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lunedì 30 ottobre 2017

GLI INAVVERTITI CAMBI DI EQUILIBRIO NEL VICINO ORIENTE, di Pier Francesco Zarcone

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

© Neil Hester
Molto spesso il succedersi degli avvenimenti e i connessi “bombardamenti mediatici” distolgono l’attenzione dal significato più profondo - o più ampio - di quanto è accaduto e sta accadendo… e non sempre dai commentatori di professione viene il necessario aiuto. Questo vale in particolar modo per il Vicino Oriente, teatro di un plurisecolare conflitto fra Islam sunnita e Islam sciita.
In genere si trascura l’essersi realizzata una sconfitta di notevoli proporzioni del primo di questi due Islam, con la conseguente apertura di spazi di rilievo per gli Sciiti. I paesi sunniti hanno infatti perso tutte e tre le guerre contro Israele, e l’Iraq di Saddam Husayn (più o meno laico, ma sunnita) a sua volta ne ha perse altrettante - la guerra con l’Iran e le due contro gli Stati Uniti. Oltre a quel regime si è dissolto il dominio della minoranza sunnita sul resto della popolazione irachena.
Sul campo di battaglia l’Isis è ridotto al lumicino e il sogno/incubo del “califfato” si è dissolto; nello Yemen, l’Arabia Saudita sta pagando a caro prezzo la sua aggressione, essenzialmente per mano degli Sciiti locali; per non parlare del nazionalismo arabo e/o panarabo che da tempo ha fatto bancarotta (lasciamo stare il problema di chi ne sia stato il maggior responsabile).
Per contro l’Islam sciita (di cui l’Iran resta sempre il fulcro) ha collezionato una serie di successi locali e strategici, un risultato dovuto in buona parte al “satana” statunitense, che finora non ne ha azzeccata una - per ignoranza, noncuranza e incapacità di tattiche e strategie degne di questo nome.
È il caso di rimarcare l’abilità manovriera della dirigenza iraniana post-khomeinista, che ha abbandonato l’originaria e pasticciona aura rivoluzionaria di Khomeini (peraltro innocua in termini concreti) e optato per un freddo pragmatismo politico, l’operare sotto la copertura di intermediari locali, le pazienti operazioni di lunga durata e, naturalmente, il pronto approfittare dei colossali errori altrui.
In Libano l’appiattimento statunitense sulla politica israeliana ha creato le premesse per l’espansione di Hezbollāh, prontamente armato ed organizzato da Teheran, col risultato che finora l’unica sconfitta militare israeliana è avvenuta in Libano nel maggio 2000 ad opera degli Sciiti libanesi, con le truppe sioniste costrette a ritirarsi da quel Paese.
Oggi Hezbollāh dispone di una forza militare di tutto rispetto, non già come esercito convenzionale ma come forza guerrigliera che nulla ha da invidiare alla perizia dei Vietcong, con l’aggiunta di disporre di tecnologie modernissime di cui hanno fatto le spese le Forze armate israeliane.
In Iraq è stato anche peggio: non avendo mai capito che non si trattava affatto di una nazione, e che quella costruzione artificiale voluta dalla Gran Bretagna dopo la Grande Guerra si reggeva solo in virtù del suo esercito, Washington ha avuto allora la bella pensata di dissolvere le Forze armate irachene subito dopo la Seconda guerra del Golfo, creando automaticamente un vuoto di base subito utilizzato dall’Iran - innanzitutto sul piano politico.
Ed ecco che ora, per la prima volta dal Califfato fatimida del Cairo (dal IX al XII secolo), abbiamo due Stati arabi a guida sciita: la Siria (che già lo era) e l’Iraq.
E arriviamo appunto alla Siria. Sulla spontaneità delle cosiddette “primavere arabe” quali coagulo di innegabili malesseri locali, i dubbi ormai superano le certezze; e comunque sta di fatto che le manovre statunitensi nell’assalto al governo di Damasco - con il fatale sostegno alle più pericolose e crudeli formazioni dell’estremismo islamista (sunnita) - sono state sparigliate dall’intervento russo a fianco di Iran e Hezbollāh.
