Unione europea partecipa, quello con l’Iran sul suo programma nucleare (pare essere stato contraddetto dal suo segretario di Stato, Rex Tillerson).
Tratta il problema nucleare con la Corea del Nord con la brinkmanship (la politica del rischio calcolato di sinistra fama, attuata ad esempio durante la crisi dei missili nucleari sovietici a Cuba nel 1962), mentre dovrebbe coinvolgere diplomaticamente Cina, Russia e Giappone, come in passato. Riconosce perfino Gerusalemme quale capitale di Israele, mossa simbolica che è uno schiaffo all’ipocrisia della diplomazia internazionale.
La ristrutturazione della tassazione, l’aumento della spesa militare e la richiesta di finanziare un vago programma di investimenti in infrastrutture promettono un aumento del debito pubblico indigeribile per l’ortodossia fiscale dei membri del Congresso.
Trump si muove come un elefante in una cristalleria, per cui contraddizioni si sommano a contraddizioni.
Nel linguaggio delle relazioni internazionali, per quanto riguarda la strategia di «sicurezza nazionale», l’intento unipolarista è in contraddizione con la linea dell’unilateralismo; a sua volta, quell’intento è contraddetto dal nazionalismo della strategia economica che ammette un mondo multipolare, ma popolato di concorrenti scorretti da ricondurre all’ordine.
La strategia America First pare concepita essenzialmente per vincere le elezioni e da un punto di vista riduttivamente nazionalistico, non all’altezza degli interessi complessivi, mondiali e a lungo termine del capitalismo americano e dei suoi alleati.
America First è in realtà America Alone, e questo non può durare. Paradossalmente combina una linea megalomane che ignora i limiti della potenza militare americana con la sottovalutazione della forza d’attrazione del suo capitalismo.
Se Trump voleva essere imprevedibile, è riuscito nel suo intento. È la ragione dell’incertezza, della confusione e della varietà di valutazioni circa il corso della sua politica estera.
L’imprevedibilità in sé è destabilizzante e può essere intesa come una strategia efficace contro un avversario, ma nei confronti degli alleati? E per quanto tempo può funzionare? Quanto è utile alla credibilità degli intenti perseguiti? Non è forse l’atteggiamento di un giocatore di poker incline al bluff? E cosa accadrà quando gli altri giocatori vorranno «vedere» le carte?
Da più di vent’anni, il governo della Corea del Nord segue una tattica il cui schema è ormai chiaro: alzare periodicamente e in modo deliberato la tensione, poi negoziare per ottenere qualcosa in cambio di apparenti passi indietro nel programma nucleare, fino al successivo turno tensione-negoziato.
Quando Trump «cinguetta» in risposta all’erede dinastico della Corea del Nord: «Anch’io ho un bottone nucleare, ma è molto più grande e potente del suo», può far pensare a certi confronti tra ragazzini, ma mostra anche una pericolosa tendenza alla brinkmanship.
In questo schema di cose, un primo rischio è che il gioco sfugga di mano; oppure che il vantato «bottone» nordamericano si riveli una delusione, con conseguente perdita di credibilità.
Dal punto di vista degli interessi dell’imperialismo, la politica estera di Trump risulta incoerente e sbagliata nel metodo e nel merito - è il peggior Presidente del secondo dopoguerra, probabilmente da un secolo a questa parte. Gli ottimisti sperano possa essere opportunamente corretta: ma devono fare i conti con la definitiva natura imperiale che la presidenza ha assunto intorno alla metà del XX secolo.
Il potere presidenziale nei campi della difesa e della politica estera si è esteso ben oltre la lettera della Costituzione ed è difeso in termini e per situazioni che sarebbero stati inaccettabili anche per i più interventisti fra i Presidenti del XIX secolo.
La tendenza è irreversibile perché poggia su cambiamenti strutturali della società americana e dei suoi rapporti con il mondo: per questo motivo la «presidenza imperiale» si può intendere come un graduale accumulo di precedenti e una volontaria delega di poteri da parte del Congresso.
