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venerdì 3 novembre 2017

ULTERIORI SVILUPPI NEL VICINO ORIENTE, di Pier Francesco Zarcone

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

Raqqa, 21 ottobre 2017 © Bülent Kiliç
La svolta militare nella guerra siriana sembra essere definitiva… almeno secondo Robert S. Ford, ex ambasciatore nordamericano a Damasco, noto per le collusioni con gli integralisti islamici locali.
Sebbene il conflitto non sia ancora terminato, in un recente articolo pubblicato su Foreign Affairs Ford ha scritto che l’esercito siriano ha ormai vinto la guerra e che «gli Stati Uniti dovranno abbandonare qualsiasi speranza di mantenere una regione curda indipendente», non avendo più «alcuna opzione buona in Siria», cosicché «gli auspici di disfarsi di Assad […] sono fantasie inverosimili».
A determinare questa situazione è stato l’intervento russo. Sorge quindi spontanea la domanda: perché e in quale modo i Russi l’hanno spuntata? Al riguardo è necessario chiarire alcuni punti.
In primo luogo va ricordato che non si deve mai entrare in un conflitto senza avere un obiettivo politico ben delineato e delimitato: in questo caso si trattava esclusivamente del salvataggio dell’attuale governo siriano. Secondariamente, il Cremlino ha compreso con chiarezza che molti degli attori del conflitto in Siria - peraltro frammentati - erano la longa manus, o soggetti supplenti, di entità esterne quali Usa, Turchia, Partito dell’Unione democratica (Pyd - Partiya Yekîtiya Demokrat - organizzazione siriano-curda di opposizione), Giordania e anche Israele. La Russia ha trattato diplomaticamente con tutti questi soggetti, provocando ricadute anche sul campo di battaglia.
Inoltre, per non restare intrappolata in una palude senza via di scampo, Mosca ha utilizzato con accortezza ed efficacia risorse molto limitate: dai 4 ai 5 mila militari e dai 50 ai 70 mezzi aerei, per un costo di circa 3 milioni di euro al giorno (in pratica non più di un quinto delle spese militari statunitensi nel Vicino Oriente). E le perdite subite sono state più che contenute.
Dal rapporto fra mezzi impiegati e risultati pratici taluni hanno concluso per una “produttività militare” russa superiore a quella degli Stati Uniti, anche perché i successi sul campo non sono affatto mancati. D’altro canto la Russia ha impiegato immediatamente e nella sua completezza il dispositivo destinato alla Siria - di fatto senza inutili preavvisi - e, a differenza di quanto avvenuto nella cosiddetta “coalizione a guida Usa”, non ha avuto bisogno di implementarlo in misura rilevante.
Dal punto di vista politico la Russia è intervenuta in prima persona, vale a dire senza fingere che l’ulteriore fase di sforzo bellico fosse sostenuta dalle Forze armate siriane - il che nel mondo arabo può pagare molto. Niente finti “consiglieri” che ufficialmente non combattono, quindi, bensì presenza e impegno diretti a fianco dell’alleato.
Si è detto che Mosca è stata capace di adottare nel modo giusto la cosiddetta “strategia del pedone imprudente”, cioè di chi, nell’attraversare con estrema audacia una strada molto trafficata, riesce a far fermare le auto piuttosto che esserne travolto.
Una strategia dal rischio assai calcolato, poiché al momento né gli Stati Uniti né la Russia cercano lo scontro diretto; di conseguenza il primo dei due che riesca a “piazzarsi” su un determinato “terreno” impedisce de facto all’altro di adottare la stessa iniziativa.
Gli Usa invece - minacce a parte - hanno esitato troppo. In più, con il dispiegamento di missili S-300 - e più tardi S-400 - i Russi hanno concretamente imposto a Washington una sorta di no-fly zone: magari non assoluta, se si tiene conto che, in violazione di un accordo concluso poche ore prima coi Russi, gli Stati Uniti hanno bombardato le truppe siriane assediate dall’Isis a Deir ez-Zor, uccidendo 62 soldati di Damasco e fungendo in termini reali da supporto - seppur vano - alla concomitante offensiva di terra delle milizie del “califfato” di al-Baghdadi (nemico degli Usa, in teoria). L’attacco missilistico alla base siriana di Shayrat ordinato da Trump è però partito dal mare.
In termini militari la conclusione è che, se da un lato il potere russo di interdizione aerea non è totale, dall’altro il ricorso statunitense alla prudenza attesta che i cieli siriani sono sostanzialmente controllati dai Russi. Putin ha sicuramente rischiato, gli Stati Uniti invece no; e così facendo non hanno fornito ai loro alleati siriani, pseudo-democratici o “islamici moderati”, gli armamenti moderni che essi sollecitavano - missili anticarro e terra-aria - né tantomeno si sono impegnati sul terreno con propri militari.
Infine i Russi hanno mostrato ai settori nemici non irriducibili la possibilità di un negoziato; su questa strada, d’intesa col governo siriano, hanno creato il Centro di Riconciliazione, che garantisce il trasporto protetto per i nemici dichiaratisi vinti e le loro famiglie - e l’aiuto alla popolazione civile.