La conclusione è che oggi esiste un “corridoio sciita” da Damasco e Beirut a Teheran, passando per Baghdad. Il palese tentativo di Washington di interromperlo utilizzando i Curdi di Siria è votato al fallimento sia per la prevedibile opposizione della Turchia che per la scarsa consistenza militare dei Curdi, checché ne dicano i media occidentali legati al “pensiero unico”, oltre che per la dimostrata capacità iraniana (lo spirito di Khomeini è morto da tempo) di saper manovrare per i propri fini anche con i Curdi sunniti, dal Pkk turco al Kurdistan iracheno.
In più il notevole rafforzamento militare dell’Iran, per quanto al momento solo in termini di armamento convenzionale, fa sì che questo Paese risulti essere un’importante potenza regionale nel Golfo Persico, tale che, nell’ipotetico caso di un ritiro degli Stati Uniti dall’area, essa cadrebbe subito sotto l’egemonia iraniana.
Al riguardo bisogna intendersi. L’esperienza della passata guerra con l’Iraq è stata per Teheran assolutamente preziosa per attrezzarsi a non ricadere militarmente nella stessa situazione e trovare alternative belliche. È fuori discussione che se gli Stati Uniti volessero attaccare l’Iran (come ogni tanto Trump minaccia di fare), esso verrebbe sconfitto nel primo round, ma in virtù dell’esperienza di guerra “asimmetrica” accumulata in Libano e nell’Iraq occupato dagli Usa sarebbe sicuramente in grado già in questa fase di arrecare danni consistenti all’aggressore, anche economici se riuscisse a bloccare lo stretto di Ormuz, da cui passa giornalmente una quantità impressionante di petrolio.
Nel secondo round, poi, per gli Statunitensi comincerebbero i veri guai: controllare l’immenso territorio iraniano sarebbe pressoché impossibile anche per la loro potenza bellica, e a meno che non decidessero di dare luogo a indiscriminate distruzioni di centri abitati (e delle popolazioni civili che li abitano), le tecniche di guerriglia e terroristiche ben conosciute dagli Iraniani farebbero sì che l’afflusso giornaliero negli Usa di aerei da trasporto carichi di bare con militari morti sconvolgerebbe la psicologia poco spartana dell’Americano medio. Per non parlare dei costi economici.
È risaputo che gli Stati Uniti continuano a privilegiare i rapporti con i paesi sunniti e che l’instaurazione di migliori relazioni con quelli sciiti è considerata una specie di tradimento. In quest’ottica gli “esperti” occidentali di politica estera - tra cui anche “orientalisti” ufficialmente apprezzati - considerano generalmente l’Islam sciita una specie di relitto medievale. Il che porta a una sopravvalutazione delle capacità a fini costruttivi del Sunnismo nel Vicino Oriente… fermo restando che a essere davvero medievale è proprio il Sunnismo.
Nell’area sunnita gli effetti della mancanza di una gerarchia islamica unificatrice e della radicata presenza di una forte sclerosi speculativa - in senso molto ampio, cioè culturale e politico - dovrebbero essere evidenti. Il primo deficit è dovuto all’incapacità di dare ordine al caos politico mediorientale, e il secondo elemento può essere attribuito all’ulteriore mancanza di presupposti per produrre un programma politico minimamente efficace. Si potrebbe parlare anche di “credibilità”, ma il tasso di creduloneria di parte delle masse arabe porta a omettere questo aspetto.
Il massimo di programma politico che il mondo sunnita è riuscito a produrre consiste - all’interno del quadro del “ritorno alla purezza delle origini” - nel proporre il Corano come costituzione islamica. Che nel VII secolo della nostra era storica questo libro sia stato un’importantissima fonte di diritto è fuor di dubbio: solo che oggi è del tutto inadatto alla bisogna. È stato osservato che sarebbe come se gli odierni Cristiani fondamentalisti proponessero l’adozione della parte giuridica del Vecchio Testamento a mo’ di carta costituzionale e codice civile e penale per risolvere i problemi politici moderni.