Con risoluzioni come quella sulla difesa di Formosa nel 1955, sul Medio Oriente nel 1957, in seguito all’incidente del Golfo del Tonchino nel 1964, e l’autorizzazione all’uso della forza militare del 14 settembre 2001 - per citare alcuni esempi storici - il Congresso ha volontariamente ed entusiasticamente ceduto al Presidente di turno il potere che la Costituzione gli attribuisce: decidere quando e contro chi dichiarare guerra e autorizzare operazioni militari limitate diverse dall’autodifesa.
Il fatto si spiega con la convergenza bipartisan intorno agli obiettivi fondamentali della politica estera ed è legittimato dall’estensione sempre più ampia della nozione di difesa, fino all’azione preventiva prima ancora che la minaccia si manifesti concretamente. Tesi che come minimo è costituzionalmente assai discutibile, ma materialmente coerente con la dimensione mondiale dell’imperialismo statunitense e le resistenze con cui deve fare i conti.
Tuttavia, la forza della «presidenza imperiale» non è un dato invariabile. Quando il Congresso vuole esercitare le sue competenze deliberative e di controllo, allora il carattere imperiale della presidenza si ridimensiona (come nei primi anni successivi allo scandalo Watergate), oppure deve prendere strade politicamente e penalmente rischiose.
Il momento peggiore per Reagan, ad esempio, fu lo scandalo Iran-Hezbollāh-Contra, originato dal fatto che l’Amministrazione dovette trovare il modo di aggirare limiti e divieti imposti dal Congresso al finanziamento della guerriglia antisandinista: un imbroglio intercontinentale completamente illegale, che comportava la vendita di missili antiaerei all’Iran in cambio della liberazione di ostaggi americani detenuti da Hezbollāh in Libano, per poi canalizzare i 18 milioni di dollari ricavati dallo scambio verso i Contras in Nicaragua.
La politica estera di Clinton fu assai condizionata dalla maggioranza repubblicana del Congresso: la situazione di divided government - presidenza e maggioranza di entrambe le camere a partiti diversi - è ora più frequente che in passato e può quindi indebolire la linea dell’amministrazione o rigettarne iniziative, ad esempio la ratifica di trattati.
Il contrasto riguarda i mezzi e i modi, non i fini fondamentali della politica estera e della difesa: nondimeno, in certe crisi può avere conseguenze rilevanti.
Oltre che dalla rivalità fra i partiti, l’atteggiamento del Congresso nei confronti della politica estera del Presidente dipende da fattori come il successo delle iniziative presidenziali, la popolarità del Presidente (e pertanto la convenienza per i legislatori di allinearsi all’amministrazione), e l’intensità con cui è percepita una minaccia internazionale, che permette di giocare la carta patriottica del rally round the flag, dell’unità nazionale.
Viceversa, tanto più nella società è forte l’opposizione alla guerra e tanto minori sono la popolarità e la legittimazione di un Presidente - e Trump ottenne 2,9 milioni di voti meno di Hillary Clinton, un record negativo - tanto maggiori le ripercussioni sui rapporti fra Presidente e Congresso e le divergenze fra e negli apparati statali.
I livelli insuperati dei picchi di popolarità per Bush padre all’inizio dell’attacco all’Iraq e di Bush Jr. dopo gli attentati del 2001 non impedirono al primo di perdere le elezioni presidenziali del 1992 e al secondo di affondare nell’impopolarità, anche questa insuperata.
Trump non ha potuto impedire che alla fine di luglio 2017 il Congresso approvasse una legge che prevede nuove sanzioni contro la Russia (e l’Iran e la Corea del Nord). Al capo dell’esecutivo rimane ovviamente una certa libertà di manovra nell’applicazione più o meno celere ed efficace di queste sanzioni, ma l’obbligo rimane: su questa base, infatti, viene criticato.