IN IRAQ

Nel quadro dell’attuale confronto fra il governo di Baghdad e quello autonomo di Erbil a seguito del referendum curdo sull’indipendenza di settembre, le Forze armate irachene puntano a riprendere la città assira di Faysh Khabur, valico di frontiera con la Turchia. Ciò significherebbe togliere agli Stati Uniti il libero passaggio verso la Siria settentrionale, garantito invece dai Curdi.
Ma c’è di più: il controllo iracheno su questo valico consentirebbe l’esportazione di petrolio senza dover versare ai Curdi parte degli introiti o tangenti; la zona di Erbil resterebbe isolata dal nord della Siria, di conseguenza gli Usa non potrebbero più fornire con la medesima facilità aiuti militari ai ribelli siriani attraverso l’Iraq. In teoria a Washington resterebbe la via della Turchia: ma Ankara lo consentirà, visto che considera i Curdi siriani espressione del Pkk?
Oltretutto gli Stati Uniti hanno in Iraq una precisa esigenza: emancipare il governo di Baghdad dall’influenza iraniana. Tuttavia l’impresa non è per niente semplice, non tanto per la comune fede sciita - giacché la comunanza di religione può anche, a seconda dei casi e degli interessi, rivelarsi un vincolo assai labile - quanto per il fatto che la riconquista dei territori iracheni occupati dall’Isis è stata essenzialmente opera delle Forze armate irachene, che includono combattive milizie sciite, in sostanza però controllate da Teheran.
Anche qui la “coalizione a guida Usa” si è rivelata un fallimento. Queste milizie sciite sono le stesse che in buona parte hanno sottratto Kirkuk all’occupazione curda.
A ottobre, in colloqui col Primo ministro iracheno Haydar al-ʿAbadi, il segretario di Stato Rex Tillerson ha tentato di rilanciare la tesi statunitense sulla pericolosità di tali milizie e la conseguente necessità di dissolverle, nonché sull’opportunità di spostare l’asse di gravità politica dell’Iraq verso… l’Arabia Saudita!
La risposta ricevuta non è stata affatto conforme alle aspettative. Un portavoce di al-ʿAbadi ha subito biasimato l’interferenza nelle questioni interne irachene, e in seguito lo stesso Primo ministro ha riferito a Tillerson che le Forze di mobilitazione popolare di cui le milizie sciite sono parte appartengono alle istituzioni irachene e rappresentano la speranza del Paese e della regione. Successivamente, in un’intervista concessa al Washington Post, al-ʿAbadi ha testualmente dichiarato: «Vorremmo lavorare con voi, con tutt’e due», riferendosi a Stati Uniti e Iran. «Ma per favore, non portate i vostri problemi in Iraq. Potete sistemarli altrove», evidenziando così l’opportunità del ritiro degli Usa dall’Iraq e il fatto che il loro supporto aereo non è più necessario.
Sulla questione del referendum curdo, a motivo degli interessi convergenti di Turchia e Iran, l’Iraq non è affatto isolato. Certo è che riguardo al problema curdo gli Stati Uniti sono visti con estremo sospetto - a voler usare un eufemismo - da Baghdad, Ankara e Teheran; e non è casuale che in un recente incontro fra l’ambasciatore nordamericano Douglas Sliman e il vicepresidente iracheno Nuri al-Maliki, quest’ultimo abbia affermato che il suo governo «non permetterà la creazione di una seconda Israele nell’Iraq settentrionale»: evidentemente l’esistenza di uno Stato curdo indipendente viene vista in questi termini.
Inoltre è ormai palese l’intenzione statunitense di utilizzare la presenza in Iraq soprattutto come base di scontro con l’Iran, più che per combattere l’Isis. Per Washington si tratta di interferire negli aiuti militari iraniani a Siria e Libano, non restare del tutto tagliata fuori dallo scenario del riassetto postbellico della Siria e se possibile effettuare azioni destabilizzanti in Iran, tanto più che Washington è ancora presente al di là dei suoi confini orientali, in Afghanistan: a questo punto ritirarsi dall’Iraq vorrebbe dire eliminare una ganascia della virtuale tenaglia stretta attorno a Teheran.

IN SIRIA

Ancora se ne parla poco, ma fra breve si aprirà la questione della città di Raqqa, ex capitale del “califfato” Isis ora occupata dai Curdi, appoggiati dagli Stati Uniti in veste di Forze democratiche siriane, che annoverano fra le loro fila circa duemila mercenari europei e nordamericani provenienti dalla Blackwater [ora Academi (n.d.r.)].
Parlare di “conquista” di Raqqa è alquanto improprio: dopo essere stata sistematicamente bombardata dall’aviazione nordamericana, infatti, la città non è stata teatro di eroici combattimenti contro i jihadisti, che si sono invece accordati con i Curdi così da poterla tranquillamente evacuare con armi, bagagli e famiglie al seguito.
Nonostante quanto dichiarato da fonti ufficiali di Washington nel senso della loro estraneità all’accordo, la BBC ha reso pubblico un video del 12 ottobre in cui si può vedere il generale statunitense Jim Glynn negoziare l’evacuazione con rappresentanti dell’Isis. Ogni commento è superfluo.
Fra non molto purtroppo si saprà dove saranno andati a far danni i jihadisti messisi in salvo. I maligni pensano che li rivedremo all’opera per conto della strategia della tensione messa in atto dagli Stati Uniti in qualche zona calda del pianeta (magari in Africa settentrionale), dove Washington sosterrà - o già sostiene - di condurre una lotta implacabile contro l’Isis e i suoi alleati.
Nel frattempo c’è da scommettere che il governo di Damasco non rientrerà in possesso di Raqqa se non a seguito di eventi non ancora prevedibili.

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