A ciò si aggiunga la sclerosi ermeneutica del Corano e della Sunna che da secoli affligge il mondo sunnita. Sclerosi dovuta a due concomitanti fattori: il prevalere dell’interpretazione letteralista del sacro testo e la cosiddetta “chiusura della porta dell’ijtihād”, ovvero dell’esercizio del giudizio indipendente del giurista, cioè il blocco dell’evoluzione della giurisprudenza, importante quanto la legge su cui opera.
Nessuno di questi elementi negativi esiste nell’Islam sciita, che infatti presenta una maggior capacità di adattamento; ciò è ignorato dai media occidentali, pur essendo riconosciuto dai veri esperti della materia.
Si potrebbe aggiungere che generalmente gli esponenti dell’Islam politico sciita hanno alle spalle studi rigorosi, anche filosofici (brutta parola per i Sunniti), mentre nel similare ambiente del mondo sunnita la stessa conoscenza coranica spesso e volentieri lascia a desiderare - di qui la proliferazione degli “imām fai-da-te”, ma fonte di ispirazione per creduloni e ignoranti. Per fare un esempio, nell’area sciita un Usāma bin Lādin sarebbe rimasto un “signor nessuno”, altro che guida islamica.
La Costituzione della Repubblica islamica dell’Iran non è il testo fondamentale di uno “Stato islamico” come confusamente lo concepiscono i Sunniti, bensì prevede istituzioni repubblicane di tipo europeo, sia pure con correzioni musulmane (per esempio la Guida Suprema che sostanzia il sistema del velāyat-e faqih, o «governo del giureconsulto»).
E d’altronde in Libano Hezbollāh - nel suo pieno sviluppo e potere - ha accettato lo Stato pluralista in cui i Libanesi delle varie fedi religiose convivono sotto la stessa giurisdizione sostanzialmente laica. Pragmatismo prima di tutto, per un mondo che - per quanto oggi sciita - è pur sempre erede della plurimillenaria civiltà persiana.
La storia ci insegna quanto contino i rapporti di forza e quanto sia allettante saltare sul carro dei vincitori; tuttavia oggi come oggi il quadro è ancora confuso e tutto è teoricamente possibile.
Né può dirsi che lo Sciismo si sia espanso a danno del Sunnismo, quando le città sacre della Penisola arabica restano nelle mani dell’Arabia Saudita. Ciononostante si dovrebbe registrare l’espansione politica (prima ancora che militare) di quella “casa madre” dello Sciismo che si chiama Iran, da cui consegue il rafforzamento degli Sciiti nella Mezzaluna Fertile.
Questo dato di fatto contrasta con gli interessi delle grandi potenze, anche perché i vecchi alleati sunniti consentivano le note manovre, mentre avere a che fare con un interlocutore quale l’Iran significa che tutto diventa meno agevole, non foss’altro per il fatto che questo Paese persegue un proprio disegno imperiale su vasta scala, e se la situazione attuale dovesse consolidarsi l’interesse iraniano passerebbe allora a concentrarsi sulla Penisola arabica. Non è un caso che recentemente il re dell’Arabia Saudita sia volato a Mosca, non a Washington.
Ma nei meccanismi politici c’è sempre la possibilità che qualche dettaglio li inceppi. I sogni egemonici iraniani richiedono che le organizzazioni sciite (tutte, volenti o nolenti, legate ormai all’Iran) siano anche in grado di attrarre consenso in ambienti sunniti: ciò è riuscito in Libano e parzialmente in Siria.
Tuttavia l’area più difficile è l’Iraq, il paese arabo più xenofobo e quello maggiormente scosso da contrapposizioni settarie. Il governo iracheno è oggi dominato dagli Sciiti, e le sue truppe, rafforzate da milizie popolari sciite, dopo la conquista di Mosul stanno eliminando la presenza dell’Isis nei territori rimanenti.
Orbene, se le milizie sciite (bene o male controllate dagli Iraniani) non si abbandoneranno a indiscriminate vendette sulla popolazione sunnita, le cose procederanno per il verso giusto. Altrimenti per Teheran sarebbe una spiacevole battuta d’arresto.

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