Si tratta di un vincolo determinato da una schiacciante maggioranza bipartitica che è un chiaro segnale: 98 favorevoli e 2 contrari al Senato, 419 contro 3 alla Camera dei rappresentanti. Curiosamente, questi voti sono quasi identici a quelli per le risoluzioni sul Golfo del Tonchino (88 contro 2 al Senato, 416 a 0 alla Camera) e del 14 settembre 2001 (98 a 2 al Senato, 420 contro 1 alla Camera).
Di conseguenza, le speranze degli ottimisti non sono prive di fondamento; tuttavia sono assai precarie e incerte. Gli aggiustamenti alla visione del mondo, alla retorica e alle promesse elettorali dovrebbero essere così importanti da risultare in una politica estera decisamente non-trumpiana. Sarebbe un bel problema per la coerenza e la credibilità del Presidente della maggior potenza mondiale, che non può essere rimosso agevolmente né pare avere, al momento, gravi problemi di salute.
Dal punto di vista degli oppressi e degli sfruttati, è questa una buona notizia? Non proprio, perché alle «normali» nefandezze dell’imperialismo si aggiungono i pericoli che possono scaturire dall’incoerenza e dall’impopolarità.
Dai sondaggi Gallup risulta che il tasso d’approvazione per Trump è al livello di quello del secondo mandato di Bush figlio: una media del 39 e 37% rispettivamente - un disastro che è tanto più significativo perché in questo momento gli Stati Uniti non sono in recessione e il tasso di disoccupazione è al minimo dall’inizio del secolo.
La considerazione finale è questa: se l’idea che gli attentati dell’11 settembre siano stati fabbricati da qualche entità del governo statunitense è un’idiozia, non si può escludere che Trump arrivi a fabbricare una qualche crisi internazionale nella speranza che il popolo si unisca intorno alla bandiera da lui agitata.
1 «We are totally predictable. We tell everything. We’re sending troops. We tell them. We’re sending something else. We have a news conference. We have to be unpredictable. And we have to be unpredictable starting now». Cit. da «Transcript: Donald Trump’s foreign policy speech», The New York Times, 27 aprile 2016 (corsivo mio).
2 Quasi una vendetta che ribaltava su Trump la campagna complottistica di cui era stato un protagonista, mirante a negare a Barack Obama il diritto di accedere alla Presidenza in quanto nato - così erroneamente asserivano - all’estero. Si vedano: «Open letter on Donald Trump from GOP national security leaders», War on the Rocks, 2 marzo 2016 e l’impressionante elenco di repubblicani - in precedenza funzionari della National Security - che si sono opposti alla campagna presidenziale di Trump.
3 Il testo classico sull’argomento è di Arthur M. Schlesinger Jr.: The imperial presidency, Houghton Mifflin, Boston 1973 [La presidenza imperiale, Edizioni di Comunità, Milano 1980]. La presidenza di Bush figlio - e le implicazioni nazionali e internazionali della «guerra al terrore» - ha originato molti studi polemici. Al riguardo segnalo: Andrew Rudalevige, The new imperial presidency: renewing presidential power after Watergate, University of Michigan Press, Ann Arbor (MI) 2005, che ricostruisce tutta la questione dalle origini in modo molto dettagliato, sia per gli affari interni che internazionali; William F. Grover-Joseph G. Peschek, The unsustainable presidency: Clinton, Bush, Obama, and beyond, Palgrave Macmillan, New York 2014; Ryan C. Hendrickson, Obama at war: Congress and the imperial presidency, University Press of Kentucky, Lexington (KY) 2015; Michael A. Genovese e David Gray Adler, The war power in an age of terrorism: debating presidential power, Palgrave Macmillan, New York 2017.
Il punto di vista imperiale è invece difeso da John Yoo in The powers of war and peace: the Constitution and foreign affairs after 9/11, University of Chicago Press, Chicago 2005. Mentre lavorava nell’Office of Legal Counsel del Dipartimento di Giustizia, Yoo fu autore di alcuni dei più memorabili memorandum di consigli legali per l’amministrazione di Bush Jr., in particolare in materia di iniziativa militare, di standards for interrogation, di leggi tortura, di modi per aggirare la Convenzione di Ginevra sul trattamento di prigionieri e civili in guerra e sotto occupazione.
4 Cfr. l’archivio dei rapporti sulla National Security Strategy.
5 Cfr. Perry Anderson, The H-word: the peripeteia of hegemony, Verso, London/New York 2017.
6 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, Einaudi, Torino 1975, pp. 1638 e 2010.
7 U.S. Department of Defense, 2014 Quadrennial Defense Review, Washington 2014, p. 12 (corsivo mio).
8 La responsabilità di proteggere è un principio in linea di massima ampiamente condiviso che prevede che la comunità internazionale si attivi nel caso uno Stato metta in atto o non sia in grado di impedire genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica o crimini contro l’umanità. È stato impiegato in diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, quindi approvate anche da Russia e Cina, ad esempio a proposito della Libia nel 2011 e 2012. Come è ovvio, i problemi nascono al momento di valutare le situazioni e i modi d’applicazione del principio.
9 U.S. Department of Defense, 2018 Nuclear Posture Review, febbraio 2018, pp. 67-8.
10 Ibid., p. 21 (corsivo mio).
11 Stockholm International Peace Research Institute, Trends in world military expenditure, 2016, aprile 2017.
12 George Washington, Farewell address, 19 settembre 1796; cfr. la sua analisi da parte di Felix Gilbert in To the Farewell address: ideas of early American foreign policy, Princeton University Press, Princeton (NY) 1961.
13 Susan Strange, Capitalismo d’azzardo, Laterza, Roma/Bari 1988, p. 71.
14 Sulla crisi terminale dell’Urss e l’utilizzo dei poteri dell’élite «comunista» per convertirsi in classe capitalista: David M. Kotz-Fred Weir, Russia’s path from Gorbachev to Putin: the demise of the Soviet system and the new Russia, Routledge, London/New York 2007; Simon Clarke-Peter Fairbrother-Michael Burawoy-Pavel Krotov, What about workers? Workers and the transition to capitalism in Russia, Verso, London 1993; Simon Clarke, The development of capitalism in Russia, Routledge, London/New York 2007. Sulle contraddizioni dei rapporti di produzione sovietici ritengo indispensabili due lavori di Donald Filtzer, entrambi pubblicati da Cambridge University Press: Soviet workers and de-stalinization: the consolidation of the modern system of Soviet production relations, 1953–1964 (Cambridge 1992) e Soviet workers and the collapse of perestroika: the Soviet labour process and Gorbachev’s reforms, 1985–1991 (Cambridge 1994).
15 Per comparazione: secondo una stima, gli attacchi mediante droni in Pakistan durante l’amministrazione Bush furono 45 - di cui 35 nel 2008 - e 1 in Yemen; durante il primo mandato di Obama, rispettivamente, 280 e 58 (Ryan C. Hendrickson, Obama at war: Congress and the imperial presidency, cit., p. 30).
16 Trovo particolarmente utili per la ricchezza informativa, a prescindere dalle valutazioni degli autori: per la storia delle fasi della politica estera russa, con riferimento anche ai diversi orientamenti geopolitici, Andrei P. Tsygankov, Russia’s foreign policy: change and continuity in national identity, Rowman & Littlefield, Lanham (MD) 2006; per l’analisi dettagliata della politica estera russa regione per regione, in tutti i campi e per ciascuno Stato ex sovietico, Bertil Nygren, The rebuilding of greater Russia: Putin’s foreign policy towards the CIS countries, Routledge, London/New York 2008; per l’analisi dei rapporti fra Cina e Russia, della cooperazione e del reciproco opportunismo, Bobo Lo, Axis of convenience: Moscow, Beijing, and the new geopolitics, Chatham House, London 2008.
17 Cfr. Michele Nobile, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari ed., Bolsena 2006.
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